15/18
giorno - Da Gilgit a Karachi
I
tre giorni che ci separano dalla fine del viaggio scorrono in un mondo di
contrasti stridenti. Si comincia con il panorama quieto e impressionante della
confluenza tra il Gilgit e le acque limacciose dell'Indo, dove le montagne di
Karakorum, Himalaya e Hindukush si incontrano in quello che i pakistani chiamano
comprensibilmente il "punto unico"; poi è la piramide del Nanga
Parbat a distrarci dal degrado sempre più appariscente dei villaggi che si
susseguono sul nostro cammino.
La
spaventosa bellezza dello spettacolo naturale fa da cornice alla strada che
porta nel Kohistan. "È un'area tribale", spiega Amir. "Gli
abitanti di questi territori sono scontrosi, bellicosi, quasi sempre armati. Non
vedremo donne finché saremo in questa regione, perché qui la legge islamica è
applicata in modo severissimo. Sono così gelosi del loro isolamento che durante
la costruzione della Kkh provocarono incidenti persino con gli operai
pakistani". Non fa in tempo a finire la frase che il pullman fa tappa in un
bar che sembra uscito da una scena di Un
tranquillo week-end di paura. "Sai perché gli uomini portano una
coperta sulla spalla? Per quattro ragioni: ripararsi da un freddo improvviso,
imbandire la tavola, pregare, ma soprattutto nascondere il fucile".
Un
temporale che preannuncia l'arrivo del monsone provoca sulla carreggiata una
raffica di frane spazzate via in una giornata dai mezzi dell'esercito. Poi,
finalmente, da Besham raggiungiamo la valle del Swat, dove Alessandro Magno,
ammaliato dalla bellezza dei luoghi, si fermò a ritemprarsi con il suo esercito
dopo aver attraversato il passo Khyber.
Noi,
appena meno stremati del grande condottiero macedone, proseguiamo verso
Peshawar, incontrando, ora maestosi ora ridotti a rovine, i resti della civiltà
del Gandhara, testimonianza di quando queste terre - prima ancora
dell'inizio dell'era cristiana - erano la culla dell'arte e della
religione. È il più curioso connubio di stili che si possa immaginare: tra
foglie d'acanto di inequivocabile ispirazione ellenistica, le divinità indù
fanno corona a rappresentazioni del Buddha che hanno le fattezze e l'espressione
di Alessandro. Mette tristezza, rabbia e inquietudine constatare che anche qui
il solo contributo dell'Islam a quell'antica arte sono le tracce di un
punteruolo che ha sfregiato, con sistematica brutalità, ogni volto.
Ammirati
gli splendidi reperti dell'arte buddhista conservati al museo di Peshawar, ci
prepariamo all'ascesa al passo Khyber. Ci vuole la scorta militare, per uscire
dalla città, alle cui porte si stende un incredibile mercato di hashish, oppio
e armi dove un kalashnikov costa poche lire. È il regno incontrastato degli
Afridi, un'altra area tribale che va fino al confine afghano, dove l'esercito
pakistano ha il controllo solo sulla stretta lingua d'asfalto della strada:
fuori di lì, qualsiasi cosa accada non è affare dei militari. La strada si
inerpica tra i cippi in memoria dei Khyber Rifles - i reggimenti dell'esercito
britannico che ripetutamente e invano tentarono la conquista dell'Afghanistan - e le gallerie della ferrovia che arrivava a Landi Khotal, ultimo
villaggio prima della frontiera.
Lungo
i 50 chilometri che portano al passo, nella desolazione di un paesaggio arido e
apparentemente deserto, si susseguono le sontuose abitazioni-polveriera
dei capi Afridi, arricchitisi negli ultimi decenni grazie a ogni genere di
commercio, purché illecito. Da una porta appena socchiusa scorgo le palme che
corrono attorno a un lungo porticato ornato di mosaici, e chissà quali altri
lussi nasconde quel muro...
Solo
tornando verso Peshawar si realizza il contrasto tra quello scorcio e il
panorama offerto dalla baraccopoli dei profughi afghani stabilitisi alla
periferia della città. Un coagulo di abitazioni di fortuna e di economia di
sostentamento, una precarietà che minaccia di diventare regola.
A
Karachi, poche ore ci bastano per vivere l'ultima contraddizione del Pakistan.
Nei giorni scorsi gli scontri politico-religiosi hanno provocato quattro
vittime nella periferia povera di questa metropoli di nove milioni di abitanti,
dove bambini di otto anni lavorano in fabbrica per mezzo dollaro al giorno. E
intanto il premier Nawaz Sharif vuole fare di Karachi un porto franco. Pensa,
così, di attirare gli investitori occidentali "orfani" di Hong Kong
sottraendoli alle lusinghe neocapitaliste del premier cinese Jiang Zemin.
E
qui, alla fine, le strade di Cina e Pakistan convergono sinistramente. Pazienza
se dietro la facciata l'economia non offre grandi garanzie di stabilità,
pazienza se ai dati ufficiali di crescita non corrisponde un aumento
proporzionale del benessere dei cittadini, pazienza se lo squilibrio sociale - soprattutto in Pakistan
- è un abisso tra i diversi strati della
popolazione: l'importante è che risuoni forte il ruggito della tigre asiatica.
|