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Cina
Nascita di un impero

Qin Shi Huangdi, Primo Augusto Imperatore dei Qin
Saggio di Maurizio Scarpari
(Maurizio Scarpari, curatore della mostra e professore di Lingua cinese classica, Università Ca’ Foscari, Venezia
Dal catalogo a cura di Maurizio Scarpari e Lionello Lanciotti, edito da Skira)

Qin Shi Huangdi, Primo Augusto Imperatore dei Qin

Nel 221 a.C. Ying Zheng (259-210 a.C.), sovrano del potente regno di Qin, riuscì a realizzare l’impresa che da oltre un decennio lo teneva impegnato in incessanti campagne militari e azioni diplomatiche: la costituzione di un grande impero che unificasse sotto un solo governo le popolazioni che abitavano i territori cinesi. Venne proclamato Qin Shi Huangdi, Primo Augusto Imperatore dei Qin, appellativo scelto dai dignitari di corte per sancire il suo eccezionale successo politico e militare. Mai un regnante era ricorso a un titolo così altisonante; infatti i termini huang e di erano stati riservati unicamente ai venerabili sovrani della più remota antichità, Di avendo designato durante la penultima dinastia pre-imperiale, Shang (XVI sec.- 1045 a.C.) anche la massima divinità, forse il Supremo Antenato del clan reale. Shi, “primo”, venne anteposto a Huangdi, “Augusto Imperatore”, auspicando che la nuova dinastia avrebbe mantenuto il potere per “diecimila generazioni”. La conquista del Tianxia, “ciò che sta sotto il cielo” (espressione che all’epoca indicava l’intero mondo civile) e di territori periferici abitati da popolazioni semibarbare, che per la sua straordinaria realizzazione aveva precedenti solo nel mito e nelle leggende, metteva fine all’ultima dinastia pre-imperiale Zhou (1045-221 a.C.) e al turbolento periodo degli Stati Combattenti (453-221 a.C.) che ne aveva caratterizzato la fase terminale, durante la quale numerose signorie avevano rivaleggiato aspirando a ottenere la supremazia per creare un grande regno finalmente pacificato, com’era stato in un’epoca idealizzata, prospera e felice, da tempo perduta. Infatti, nonostante l’immensità dell’Impero e le spiccate diversità tra le varie etnie, l’impresa dei Qin non fu mai intesa come un’annessione di domini stranieri, ma come un’opera di unificazione, restaurazione di un’unità prefigurata dalla più remota antichità e rappresentata dall’Augusto Imperatore, che si trovava a riassumere nella sua persona ogni potere e ogni compito di mediazione tra Cielo e Terra.

Per celebrare solennemente al cospetto degli Dèi la nascita di una nuova èra e affermare la stretta relazione tra mondo degli uomini e mondo divino, il Primo Imperatore attuò diverse spedizioni sino ai confini dell’Impero con l’obiettivo di consolidare il nuovo assetto di potere, rendendo ufficiale con la sua presenza presso ogni popolazione l’avvenuta unificazione del Tianxia per mano di un uomo dalle qualità straordinarie, rappresentante in terra di Tian, il Cielo, massima divinità di epoca Zhou, e per questo riconosciuto come Tianzi, Figlio del Cielo, regnante per Mandato Celeste (Tianming). A quel tempo si immaginava che la terra fosse piatta e quadrata e che la volta celeste, di forma circolare, fosse sorretta da montagne poste come pilastri ai quattro punti cardinali. Essendo i santuari di quelle lontane regioni luoghi privilegiati per celebrare l’unità tra Cielo, Terra e Uomo, il Primo Imperatore raggiunse la sommità dei Monti Sacri, officiò i sacrifici previsti in onore degli Spiriti delle Montagne e dei Fiumi, recò offerte al Cielo, e fece immortalare la cronaca di tali eventi su stele di pietra. I confini dell’Impero avrebbero così racchiuso l’intero mondo civile e non sarebbero stati tracciati in base ad avvenimenti storici contingenti. Essi rappresentavano piuttosto il perfezionamento di un ordine cosmico superiore dal momento che venivano a coincidere con limiti geografici caratterizzati da un preciso disegno geometrico determinato dalla potenza ordinatrice delle divinità.

