Qin
Shi Huangdi, Primo Augusto Imperatore dei Qin
Nel 221 a.C.
Ying Zheng (259-210 a.C.), sovrano del potente regno di Qin,
riuscì a realizzare l’impresa che da oltre un decennio lo
teneva impegnato in incessanti campagne militari e azioni
diplomatiche: la costituzione di un grande impero che
unificasse sotto un solo governo le popolazioni che abitavano
i territori cinesi. Venne proclamato Qin Shi Huangdi, Primo
Augusto Imperatore dei Qin, appellativo scelto dai dignitari
di corte per sancire il suo eccezionale successo politico e
militare. Mai un regnante era ricorso a un titolo così
altisonante; infatti i termini huang e di erano
stati riservati unicamente ai venerabili sovrani della più
remota antichità, Di avendo designato durante la
penultima dinastia pre-imperiale, Shang (XVI sec.- 1045 a.C.)
anche la massima divinità, forse il Supremo Antenato del clan
reale. Shi, “primo”, venne anteposto a Huangdi,
“Augusto Imperatore”, auspicando che la nuova dinastia
avrebbe mantenuto il potere per “diecimila generazioni”.
La conquista del Tianxia, “ciò che sta sotto il
cielo” (espressione che all’epoca indicava l’intero
mondo civile) e di territori periferici abitati da popolazioni
semibarbare, che per la sua straordinaria realizzazione aveva
precedenti solo nel mito e nelle leggende, metteva fine all’ultima
dinastia pre-imperiale Zhou (1045-221 a.C.) e al turbolento
periodo degli Stati Combattenti (453-221 a.C.) che ne aveva
caratterizzato la fase terminale, durante la quale numerose
signorie avevano rivaleggiato aspirando a ottenere la
supremazia per creare un grande regno finalmente pacificato,
com’era stato in un’epoca idealizzata, prospera e felice,
da tempo perduta. Infatti, nonostante l’immensità dell’Impero
e le spiccate diversità tra le varie etnie, l’impresa dei
Qin non fu mai intesa come un’annessione di domini
stranieri, ma come un’opera di unificazione, restaurazione
di un’unità prefigurata dalla più remota antichità e
rappresentata dall’Augusto Imperatore, che si trovava a
riassumere nella sua persona ogni potere e ogni compito di
mediazione tra Cielo e Terra.
Per celebrare
solennemente al cospetto degli Dèi la nascita di una nuova
èra e affermare la stretta relazione tra mondo degli uomini e
mondo divino, il Primo Imperatore attuò diverse spedizioni
sino ai confini dell’Impero con l’obiettivo di consolidare
il nuovo assetto di potere, rendendo ufficiale con la sua
presenza presso ogni popolazione l’avvenuta unificazione del
Tianxia per mano di un uomo dalle qualità
straordinarie, rappresentante in terra di Tian, il
Cielo, massima divinità di epoca Zhou, e per questo
riconosciuto come Tianzi, Figlio del Cielo, regnante
per Mandato Celeste (Tianming). A quel tempo si
immaginava che la terra fosse piatta e quadrata e che la volta
celeste, di forma circolare, fosse sorretta da montagne poste
come pilastri ai quattro punti cardinali. Essendo i santuari
di quelle lontane regioni luoghi privilegiati per celebrare l’unità
tra Cielo, Terra e Uomo, il Primo Imperatore raggiunse la
sommità dei Monti Sacri, officiò i sacrifici previsti in
onore degli Spiriti delle Montagne e dei Fiumi, recò offerte
al Cielo, e fece immortalare la cronaca di tali eventi su
stele di pietra. I confini dell’Impero avrebbero così
racchiuso l’intero mondo civile e non sarebbero stati
tracciati in base ad avvenimenti storici contingenti. Essi
rappresentavano piuttosto il perfezionamento di un ordine
cosmico superiore dal momento che venivano a coincidere con
limiti geografici caratterizzati da un preciso disegno
geometrico determinato dalla potenza ordinatrice delle
divinità.
Antiche leggende
narravano che Shun, uno dei mitici padri fondatori della
civiltà, una volta asceso al trono si sarebbe recato a
ispezionare l’Impero giungendo sino alle vette delle
Montagne Sacre situate nelle quattro direzioni per offrire
sacrifici, ricevendo l’omaggio sottomesso e deferente dei
signori di quelle terre. Agendo come grande demiurgo avrebbe
unificato pesi e misure, corretto il calendario, portato
ordine e armonia nel mondo intero, instaurando un assetto
sociale la cui perfezione sarebbe stata ripristinata dal Primo
Imperatore, impegnato nelle stesse riforme che avevano
inaugurato il saggio regno di Shun. Con tutta probabilità
parte del mito fu rielaborato in epoca Qin per far coincidere
perfettamente l’immagine dell’Imperatore con la
leggendaria figura dell’antico sovrano, poiché la fonte
primaria di ogni legittimazione era il ricordo di quel mondo
agli albori della civiltà che aveva improntato il complesso
assetto rituale delle epoche successive.
