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IMPERATORE DELLA CINA
Autoritratto di K'ang-hsi


Autore Jonathan D. Spence
Editore Adelphi, Milano 
Collana Biblioteca Adelphi 
Prima ediizone Aprile 1986
Pagg. 258
Traduzione dall'inglese di Silvia Gariglio
Titolo originale Emperor of China - Self-portrait of K'ang-hsi
© 1978 Jonathan D. Spence

K’ang-hsi fu Imperatore della Cina fra il 1661 e il 1722. Per larga parte, il suo regno corse parallelo a quello di Luigi XIV. Ma il regno di Francia era giovane in paragone all’Impero cinese: K’ang-hsi era entrato a far parte di una successione di Imperatori documentata da diciotto secoli, e di una storia i cui annali risalivano a quattro millenni prima. «Quasi tutti i dettagli della sua vita mettevano in rilievo la sua unicità e la sua superiorità sui comuni mortali: egli solo si volgeva a sud, mentre i suoi ministri si volgevano a nord; egli solo scriveva in rosso, mentre loro scrivevano in nero; ... e perfino la parola che egli usava per dire “io”, chen, non poteva essere usata da nessun altro». Eppure, la sublime grandezza del Figlio del Cielo fu minacciata, durante il suo lungo regno, da tutte le insidie della vita. E dovette affrontare anche mirabili sorprese: come il contatto con i Gesuiti, che portavano notizie e prodigi da un mondo del tutto sconosciuto, il nostro. Curioso e avido di conoscenze, K’ang-hsi soppesò quelle novità, in parte le accettò, in parte le rifiutò. La sorte lo aveva posto al punto d’incontro fra i due più grandiosi ed efficaci sistemi che la storia abbia conosciuto. Verso la fine della sua vita, toccato dalla malattia, K’ang-hsi promulgò il suo Editto di Commiato, uno dei rari testi scritti da un Potente che non si possono leggere senza commozione: una confessione cerimoniale, lucida e ferma, venata di una somma tristezza. Devoto della perfezione e della cura incessante del particolare, K’ang-hsi ebbe la sventura di trovare il proprio maggior nemico in uno dei suoi cinquantasei figli, l’unico nato da un’Imperatrice e perciò allevato come Erede Legittimo. Dopo decenni di regno, sentiva che la possente macchina dell’Impero rischiava di guastarsi per sempre. Ma non per questo defletteva dalla sua regola: «Tutti gli antichi dicevano che l’Imperatore dovrebbe interessarsi di princìpi generali, senza necessariamente occuparsi dei particolari minuti. Personalmente mi trovo in disaccordo. Trascurare un solo dettaglio potrebbe nuocere al mondo intero, la negligenza di un momento potrebbe danneggiare tutte le generazioni future».

Jonathan Spence, autore di questo libro apparso nel 1974, è un illustre sinologo. Ma qui ha messo la sua dottrina al servizio di un’altra forma letteraria, di cui i cinesi sono stati insuperati maestri: la citazione. Invece di scrivere una biografia di K’ang-hsi, o un’evocazione mimetica come quella delle Memorie di Adriano della Yourcenar, ha lasciato parlare l’Imperatore con le sue stesse parole, componendole in un tessuto dove non si avvertono le cuciture. Rendendosi invisibile, Spence è riuscito a far vivere in noi con imponente nettezza la figura del lontano Imperatore. Così, dopo averlo seguito in guerre, cacce, ispezioni, letture, intrighi, riflessioni, potremo annuire alle parole con cui K’ang-hsi chiudeva il suo Editto di Commiato: «Ho rivelato le mie viscere e mostrato le mie budella, dentro di me non c’è più nulla da rivelare. Non dirò altro».

Jonathan D. Spence è nato in Inghilterra nel 1936. Insegna a Yale, come George Burton Adams Professor of History. Fra le sue opere ricordiamo: To Change China: Western Advisors in China 1620-1960 (1969); The Death of Woman Wang (1978); The Memory Palace of Matteo Ricci (1984).
Di Jonathan D. Spence Adelphi ha pubblicato anche L'enigma di Hu (1992) e La morte della donna Wang (2002). Mondadori ha pubblicato Il figlio cinese di Dio (1999)

 

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