Antiche leggende narravano che Shun, uno dei mitici padri fondatori della civiltà, una volta asceso al trono si sarebbe recato a ispezionare l’Impero giungendo sino alle vette delle Montagne Sacre situate nelle quattro direzioni per offrire sacrifici, ricevendo l’omaggio sottomesso e deferente dei signori di quelle terre. Agendo come grande demiurgo avrebbe unificato pesi e misure, corretto il calendario, portato ordine e armonia nel mondo intero, instaurando un assetto sociale la cui perfezione sarebbe stata ripristinata dal Primo Imperatore, impegnato nelle stesse riforme che avevano inaugurato il saggio regno di Shun. Con tutta probabilità parte del mito fu rielaborato in epoca Qin per far coincidere perfettamente l’immagine dell’Imperatore con la leggendaria figura dell’antico sovrano, poiché la fonte primaria di ogni legittimazione era il ricordo di quel mondo agli albori della civiltà che aveva improntato il complesso assetto rituale delle epoche successive.

Anche se da tempo si era indebolito il legame tra funzioni politiche e religiose, il destino eccezionale del Primo Imperatore, non solo grande stratega ma tenace riformatore, lo aveva collocato nella sfera del divino, tanto da fargli desiderare e ricercare quegli elisir di vita eterna i cui segreti sarebbero stati custoditi presso remote isole abitate da creature fantastiche. Purtroppo la sua ricerca fu vana perché la morte lo sorprese nel corso di uno dei suoi lunghi viaggi ai confini dell’Impero. Allora l’isolamento della corte permise che la notizia rimanesse segreta, e il rientro del feretro alla reggia principale avvenne all’interno di un carro riempito di pesce essiccato il cui odore avrebbe mascherato i miasmi della decomposizione. Questa macabra caduta da un mondo di dorato splendore a una morte oscura, taciuta al fine di favorire gli intrighi dei ministri ostili all’erede al trono, divenne presagio dell’imminente fine della sua dinastia.

La storiografia successiva, di stampo prevalentemente confuciano, fu concorde nell’esprimere un giudizio negativo sul Primo Imperatore, definendolo un tiranno, così come scarsi riconoscimenti ebbe dai sovrani delle dinastie successive che pur si avvalsero delle numerose innovazioni apportate durante il suo governo. Molte notizie che sono entrate a far parte della sua biografia potrebbero quindi non essere che dicerie e leggende avvalorate a motivo della generale ostilità degli ambienti intellettuali, ai quali non era estraneo Sima Qian (circa 145-87 a.C.), il primo grande storico dell’antichità cinese. 

Zhao Ji, madre del Primo Imperatore, sarebbe stata una ballerina bellissima che secondo Sima Qian si sarebbe unita già incinta all’erede al trono di Qin, divenuto re nel 250 a.C. con il titolo di Zhuangxiang (morto nel 247 a.C.). Padre dell’Imperatore sarebbe quindi stato un ricco e influente commerciante di cui Zhao Ji era stata la concubina, Lü Buwei, divenuto reggente nel 246 a.C., quando Ying Zheng era salito al trono appena tredicenne, e morto suicida nel 237 a.C. dopo il suo allontanamento da corte. La regina madre avrebbe congiurato ai danni del proprio primogenito già regnante per favorire l’amante, Lao Ai, e i figli illegittimi avuti da lui. Non può sfuggire l’intenzione denigratoria nell’attribuire all’Imperatore una nascita illegittima e a Zhao Ji un comportamento indegno, venendo descritta come succube di un’attrazione del tutto fisica per un uomo particolarmente dotato dal punto di vista sessuale. Secondo la tradizione costui fu a capo del complotto che nel 238 a.C. Ying Zheng, raggiunta la maggiore età, avrebbe sventato giustiziando i congiurati, esiliando 4000 famiglie nobili coinvolte e allontanando anche Lü Buwei, sospettato di slealtà.

