Sommario - I. Accenni nel 1956 - II. Tre settimane nel 1957 - III. Ripensamento del giugno 1957
- IV. Dialogo e apparato.
I. ACCENNI NEL 1956
Per un cinese, l'espressione «centofiori sfoggino i loro colori; cento scuole facciano a gara» richiama un periodo storico (sec. V-III a.C.) chiamato appunto delle
«Cento Scuole» e caratterizzato da un'esuberanza straordinaria di attività intellettuale libera e multicolore. Questo nome venne dato all'epoca, in contrasto con l'era successiva, che vide il prevalere dell'ortodossia confuciana, con la conseguenza che solo un fiore sfoggiava i suoi colori indisturbato, e le voci di altre scuole di pensiero erano ridotte ad un mormorio sommesso.
Nel 1956-'57 viene proclamato in Cina un «pluralismo» di Centofiori che cattiva la fantasia di molti. In realtà, sotto il velo di richiami storici, il Pcc cerca allora nei Centofiori la soluzione ad una doppia crisi: il disagio interno e l'isolamento politico all'esterno.
La crisi interna è determinata sia dai dissensi al vertice del partito, sia dalle difficoltà che creano al partito non pochi quadri di base
(vedi Epurazioni).
Il Pcc sente inoltre di aver bisogno più che mai dell'opera di individui professionalmente preparati, non necessariamente del tutto identificati con le posizioni ideologiche del partito, ma disposti almeno a collaborare; tuttavia le ripetute campagne di rieducazione inducono gli intellettuali a prendere le distanze dai loro tutori politici. I dirigenti del partito si rendono conto di trovarsi in alto, molto in alto. Gli intellettuali non comunisti «subiscono»
il regime. Non ci si guadagnerebbe ad istituire una <«dialettica» , che dopo tutto è nello spirito del marxismo? Se la gente parlasse, se gli specialisti non comunisti avessero modo di dire la loro, forse il partito potrebbe uscire dall'isolamento.
Nel 1956-'57, i Centofiori devono soprattutto rompere il ghiaccio. La «liberalizzazione» si svolge in due fasi: la prima, del 1956, è poco più che la sua proclamazione; la seconda, del 1957, si trasforma in qualcosa di molto diverso dallo schema originario.
L'iniziativa della liberalizzazione è attribuita allo stesso Mao, che annuncia lo sboccio dei Centofiori il 2 maggio 1956 davanti a un'udienza ristretta: il Consiglio supremo dello Stato, organo consultivo previsto dalla Costituzione 1954 (e ora abolito). Lu Dingyi, direttore dell'Ufficio dì propaganda del Pcc, dilucida poi i principi della liberalizzazione prevista, in un discorso pubblico del 26 dello stesso mese.
In letteratura, arte e scienza, dice Lu, sono ammesse opinioni diverse, fermo restando che devono rimanere al servizio della politica di partito. Solo chi appartiene al «popolo» può godere di questa libertà; quindi sono esclusi tutti i «contro-rivoluzionari». È anche permesso che si manifestino idee non marxiste, «come si permette in Cina ai predicatori cristiani di parlare nell'interno delle chiese»: basta non combattere il marxismo con intenzioni di sabotaggio. Le discussioni scientifiche siano libere: i problemi di scienza non vanno infatti risolti con provvedimenti amministrativi. Si può arrivare fino ad esprimere opinioni scientifiche divergenti da quelle approvate di autori socialisti. È lecito leggere pubblicazioni straniere e scritti non comunisti.
Il discorso del 26 maggio 1956 contiene alcune innovazioni, riguardo al trattamento adottato ordinariamente contro le «deviazioni ideologiche». A chi viene attaccato per le idee che ha espresso, dice Lu, è consentito rispondere alle critiche, e non deve essere costretto a scrivere una ritrattazione. Se una questione è già definita d'autorità, si può sempre proseguire la discussione su problemi connessi. In filosofia e nelle scienze sociali ci si può aspettare una lotta continua; ma non per questo tutto deve essere deciso monopolisticamente: sarebbe la morte del pensiero. La minoranza non è obbligata a seguire la maggioranza, quando si tratta di dispute di idee.