Anche se da
tempo si era indebolito il legame tra funzioni politiche e
religiose, il destino eccezionale del Primo Imperatore, non
solo grande stratega ma tenace riformatore, lo aveva collocato
nella sfera del divino, tanto da fargli desiderare e ricercare
quegli elisir di vita eterna i cui segreti sarebbero stati
custoditi presso remote isole abitate da creature fantastiche.
Purtroppo la sua ricerca fu vana perché la morte lo sorprese
nel corso di uno dei suoi lunghi viaggi ai confini dell’Impero.
Allora l’isolamento della corte permise che la notizia
rimanesse segreta, e il rientro del feretro alla reggia
principale avvenne all’interno di un carro riempito di pesce
essiccato il cui odore avrebbe mascherato i miasmi della
decomposizione. Questa macabra caduta da un mondo di dorato
splendore a una morte oscura, taciuta al fine di favorire gli
intrighi dei ministri ostili all’erede al trono, divenne
presagio dell’imminente fine della sua dinastia.
La storiografia
successiva, di stampo prevalentemente confuciano, fu concorde
nell’esprimere un giudizio negativo sul Primo Imperatore,
definendolo un tiranno, così come scarsi riconoscimenti ebbe
dai sovrani delle dinastie successive che pur si avvalsero
delle numerose innovazioni apportate durante il suo governo.
Molte notizie che sono entrate a far parte della sua biografia
potrebbero quindi non essere che dicerie e leggende avvalorate
a motivo della generale ostilità degli ambienti
intellettuali, ai quali non era estraneo Sima Qian (circa
145-87 a.C.), il primo grande storico dell’antichità
cinese.
Zhao Ji, madre
del Primo Imperatore, sarebbe stata una ballerina bellissima
che secondo Sima Qian si sarebbe unita già incinta all’erede
al trono di Qin, divenuto re nel 250 a.C. con il titolo di
Zhuangxiang (morto nel 247 a.C.). Padre dell’Imperatore
sarebbe quindi stato un ricco e influente commerciante di cui
Zhao Ji era stata la concubina, Lü Buwei, divenuto reggente
nel 246 a.C., quando Ying Zheng era salito al trono appena
tredicenne, e morto suicida nel 237 a.C. dopo il suo
allontanamento da corte. La regina madre avrebbe congiurato ai
danni del proprio primogenito già regnante per favorire l’amante,
Lao Ai, e i figli illegittimi avuti da lui. Non può sfuggire
l’intenzione denigratoria nell’attribuire all’Imperatore
una nascita illegittima e a Zhao Ji un comportamento indegno,
venendo descritta come succube di un’attrazione del tutto
fisica per un uomo particolarmente dotato dal punto di vista
sessuale. Secondo la tradizione costui fu a capo del complotto
che nel 238 a.C. Ying Zheng, raggiunta la maggiore età,
avrebbe sventato giustiziando i congiurati, esiliando 4000
famiglie nobili coinvolte e allontanando anche Lü Buwei,
sospettato di slealtà.
Le vicende
familiari dell’Imperatore sarebbero quindi avvenute in un
clima del tutto estraneo a quelle virtù e a quella pietas familiare
tanto care a Confucio (551-479 a.C.) e ai suoi seguaci. Del
resto il regno di Qin era ritenuto semibarbaro, avendo una
posizione geografica vantaggiosa sul piano delle difese
naturali ma periferica rispetto agli Stati Centrali (Zhongguo),
trovandosi a stretto contatto con le popolazioni nomadi del
nord, e avendo avuto un ruolo marginale rispetto alle vicende
delle grandi dinastie pre-imperiali.