Le vicende familiari dell’Imperatore sarebbero quindi avvenute in un clima del tutto estraneo a quelle virtù e a quella pietas familiare tanto care a Confucio (551-479 a.C.) e ai suoi seguaci. Del resto il regno di Qin era ritenuto semibarbaro, avendo una posizione geografica vantaggiosa sul piano delle difese naturali ma periferica rispetto agli Stati Centrali (Zhongguo), trovandosi a stretto contatto con le popolazioni nomadi del nord, e avendo avuto un ruolo marginale rispetto alle vicende delle grandi dinastie pre-imperiali.

Fin dal IV secolo a.C. il regno di Qin aveva conformato la propria politica ai principi di stampo legista propugnati dal Ministro Shang Yang (390-338 a.C.) e applicati anche da Li Si (circa 280-208 a.C.), Primo Ministro di Shi Huangdi. I sostenitori delle teorie legiste ritenevano di secondaria importanza il complesso cerimoniale che, attraverso l’esaltazione della sacralità dei riti, mirava a legare intimamente la dimensione politica a quella religiosa; in maniera del tutto pragmatica teorizzavano il ricorso alla legge, chiara e in linea di principio eguale per tutti, e alla tattica per attuare quel controllo sociale che la virtù da sola non era in grado di assicurare. I seguaci di Confucio invece sostenevano che la legge penale dovesse trovare applicazione prevalentemente presso il popolo perché così come la virtù, sorretta da un complesso di riti che rispecchiavano l’ordine naturale dell’universo, non era in grado di scendere agli strati sociali più bassi della società, allo stesso modo la legge non avrebbe dovuto ascendere alle classi più elevate. Leggi, punizioni e ammende, anche se necessarie, rappresentavano l’aspetto coercitivo dell’amministrazione della giustizia che, ove possibile, doveva essere affiancato dalla condivisione, anche da parte della gente comune, dei principi morali, come affermato dalla massima di Confucio: “Se si governa con le leggi e si mantiene l’ordine infliggendo punizioni, il popolo cercherà di evitarle ma non proverà alcun senso di vergogna. Ma se si governa con l’eccellenza morale e si mantiene l’ordine mediante l’osservanza delle norme rituali, allora nel popolo si radicheranno senso di vergogna e disciplina.” (Lunyu II, 3). Pur auspicando l’avvento di un sovrano illuminato che ripristinasse l’unità del Tianxia, di fatto i seguaci di Confucio difendevano l’assetto feudale e la priorità dei vincoli familiari nell’assegnazione di terre e poteri, assicurando agli aristocratici una sorta di immunità, nel presupposto che l’educazione morale fosse sufficiente a disciplinarli. Era però del tutto evidente che lasciare in vigore gli antichi privilegi avrebbe ovunque favorito le cospirazioni di quelle nobiltà locali che per secoli avevano mantenuto diviso il territorio cinese.

Da tempo ormai l’autorità imperiale dei sovrani Zhou si era indebolita sino a sussistere unicamente nella sfera religiosa, aveva quindi perduto attualità la teoria del Mandato Celeste, la quale stabiliva che il Figlio del Cielo dovesse detenere ogni potere uniformando la propria condotta al volere divino, rendendosi garante, attraverso l’adempimento degli obblighi rituali, non solo dell’ordine sociale, ma anche dell’ordine naturale, riflettenti entrambi l’atteggiamento della divinità nei suoi confronti. Con maggior realismo i sostenitori delle teorie legiste teorizzavano che le posizioni di forza, molto più del carisma e delle virtù personali del sovrano, fossero determinanti per l’assunzione e il mantenimento del potere.

Il Primo Imperatore era ben consapevole che alle vittorie militari sarebbero seguiti provvedimenti atti a distruggere le basi del sistema feudale e a consolidare l’unità imperiale, dal momento che le dimensioni stesse dell’Impero incoraggiavano i signori locali alla rivolta, senza contare la minaccia rappresentata dalle popolazioni barbare e nomadi che dalle steppe del nord e del nord-ovest avrebbero potuto occupare i territori nei quali si fosse indebolita la resistenza alla loro penetrazione.