È necessario distinguere vari tipi di pensatori borghesi, raccomanda poi Lu. Gli uomini che si servono della cultura per combattere il popolo, bisogna farli fuori; le cannonate contro quelli che hanno idee sbagliate, ma sono dei brav'uomini, devono mirare invece a farli ravvedere e non a distruggerli. In qualche modo, prevedeva il direttore dell'Ufficio di propaganda ispirandosi a Mao, l'antagonismo tra materialismo ed idealismo, tra idee marxiste e non marxiste continuerà anche nella società senza classi: sarà allora un'opposizione tra progressisti e retrogradi, tra forze di produzione e relazioni di produzione (ordinamento sociale). L'idealismo si deve certo combattere, anche in quanto si concretizza in diversi comportamenti popolari legati al passato; ma allo stesso tempo occorre combattere il «dogmatismo».
«Negli ultimi anni» commenta un editoriale del giornale Guangming il 31 maggio «il mondo colto si è tenuto riservato e silenzioso». Lo si invita ora a farsi coraggio, a parlare. I dotti hanno deposto la penna. «In Cina c'è troppa gente che pensa ma non parla: è ora che esprimano le proprie idee». Un'acquiescenza passiva irrita il partito; si accorge di dominare nel deserto. Non è vero, scrive sul Qdp il compagno Wang Yanan, che il comunismo voglia monopolizzare le menti dispoticamente, come ha fatto il confucianesimo; «i dissidenti possono parlare; e noi li refuteremo». Un'apertura culturale, questa, che sembra diretta a beneficio principale del tutore politico.
La liberalizzazione, come si vede da questi interventi e dal discorso di Lu Dingyi, se attuata in pieno può forse aprire un nuovo corso. Tuttavia gli stessi termini della proclamazione sono vaghi e presentano possibili tranelli.
La battuta contro il «dogmatismo», nel discorso di Lu Dingyi, non ha affatto il significato dí libertà di discussione. È rivolta specificamente contro teorici del partito, e intende ricordare loro che devono «dialettizzare»; devono cioè seguire nei loro scritti i meandri tortuosi delle scelte ufficiali. Se oggi si fermano su quello che ieri il partito voleva che dicessero, diventano «dommatici», sprovvisti della ginnastica mentale, ardua ma indispensabile, che sa trovare nella teoria una razionalizzazione per i ritrovati politici concreti.
Il discorso-proclama di Lu non riesce a creare un clima di disgelo. Il dialogo non viene aperto. Solo le pubblicazioni ufficiali, nei mesi di giugno e luglio 1956, prendono un tono più invitante, più autocritico. Il Qdp ad esempio riporta (29.6.1956) un discorso di Wu Han (uno dei vice-sindaci di Pechino, epurato nel 1966), che depreca le «scuole speciali», dove i figli dei funzionari possono avvalersi di maggiori facilitazioni e migliori professori. Questa e simili «aperture» ufficiali non bastano a fare aprir la bocca ai possibili critici non-comunisti. Per l'appunto c'è anche in vista il congresso nazionale del Pcc; prima di esporsi, è prudente sentire dalla voce più ufficiale che cosa veramente voglia il partito.
Il congresso ha luogo dal 15 al 27 settembre 1956. La liberalizzazione delle espressioni culturali, proclamata nel maggio, viene appena accennata nei documenti congressuali. Il mondo colto ha avuto ragione a non muoversi.
Al congresso vengono però denunciate in modo esplicito le tendenze burocratiche ed autoritarie dei quadri dirigenti. Deng Xiaoping parla di «crisi di alienazione dalle masse» nella dirigenza del regime: «funzionari, che si seppelliscono sotto quintali di rapporti, ma non mantengono i contatti col popolo, ed arrivano perfino a sfruttare le masse, invece di servirle».
Intervengono intanto i fatti d'Ungheria, che in Cina smuovono le acque più di quanto non abbiano fatto il discorso di Lu Dingyi e le aperture ufficiali. Gli avvenimenti internazionali fanno sorgere interrogativi nuovi nella mente di molti; vogliono capire «cosa stia capitando». L'interlocutore laico del dialogo auspicato dai promotori dei Centofiori, comincia ad aver voglia di interrogare e di parlare, ma su di un piano diverso da quello previsto dall'invito ufficiale: è interessato anche alla politica, e non soltanto alla tecnica ed alla cultura.