Fin dal IV
secolo a.C. il regno di Qin aveva conformato la propria
politica ai principi di stampo legista propugnati dal Ministro
Shang Yang (390-338 a.C.) e applicati anche da Li Si (circa
280-208 a.C.), Primo Ministro di Shi Huangdi. I sostenitori
delle teorie legiste ritenevano di secondaria importanza il
complesso cerimoniale che, attraverso l’esaltazione della
sacralità dei riti, mirava a legare intimamente la dimensione
politica a quella religiosa; in maniera del tutto pragmatica
teorizzavano il ricorso alla legge, chiara e in linea di
principio eguale per tutti, e alla tattica per attuare quel
controllo sociale che la virtù da sola non era in grado di
assicurare. I seguaci di Confucio invece sostenevano che la
legge penale dovesse trovare applicazione prevalentemente
presso il popolo perché così come la virtù, sorretta da un
complesso di riti che rispecchiavano l’ordine naturale dell’universo,
non era in grado di scendere agli strati sociali più bassi
della società, allo stesso modo la legge non avrebbe dovuto
ascendere alle classi più elevate. Leggi, punizioni e
ammende, anche se necessarie, rappresentavano l’aspetto
coercitivo dell’amministrazione della giustizia che, ove
possibile, doveva essere affiancato dalla condivisione, anche
da parte della gente comune, dei principi morali, come
affermato dalla massima di Confucio: “Se si governa con le
leggi e si mantiene l’ordine infliggendo punizioni, il
popolo cercherà di evitarle ma non proverà alcun senso di
vergogna. Ma se si governa con l’eccellenza morale e si
mantiene l’ordine mediante l’osservanza delle norme
rituali, allora nel popolo si radicheranno senso di vergogna e
disciplina.” (Lunyu II, 3). Pur auspicando l’avvento
di un sovrano illuminato che ripristinasse l’unità del Tianxia,
di fatto i seguaci di Confucio difendevano l’assetto feudale
e la priorità dei vincoli familiari nell’assegnazione di
terre e poteri, assicurando agli aristocratici una sorta di
immunità, nel presupposto che l’educazione morale fosse
sufficiente a disciplinarli. Era però del tutto evidente che
lasciare in vigore gli antichi privilegi avrebbe ovunque
favorito le cospirazioni di quelle nobiltà locali che per
secoli avevano mantenuto diviso il territorio cinese.
Da tempo ormai l’autorità
imperiale dei sovrani Zhou si era indebolita sino a sussistere
unicamente nella sfera religiosa, aveva quindi perduto
attualità la teoria del Mandato Celeste, la quale stabiliva
che il Figlio del Cielo dovesse detenere ogni potere
uniformando la propria condotta al volere divino, rendendosi
garante, attraverso l’adempimento degli obblighi rituali,
non solo dell’ordine sociale, ma anche dell’ordine
naturale, riflettenti entrambi l’atteggiamento della
divinità nei suoi confronti. Con maggior realismo i
sostenitori delle teorie legiste teorizzavano che le posizioni
di forza, molto più del carisma e delle virtù personali del
sovrano, fossero determinanti per l’assunzione e il
mantenimento del potere.
Il Primo
Imperatore era ben consapevole che alle vittorie militari
sarebbero seguiti provvedimenti atti a distruggere le basi del
sistema feudale e a consolidare l’unità imperiale, dal
momento che le dimensioni stesse dell’Impero incoraggiavano
i signori locali alla rivolta, senza contare la minaccia
rappresentata dalle popolazioni barbare e nomadi che dalle
steppe del nord e del nord-ovest avrebbero potuto occupare i
territori nei quali si fosse indebolita la resistenza alla
loro penetrazione.
Le conquiste
vennero consolidate dall’applicazione di un sistema politico
che mirava alla centralizzazione del potere, ottenuta
attraverso la divisione dell’immenso territorio in
governatorati e distretti amministrati da funzionari
salariati. Numerosi provvedimenti furono emanati allo scopo di
uniformare gli usi e i costumi delle diverse popolazioni e
furono stabiliti i cardini di un assetto politico e
amministrativo che nelle sue linee generali ebbe continuità
per oltre duemila anni. Le mura che i vari regni avevano
eretto a difesa dei propri confini vennero smantellate, mentre
fu completata la fortificazione che da Lintao sino alla
penisola del Liaodong aveva la funzione di contenere le
incursioni da nord. A quel tempo la Grande Muraglia sorse come
terrapieno, non avendo ancora assunto le caratteristiche dell’opera
muraria della quale ancor oggi restano ampie vestigia.
Il sistema
feudale fu sostituito da una burocrazia fortemente
centralizzata che aveva il compito di esercitare un controllo
capillare sulla popolazione e in tutto il territorio vennero
unificati i pesi e le misure, gli stili calligrafici e il
sistema valutario. La lunghezza degli assi dei carri fu
uniformata per renderli idonei a percorrere tutte le strade
dell’Impero, la cui rete venne grandemente potenziata;
imponenti opere d’ingegneria civile andarono a rafforzare
gli argini dei fiumi causa di frequenti inondazioni e crearono
un’efficace rete di irrigazione e di trasporto fluviale.
