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giorno - Da Tashkorgan a Gilgit
Attraversiamo
l'altopiano del Pamir in uno spettacolo lunare, con un vento gelido che avvolge
le montagne e ammucchia quantità inverosimili di sabbia in fondo alla vallata
nella quale scorre il fiume Tashkorgan, dove incrociamo rari pastori e famiglie
tagike che rigovernano gli yak fuori dalle yurte, le
caratteristiche tende asiatiche. Ripartendo da Tashkorgan ci siamo
ritrovati in auto un ragazzotto di 18 anni, pechinese, qui già da 11 mesi per
svolgere il servizio militare; ce l'hanno caricato alla dogana della città per
portarlo a dare il cambio ai suoi colleghi ai 4.700 metri del posto di frontiera
del passo Kunjerab. Parla poco, Wang, ma non fatichiamo a capire che se ne
tornerebbe a casa a gambe levate…
Tra
un occhio di sole e una spruzzata di neve, arriviamo al passo accompagnati dalla
fuga in ordine sparso delle marmotte dalla coda lunga (Marmota
caudata), divise tra curiosità e diffidenza.
Cina e Pakistan hanno istituito due parchi nazionali al di qua e al di là del
confine, per proteggere una fauna che ha i suoi bei problemi di sopravvivenza,
in particolare la pecora di Marco Polo o argali del Pamir (Ovis ammon polii),
una specie di grosso stambecco ridotto ormai a
poche unità, e il leopardo delle nevi (Uncia
uncia).
Appena
il tempo della foto di rito davanti al cippo che segna il confine e, già con il
fiato grosso per l'altitudine, ci scaraventiamo sulla Kkh, la Karakorum Highway,
per coprire i 60 chilometri che ci separano da Süst, dove le nostre guide
cinesi ci consegneranno ai loro colleghi pakistani. Cinesi o pakistani che
siano, gli autisti che percorrono questo tratto di strada si lanciano a velocità
folle nella gola che separa Karakorum e Hindukush: più tempo ci si mette a
percorrerla, più è probabile restare presi in mezzo tra le frane che
continuamente flagellano la striscia di asfalto o, peggio, rimanerci sotto.
A
Süst siamo già nella valle dell'Hunza, il piccolo paradiso dei musulmani
ismailiti, i seguaci dell'Islam "progressista" di Karim Aga Khan.
"Lui è stato qui per l'ultima volta nel 1996. Se guardi sui pendii delle
montagne puoi ancora vedere le grandi scritte di ringraziamento che i fedeli
hanno costruito con pietre bianche": si presenta così la nuova guida,
Amir, un trentenne che porta con disinvoltura i suoi bei vestiti di foggia
occidentale anche in questa zona del Paese dove tutti gli uomini sono avvolti
nello shalwar qamiz, il caratteristico camicione lungo fino alle ginocchia.
Gli
investimenti dell'Aga Khan hanno trasformato questa valle in una specie di
prodigio dello sviluppo sostenibile: l'80 per cento della popolazione è stato
avviato all'istruzione, l'agricoltura è fiorente su tutti i versanti delle
montagne, dalle abitazioni spuntano antenne paraboliche che portano il mondo in
queste case, rimaste isolate praticamente fino all'inaugurazione della Kkh.
Persino le donne non portano il velo e partecipano alla vita sociale. Sopra
Karimabad, la città intitolata proprio all'Aga Khan, troneggiano i castelli di
Baltit a Altit, le residenze dei principi del Baltistan, il regno del Pakistan
settentrionale che fino alla metà del secolo resistette a tutti gli assalti
dell'esercito coloniale di Sua Maestà britannica.
Superata
una modernissima scuola dall'illuminante insegna "Avicenna College for
Computer Sciences", scendiamo verso Gilgit lungo quel tratto della Kkh che
ricalca l'antica Via dei Ponti Sospesi, il troncone della Via della Seta che dal
bacino del Tarim collegava la Cina all'India e, attraverso i passi
dell'Afghanistan, alla Persia. Ed è come immergersi gradualmente in un Islam più
cupo, meno sereno. Arrivare a Gilgit è scivolare nel Pakistan che spedisce
interi reggimenti verso un Kashmir assediato senza tregua, nel Paese
intollerante costantemente tenuto in stato di allerta dall'eterna tensione tra
sciiti a sunniti; è avvicinarsi alle regioni oscure dell'Afghanistan, dove le
scuole islamiche allevano i giovani integralisti Taliban, i giustizieri di
Kabul.
È
al bazar di Gilgit che per la prima volta vedo donne che indossano il burka,
il velo che copre anche gli occhi con una fitta rete. È al campo da cricket
che, per la prima volta, un ragazzino replica con un cortese "no, per
favore, sono musulmano" al mio tentativo di fargli una foto.
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