Le conquiste vennero consolidate dall’applicazione di un sistema politico che mirava alla centralizzazione del potere, ottenuta attraverso la divisione dell’immenso territorio in governatorati e distretti amministrati da funzionari salariati. Numerosi provvedimenti furono emanati allo scopo di uniformare gli usi e i costumi delle diverse popolazioni e furono stabiliti i cardini di un assetto politico e amministrativo che nelle sue linee generali ebbe continuità per oltre duemila anni. Le mura che i vari regni avevano eretto a difesa dei propri confini vennero smantellate, mentre fu completata la fortificazione che da Lintao sino alla penisola del Liaodong aveva la funzione di contenere le incursioni da nord. A quel tempo la Grande Muraglia sorse come terrapieno, non avendo ancora assunto le caratteristiche dell’opera muraria della quale ancor oggi restano ampie vestigia.

Il sistema feudale fu sostituito da una burocrazia fortemente centralizzata che aveva il compito di esercitare un controllo capillare sulla popolazione e in tutto il territorio vennero unificati i pesi e le misure, gli stili calligrafici e il sistema valutario. La lunghezza degli assi dei carri fu uniformata per renderli idonei a percorrere tutte le strade dell’Impero, la cui rete venne grandemente potenziata; imponenti opere d’ingegneria civile andarono a rafforzare gli argini dei fiumi causa di frequenti inondazioni e crearono un’efficace rete di irrigazione e di trasporto fluviale.

Il ceto intellettuale, così come avversava l’estensione a tutte le classi del diritto penale, continuava a far un uso di un gran numero di opere letterarie come autorevoli fonti d’ispirazione per dottrine divergenti dai principi legisti, dal momento che ogni corrente filosofica aveva teorizzato le implicazioni sociali e politiche del proprio pensiero. Ciò indusse l’Imperatore e i suoi ministri a una decisione che gli storici successivi additarono come culmine dell’oscurantismo e della tirannide: un editto del 213 a.C. ordinò il rogo di tutti gli scritti non ritenuti ortodossi in quanto pericolosi per l’ordine costituito, essendo uno strumento per “criticare il presente servendosi del passato” (yi gu fei jin). Obiettivo dell’iniziativa, ispirata con ogni probabilità dagli eruditi di corte, era la conservazione e trasmissione di un corpus letterario posto sotto il diretto controllo imperiale. Una sola copia d’ogni testo destinato alla distruzione sarebbe stata archiviata nella Biblioteca Imperiale, mentre gravi sanzioni avrebbero colpito coloro che avessero conservato e nascosto i documenti in loro possesso. Il malcontento sarebbe stato soffocato con misure spietate e, secondo cronache non proprio attendibili, nel 212 a.C. numerosi dissidenti, per lo più intellettuali di formazione confuciana, sarebbero stati giustiziati. La storiografia moderna dubita della storicità di entrambi gli avvenimenti, quantomeno nei termini riportati da una tradizione palesemente ostile e denigratoria nei confronti del Primo Imperatore e della sua corte.

L’Imperatore ambiva a essere il primo sovrano di una dinastia senza fine e la tradizione gli attribuisce uno spiccato interesse per la ricerca dell’immortalità, meta vagheggiata da oscuri ambienti esoterici presenti a corte come riflesso dell’ansia di estendere il potere assoluto a domini ultraterreni. Fallita per due volte la ricerca delle isole degli Immortali, e con essa la speranza di accedere a filtri magici, l’Imperatore concentrò le sue ambizioni sull’aspettativa di una vita postuma nell’immenso mausoleo la cui edificazione aveva impegnato per decine di anni migliaia di artigiani. Il sogno del Primo Imperatore di trasmettere il potere ai suoi discendenti per “diecimila generazioni” doveva infrangersi poco dopo la sua morte: l’immane impresa unificatrice aveva comportato, oltre ai lutti legati alle guerre, una grande durezza nell’amministrazione della legge e un’onerosa imposizione di tributi e di corvè, che unitamente alla ribellione dei ceti aristocratici e ai sanguinosi complotti di corte portarono alla caduta della dinastia nel 206 a.C.