II. TRE SETTIMANE NEL 1957
Nel febbraio 1957 interviene nuovamente Mao, con un discorso dottrinale sulle «Contraddizioni tra il popolo». Il testo del discorso è pubblicato solo nel giugno; ma già all'inizio di marzo Lu Dingyi ne riferisce il contenuto essenziale, presentandolo come un'estensione ed un rilancio dei Centofiori.
«Aiutateci a riformare il partito; dite tutto quello che sapete» viene chiesto ai funzionari non comunisti dei ministeri e a tutti gli intellettuali. Sono invitati a dare una mano per risolvere le «contraddizioni» varie, nelle sezioni del partito, tra governo e popolo ed in seno al popolo.
La nuova campagna deve seguire il metodo usuale, di critiche pedagogiche e condanne esemplari; non deve però essere un uragano, ma solo «una brezza»; si deve aver di mira la comprensione mutua, in vista di una più intima collaborazione.
Nonostante le garanzie, e l'assicurazione che il partito intende veramente cambiare stile, la gente non parla ancora. Non sono incoraggianti certe dichiarazíoni e certi gesti. Ad esempio, Peng Zhen, membro del Politburo e sindaco di Pechino (epurato nel 1966) dice scherzosamente: «È possibile che dopo la brezza venga un piccolo temporale»; e Luo Ruiqing, che dirige la polizia, inaugura proprio all'inizio di maggio una «Mostra dei delitti dei controrivoluzionari». Gli insistenti inviti a parlar chiaro, sembrano «una tentazione a peccare»; «quando apri bocca, ti segnano sul taccuino e sei spacciato» si dice. Tuttavia alcuni si fanno coraggio: «parliamo: quel che capita, capita».
Parlano specialmente gli intellettuali, quelli che «pensano e tacciono». Una volta rotto il ghiaccio, specialmente nelle aule scolastiche e negli uffici dei ministeri si sprigiona una fiumana di critica contro il Pcc. Si gettano con ardore nella mischia anche i giornali Guangming di Pechino e Wenhui di Shanghai che nel 1957 sono ancora gestiti come pubblicazioni non ufficiali, secondo il sistema della «direzione mista»
statale-privata, che permette la collaborazione di giornalisti non comunisti. A questi giornalisti, che gli chiedono se sia il caso di far apparire articoli polemici sul partito anche sulle colonne dei quotidiani oltre che nei giornali murali, Mao risponde: «Tentate; vediamo cosa ne viene fuori».
Le accuse sono tanto coraggiose quanto arrabbiate. Alcune riguardano campi specifici dell'azione del partito, come il trattamento dei giovani, le relazioni tra governo e partito, l'ordinamento giudiziario. Altre biasimano l'operato di singoli dirigenti e funzionari. Tra gli accusatori si schierano anche alcuni membri del Pcc, specie al livello di base. Il partito abusa della sua autorità dicono, condannando gli innocenti. «Non pochi sono stati sottoposti a giudizi popolari per un crimine inesistente». Gli alti papaveri se la spassano, ed i gregari devono tirare la carretta.
In una lettera aperta indirizzata a Lu Yuwen, funzionario del comune di Pechino, lo scrivente lo apostrofa come «manutengolo delle tigri». L'autore della lettera, un giovane studente dell'Università del popolo chiamato Guo Peiqi, scrive tra l'altro: «I comunisti dicono: Noi siamo lo Stato! Sfruttano gli individui, e poi se ne sbarazzano... Se non cambíate, il popolo finirà per ammazzarvi... Anche se il partito comunista sparisce, la Cina continua a vivere».
Sono tre brevi settimane di accuse astiose. Si arriva a dire in pubblico: «Del socialismo è rimasta in Cina solo la divisione dei cinesi in schiavi e padroni»; e via su questo tono. Invitati al dialogo, non comunisti e parte dei gregari non si accontentano di auspicare un miglioramento del sistema: gli si avventano contro.
Nel Guangming compaiono queste parole: «Nei giorni scorsi tutti se la sono presa con i piccoli bonzi, ma nessuno ha alzato la voce contro i vecchi bonzi. Il Pcc è organizzatissimo; possibile che il Comitato Centrale non sia responsabile delle pecche del partito, quando se ne ritrovano dappertutto?». Il Quotidiano dei popolo, riportando questa insinuazione, si chiede se i critici non osino alzar la voce addirittura contro Mao e Zhou Enlai.
III. RIPENSAMENTO DEL GIUGNO 1957
Il «basta!» di Pechino viene intimato con un editoriale dell'8 giugno 1957 sul Quotidiano del popolo: «Questa gente di destra vorrebbe isolare il partito»; «vogliono che il partito dia le dimissioni»; «gente di questa risma si annida tra gli intellettuali ed i partiti democratici»; «la lotta di classe non è ancora finita!».
I giornali del Pcc rigurgitano subito di articoli e rapporti di «contro-critica», dove vengono riportate con i nomi e cognomi degli accusatori molte denunce lanciate nelle settimane precedenti. Nella forma di requisitorie e di rivelazioni sulle «confessioni» dei critici pentiti, si vengono a conoscere più in particolare alcune delle stilettate che il Pcc ritiene più taglienti.
Questo improvviso cambiamento di rotta sconcerta anche quanti non si sono gettati nella mischia, e tutti cercano di trovarne una spiegazione. Si dicono: «Il presidente Mao si è trovato davanti all'opposizione di alti gerarchi, che pensano solo alla vendetta; ha accettato un compromesso». E ancora: «Il comunismo internazionale sta facendo pressioni sul presidente Mao».
Mao ha certamente cambiato d'umore. Il 19 giugno fa pubblicare un'edizione emendata del discorso del febbraio sulle «contraddizioni tra il popolo», che nell'edizione originale ha fatto il giro: della Cina registrato su nastro. Lo scrittore Ba Jin, che l'ha sentito nell'edizione di febbraio, commenta: «Sono contento di averne finalmente il testo scritto, perché alcuni punti mi erano rimasti poco chiari». È un modo elegante per dire che gli «emendamenti» toccano la sostanza. Mao ha dovuto dire ben altro, in febbraio, se il suo discorso doveva essere la prima battuta di un dialogo.
Nell'edizione di giugno, l'unica versione nota al grande pubblico, Mao afferma senza sottintesi: «La lotta di classe non è finita!». La libertà deve essere guidata, la democrazia è solo uno strumento per scovare il nemico di classe. In Cina ci sono pochi marxisti, sia tra la gente ordinaria che nel ceto colto: però «il marxismo viene accettato dalla maggioranza dei cinesi come l'ideologia di guida». Tuttavia in Cina «c'è qualcuno che ha sperato che si ripetessero da noi i fatti di Ungheria». Ha sognato a vuoto; ma la rivolta reazionaria ungherese è una lezione per tutti i Paesi socialisti.
«I fiori profumati» precisa Mao riferendosi all'immagine dei Centofiori «vanno tenuti ben distinti dagli sterpi velenosi». E fissa quindi i criteri politici per distinguere fiori da sterpi. In sostanza, per Mao è giusto solo quello che il partito ritiene utile alla rivoluzione. Con lo stesso metro si devono misurare e separare «i due tipi di contraddizioni» ; «in seno al popolo», che suppongono l'accettazione incondizionata della guida del partito, e vanno trattate attraverso un dialogo di persuasione, e «con il nemico», da sgominare. Tuttavia spetta alle autorità del partito decidere in concreto quale tipo di «contraddizione» appartenga al dissenso «sanabile» tra il popolo, e quale sia «insanabile».
Intanto la controffensiva del partito infierisce con estrema durezza. Non si limita ad articoli di condanna: è fatta di arresti, di condanne ai lavori forzati, di messa a nuovo dei metodi di repressione, estesi per la prima volta anche alla gioventù. Tutto è compiuto secondo lo spirito dell'analisi politica di Mao:
«Ci sono ancora controrivoluzionari, anche se non molti. La lotta deve continuare; il principale vantaggio della dittatura del proletariato è quello di sopprimere i contro-rivoluzionari».
Tra gli epurati si trovano anche membri del partito che si sono sporti troppo. Vengono classificati, assieme ai critici non comunisti nella categoria dei «destristi» , una nuova varietà di «nemici del popolo». Luo Ruiqing, in una relazione del gennaio 1958, cerca di accordare questa nuova ondata di violenza con le promesse di pace dell'VIII Congresso del partito: «È vero» dice «che la rivoluzione violenta è finita; ma in questo senso: sono le masse a scovare il nemico, e allora le leggi decidono sulle pene da infliggere» .