Se nonostante la lucidità della sua visione politica, la funzionalità dell’apparato amministrativo e la grandiosità delle opere realizzate il Primo Imperatore passò alla storia come un crudele tiranno, molto dipese dalla maggior enfasi che venne data dagli storici all’impatto sulla popolazione delle misure coercitive e delle sanzioni piuttosto che al sistema di premi e incentivi che avrebbero dovuto controbilanciarle. Per rafforzare il suo regime totalitario egli prese misure a vantaggio della piccola proprietà rurale, ma introdusse anche la coscrizione obbligatoria per i contadini e costrinse buona parte dei suoi sudditi a partecipare agli immensi lavori d’ingegneria civile, non tutti strettamente funzionali all’amministrazione dell’Impero, essendo state avviate numerose opere di grande fasto per aumentare il prestigio della corte e del sovrano.

Recenti fonti archeologiche, quindi immuni dai pregiudizi veicolati dalla tradizione, inducono a mitigare le descrizioni della spietatezza delle leggi sotto i Qin. Sono stati rinvenuti numerosi documenti legali, codici e manuali che dimostrano come non mancassero inviti alla prudenza e all’imparzialità tanto che i magistrati ricevevano minuziosi ragguagli sulle procedure di indagine e di dibattimento, mentre la possibilità di convertire le pene più dure in ammende destinate ai rifornimenti dell’esercito favoriva gli imputati più abbienti, evitando loro in molti casi le pene corporali. Coloro che avevano acquisito una posizione di prestigio grazie a meriti militari venivano giudicati ottenendo un trattamento privilegiato e, se incorrevano in violazioni gravi, scontavano la loro colpa perdendo le ricompense e i titoli concessi a suo tempo dal sovrano. Vi è testimonianza anche di un ricorso costante a pratiche mantiche, essendo l’amministrazione della giustizia spesso vincolata nei tempi e nei modi delle sentenze ai responsi dei riti divinatori.

Nel complesso si può affermare che il codice Qin non differiva molto da quello entrato in vigore durante la dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.), che presentava cambiamenti più formali che sostanziali. Le pene previste dai codici Qin non erano quindi particolarmente severe se confrontate con quelle del sistema giuridico successivo, non essendovi nemmeno traccia di un’applicazione troppo intransigente delle leggi a scopo deterrente, come raccomandato dai legisti. Le dinastie successive ai Qin ereditarono i vantaggi delle riforme introdotte dal Primo Imperatore non dovendo più affrontarne le fasi più traumatiche e potendo al tempo stesso dimostrarsi indulgenti verso quelle tradizioni e quei particolarismi che non si fossero rivelati d’ostacolo all’amministrazione centrale, mentre l’impresa unificatrice non aveva lasciato molte alternative a un’imposizione ferrea che spezzasse ogni ostacolo alla centralizzazione politica e burocratica.

Stando a quanto riferito dalle fonti successive i gravosi compiti di frontiera, il massiccio ricorso alle corvè e ai lavori forzati, l’applicazione di punizioni severe per scoraggiare ogni inadempienza, quand’anche determinata da cause di forza maggiore, alienarono al Primo Imperatore il favore di gran parte dei suoi sudditi.

Egli morì nel 210 a.C. a Shaqiu, nell’odierno Hebei, e la sua scomparsa venne taciuta per qualche tempo al fine di ordire un complotto che modificasse le disposizioni riguardanti la successione. Per volere di Li Si e dell’eunuco Zhao Gao (morto nel 207 a.C.) il legittimo erede venne costretto al suicidio in base a un falso proclama imperiale e il secondogenito Hu Hai venne fatto salire al trono con il titolo di Secondo Augusto Imperatore, Ershi Huangdi (210-206 a.C.).

L’ansia d’immortalità del Primo Imperatore probabilmente conteneva la consapevolezza dell’estrema fragilità del potere assoluto di fronte alla morte e se la sua dinastia era destinata a soccombere rapidamente, la sua gloria doveva perdurare immensa, affidata alle grandiose opere realizzate e difesa non da guerrieri mortali, ma da uno sterminato esercito di terracotta.

 

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