Non è proprio un cambiamento di sostanza. I cambiamenti veri sono l'improvvisa primavera liberaleggiante, e la subitanea tempesta scatenatasi ai primi di giugno. Sono svolte tanto improvvise di clima politico, che anche i russi stentano a capire. Feng Ding, in visita a Mosca, fatica a far capire agli studiosi russi di affari cinesi il concetto pechinese con cui si razionalizzano queste mutazioni brusche: «gli antagonismi possono cambiare di natura»; le contraddizioni tra il popolo possono diventare improvvisamente contraddizioni tra nemici. In una conferenza ai giornalisti stranieri, Zhou Yang, vice direttore di propaganda, spiegava in maggio il perché dei Centofiori: «È il modo cinese di combattere la burocrazia». Lo sarebbe forse stato, se i fiori non fossero stati recisi appena spuntati.
IV. DIALOGO E APPARATO
Le dicerie su Mao «costretto» a cambiare rotta vengono condannate, in quanto suppongono che l'autorità di Mao possa essere coartata, e insinuano che nel Pcc ci siano scissioni e correnti. Eppure queste divergenze esistono, e sono ammesse apertamente. Anche l'ipotesi del compromesso può essere ben vera. Un editoriale del Qdp del 2 maggio 1957 rivela che nel Pcc è in corso un dibattito tra due alternative, tra due modi opposti nel trattare «le contraddizioni» politiche e sociali: maniere dure, oppure un movimento dialettico.
Nel marzo 1957, lo stesso Lu Dingyi dice: «I dommatici non capiscono il carattere della fase storica che stiamo attraversando o non la vogliono capire». Lu teorizza a lungo su questi «dommatici» intransigenti che si fermano alla verità di ieri, senza tener conto dei cambiamenti odierni. Li paragona a Wang Ming, il segretario del Pcc che nel 1930 finì per fare a pezzi il partito con il suo integriamo. Come 27 anni prima, anche nel 1957 le divergenze sono quindi al vertice.
Il disaccordo nel 1957 verte in particolare su di una duplice questione fondamentale: i pensatori ed i tecnici «buoni» , ma carenti nella fede marxista, possono entrare in dialogo con l'ortodossia, in discussioni teoriche e nella pratica della vita quotidiana? In quali termini può svolgersi il dialogo tra il partito e «le masse»?
I dommatici vogliono l'ortodossia entro confini ancor più limitati di quelli confuciani. Per potersi inserire nella nuova Cina non basta « essere rivoluzionari» in un modo qualsiasi: bisogna essere credenti. Chi non accetta il marxismo può venir «usato», ma sotto controllo e tra steccati ben definiti, secondo la formula propugnata fin dall'inizio della Rpc.
I «dommatici» non accettano certo di sentirsi addosso questa etichetta; si sentono nel giusto e trovano «revisionisti»
i promotori del dialogo.
Questi «dialoganti» trovano che «la rivoluzione ha ormai raggiunto i suoi obiettivi di base», secondo le dichiarazioni programmatiche dell'VIII Congresso. La situazione politica è quindi radicalmente cambiata. La collaborazione con i non marxisti non può costituire un pericolo per la dittatura del proletariato. D'altra parte questa collaborazione è necessaria, perché la nuova Cina scarseggia di personale qualificato. È assurdo lasciare inutilizzate tante forze preziose, in nome di una situazione politica, ormai sorpassata.
In ciò aderiscono alla tradizione cinese «confuciana», più che alla linea leninista, nell'esercizio del potere. Ma come dialogare? I «dialoganti» non sono dei liberali, anzi ritengono possibile un dialogo verso l'esterno, proprio perché pensano che la posizione del partito, grazie alla forza della sua organizzazione, è quanto mai sicura; ed è compito esclusivo del partito guidare la nuova Cina verso i lidi comunisti.
La «linea delle masse», ritengono, va bene; ma a patto che non si allenti la presa del Pcc. Per la stessa ragione, bisogna mantenere intatta l'immagine del partito, in modo che possa sempre imporsi. I difetti nel partito ci sono, e non è il caso di coprirli; ma si può rimediare, come si è sempre fatto, con epurazioni periodiche, dall'interno. Se in seno al partito esistono «contraddizioni» e tensioni, esse sono principalmente «contrasti di autorità» , e cioè i gregari non eseguono gli ordini. La gente può, dialogando, aiutare a scoprire le magagne dei singoli comunisti. Questa costituisce un'ottima applicazione della «linea delle masse».
Il concetto di «linea delle masse» è quindi suscettibile di tutta una gamma di interpretazioni e di applicazioni; cosi pure i concetti collaterali: ispezione, controllo, iniziativa, creatività delle masse. Può essere spinto fino a concedere alla base popolare una qualche autonomia, nell'ambito della politica generale del partito, analogamente a quanto è avvenuto al tempo del dominio confuciano; e può anche consistere unicamente in una funzione puramente consultiva, entro limiti ben definiti; anzi può ridursi solo a una formalità, mentre il Pcc si serve dei suoi agenti, travestiti da attivisti delle masse, per ottenere il loro «appoggio». Di fatto si trovano altrettante applicazioni e formule diverse della «linea delle masse», ad esempio nelle Comuni, nei giudizi popolari, nelle imprese delle Guardie rosse del 1966, nei comitati rivoluzionari che le seguirono. Nei Centofiori la «linea delle masse» è volutamente confusa.
Il dialogo, promosso inizialmente dai Centofiori, sa molto di Mao, del suo romanticismo rivoluzionario, del suo desiderio di convertire tutti i cinesi al marxismo, del suo gusto popolano per una buona festa di campagna dove tutti sorridono e si danno la mano. Nella rivoluzione cinese di inizio sec. XX, indipendentemente dall'intervento comunista ed ancor prima che il leninismo diventi in Cina una realtà operante, la valorizzazione dell'iniziativa popolare è considerata un fattore essenziale, contro secoli di soggezione all'arbitrio autoritario. Mao è rimasto fondamentalmente su questa posizione populista che l'ha conquistato da giovane. Dopo che ha accettato il sistema ideato da Lenin, socialismo leninista e populismo coesistono nella sua mente e nella sua azione ed egli è alla ricerca di una formula che li integri, senza nulla detrarre al loro valore rispettivo. Quando trova i contrasto rivoluzione e sistema, spontaneità popolare ed organizzazione, allora le sue preferenze vanno alla rivoluzione ed alla spontaneità. E questo è il caso dei Centofiori.
Ma ci sono, come abbiamo accennato, due fasi diverse dei Centofiori: nel 1956 il dialogo accetta la coesistenza tra pensatori marxisti e non marxisti, ma il Pcc che lo propone è persuaso di saper accudire ai fatti propri e non si aspetta dal dialogo se non migliorie secondarie. Nella primavera del 1957, invece, le porte del dialogo sono spalancate, e si accetta il principio che i non-comunisti e le masse possano contribuire
«per sé» al miglioramento del partito. Mao vuole ambedue le fasi; ma le vogliono ugualmente anche i suoi collaboratori diretti? Non sembra; e le ragioni sono molteplici.
Liu Shaoqi ed il suo aiutante nel settore di propaganda Lu Dingyi, con tutti quelli che la pensano come loro hanno sempre agito in modo da considerare il partito autosufficiente, ed in ciò ottengono fino al 1956 l'approvazione di Mao. Ma hanno il torto di sopravalutare il proprio successo politico; in particolare, proprio nel 1956 la loro gestione economica fa cilecca; e Mao si mette alla ricerca di vie nuove, coadiuvato da altri consiglieri.
Quando la situazione economica alla fine del 1956 continua a peggiorare, dentro e fuori del Pcc si approfondisce il dissenso sulla valutazione di metodi ed opportunità. C'è chi ne addossa la responsabilità all'incuria ed alla mancanza di convinzione dei gregari del partito («non si danno da fare, prendono le cose alla carlona, rimediano alla buona») e chi suggerisce che la collettivizzazione affrettata dei contadini può essere la causa del dissesto economico («le relazioni di produzione camminano più in fretta delle forze di produzione»). La compagine del Pcc si rivela meno solida e inoppugnabile. Dopo le agitazioni nel mondo comunista con i fatti d'Ungheria, Germania e Polonia, la gente non s'accontenta più di biasimare i singoli comunisti.
Liu e compagni hanno inoltre urtato la suscettibilità di Mao, presentandone all'VIII Congresso del partito un'immagine meno risplendente. Per adeguarsi alla destalinizzazione, hanno eliminato infatti dallo Statuto Pcc «pensiero di Mao Zedong», e nei discorsi ufficiali hanno pronunciato palesi riserve per il culto della personalità di Mao.
Mao butta all'aria tutto il loro costrutto economico, con il Balzo in avanti e le Comuni del popolo, che fa già avviare dal tardo 1957. E come preparazione psicologica al cambiamento, medita all'inizio del 1957 di far sperimentare al partito qualche scossone «dal di fuori»: ordina così i Centofiori del 1957. Questi possono funzionare anche da valvola di sfogo al malcontento popolare; ma sono intesi primariamente come un'epurazione del partito a «porte aperte». Implicano infatti una serie di «brutte figure»
per Liu Shaoqi e compagnia, e possono comunque costituire un avvertimento per il partito.
Nel corso della Rivoluzione culturale, la stampa controllata da Lin
Biao e dai radicali accusa Liu Shaoqi e Lu Dingyi di avere proditoriamente «spalancato»
le porte alla critica, nei Centofiori del 1957. Questa accusa è verosimile e getta molta luce sugli avvenimenti; e cioè nel maggio-giugno 1957, quanti come Lu Dingyi non accettano in cuor loro la politica della « porta aperta » per la riforma del partito «dal di fuori», si adeguano a Mao, ripetendone parole e concetti; ma allo stesso tempo allungano troppo la corda, per provare che la gente scatenata parla troppo, e quindi è meglio ripulire il partito dal di dentro, senza metterlo in difficoltà con critiche dal di fuori.
In realtà le critiche aspre e pubbliche del maggio 1957 sono molto localizzate, e sarebbe estremamente facile soffocarle fin dal primo giorno. Lo conferma il fatto che tutto rientra subito nell'ordine, quando viene deciso che è ora di smetterla. La porta viene richiusa, con il pieno consenso di Mao. Tre settimane bastano per provare l'inopportunità della «liberalizzazione»; Liu Shaoqi e Lu Dingyi hanno insieme l'occasione di proporre se stessi come campioni del dialogo «voluto da Mao», accusando di dogmatismo i rivali nel Pcc.
Nove anni dopo, la Rivoluzione culturale ripropone una riedizione della riforma del partito «dal di fuori», per opera dei non-comunisti. È un'edizione meglio riuscita in termini politici e Mao può lanciarvi tra l'altro un grande esperimento di populismo. C'è un certo nesso di continuità tra Centofiori e Rivoluzione culturale; ma nel «grande dibattito» del 1966-'69 viene tenuto fermo un punto capitale; chiunque parli, deve parlare esclusivamente con accenti marxisti. Non si ripete la primavera selvaggia di Centofiori del 1957.
Nell'ultimo ventennio si riparla a più riprese di rilancio dei Centofiori, nel senso della liberalizzazione «culturale» del 1956, condizionata sempre dai «sei criteri» limitativi, fissati da Mao nel 1957. A volte «Centofiori» è una parola d'ordine convenzionale, uno slogan formale proclamato in polemica con avversari epurati tacciati di dommatismo, una promessa propagandistica avanzata anche in circostanze assai lontane dalla liberalizzazione. In tal modo una politica di Centofiori in campo artisticoletterario è propagandata ad esempio durante la fase più integralista della Rivoluzione culturale; e viene reclamizzata nuovamente perfino nel
1973-'76, quando la diversificazione culturale ammessa è minima, se non addirittura inesistente.
Nel primo dopo-Mao, viene proclamata una nuova «primavera di Centofiori». Huang Zhen, ex ambasciatore (capo dell'ufficio di collegamento) a Washington e nuovo ministro della cultura, ripete però che la premessa del pluralismo sono i «sei criteri» di distinzione tra «fiori profumati ed erbe velenose» enumerati da Mao nel 1957, e impliciti nella liberalizzazione annunciata nel 1956. Quindi è ancora escluso ogni pluralismo che sconfina, che abbandona l'alveo dell'ortodossia.
Tuttavia a differenza dei proclami prevalentemente verbali e rituali di tante volte in passato, si aggiungono nel 1977-'78 (come accadde brevemente nel 1961-'62) varie iniziative e misure concrete per incoraggiare l'espressione di diversi punti di vista su problemi scientifici, e per favorire una produzione artistico-letteraria diversificata. Alla data di questo scritto (1979) non è ancora dato di giudicare se si tratti realmente di Centofiori, oppure soltanto di diverse foggie e sfumature di un unico fiore rosso.
G. Melis(1979)