Il ceto
intellettuale, così come avversava l’estensione a tutte le
classi del diritto penale, continuava a far un uso di un gran
numero di opere letterarie come autorevoli fonti d’ispirazione
per dottrine divergenti dai principi legisti, dal momento che
ogni corrente filosofica aveva teorizzato le implicazioni
sociali e politiche del proprio pensiero. Ciò indusse l’Imperatore
e i suoi ministri a una decisione che gli storici successivi
additarono come culmine dell’oscurantismo e della tirannide:
un editto del 213 a.C. ordinò il rogo di tutti gli scritti
non ritenuti ortodossi in quanto pericolosi per l’ordine
costituito, essendo uno strumento per “criticare il presente
servendosi del passato” (yi gu fei jin). Obiettivo
dell’iniziativa, ispirata con ogni probabilità dagli
eruditi di corte, era la conservazione e trasmissione di un
corpus letterario posto sotto il diretto controllo imperiale.
Una sola copia d’ogni testo destinato alla distruzione
sarebbe stata archiviata nella Biblioteca Imperiale, mentre
gravi sanzioni avrebbero colpito coloro che avessero
conservato e nascosto i documenti in loro possesso. Il
malcontento sarebbe stato soffocato con misure spietate e,
secondo cronache non proprio attendibili, nel 212 a.C.
numerosi dissidenti, per lo più intellettuali di formazione
confuciana, sarebbero stati giustiziati. La storiografia
moderna dubita della storicità di entrambi gli avvenimenti,
quantomeno nei termini riportati da una tradizione palesemente
ostile e denigratoria nei confronti del Primo Imperatore e
della sua corte.
L’Imperatore
ambiva a essere il primo sovrano di una dinastia senza fine e
la tradizione gli attribuisce uno spiccato interesse per la
ricerca dell’immortalità, meta vagheggiata da oscuri
ambienti esoterici presenti a corte come riflesso dell’ansia
di estendere il potere assoluto a domini ultraterreni. Fallita
per due volte la ricerca delle isole degli Immortali, e con
essa la speranza di accedere a filtri magici, l’Imperatore
concentrò le sue ambizioni sull’aspettativa di una vita
postuma nell’immenso mausoleo la cui edificazione aveva
impegnato per decine di anni migliaia di artigiani. Il sogno
del Primo Imperatore di trasmettere il potere ai suoi
discendenti per “diecimila generazioni” doveva infrangersi
poco dopo la sua morte: l’immane impresa unificatrice aveva
comportato, oltre ai lutti legati alle guerre, una grande
durezza nell’amministrazione della legge e un’onerosa
imposizione di tributi e di corvè, che unitamente alla
ribellione dei ceti aristocratici e ai sanguinosi complotti di
corte portarono alla caduta della dinastia nel 206 a.C.
Se nonostante la
lucidità della sua visione politica, la funzionalità dell’apparato
amministrativo e la grandiosità delle opere realizzate il
Primo Imperatore passò alla storia come un crudele tiranno,
molto dipese dalla maggior enfasi che venne data dagli storici
all’impatto sulla popolazione delle misure coercitive e
delle sanzioni piuttosto che al sistema di premi e incentivi
che avrebbero dovuto controbilanciarle. Per rafforzare il suo
regime totalitario egli prese misure a vantaggio della piccola
proprietà rurale, ma introdusse anche la coscrizione
obbligatoria per i contadini e costrinse buona parte dei suoi
sudditi a partecipare agli immensi lavori d’ingegneria
civile, non tutti strettamente funzionali all’amministrazione
dell’Impero, essendo state avviate numerose opere di grande
fasto per aumentare il prestigio della corte e del sovrano.
Recenti fonti
archeologiche, quindi immuni dai pregiudizi veicolati dalla
tradizione, inducono a mitigare le descrizioni della
spietatezza delle leggi sotto i Qin. Sono stati rinvenuti
numerosi documenti legali, codici e manuali che dimostrano
come non mancassero inviti alla prudenza e all’imparzialità
tanto che i magistrati ricevevano minuziosi ragguagli sulle
procedure di indagine e di dibattimento, mentre la
possibilità di convertire le pene più dure in ammende
destinate ai rifornimenti dell’esercito favoriva gli
imputati più abbienti, evitando loro in molti casi le pene
corporali. Coloro che avevano acquisito una posizione di
prestigio grazie a meriti militari venivano giudicati
ottenendo un trattamento privilegiato e, se incorrevano in
violazioni gravi, scontavano la loro colpa perdendo le
ricompense e i titoli concessi a suo tempo dal sovrano. Vi è
testimonianza anche di un ricorso costante a pratiche
mantiche, essendo l’amministrazione della giustizia spesso
vincolata nei tempi e nei modi delle sentenze ai responsi dei
riti divinatori.
Nel complesso si
può affermare che il codice Qin non differiva molto da quello
entrato in vigore durante la dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.),
che presentava cambiamenti più formali che sostanziali. Le
pene previste dai codici Qin non erano quindi particolarmente
severe se confrontate con quelle del sistema giuridico
successivo, non essendovi nemmeno traccia di un’applicazione
troppo intransigente delle leggi a scopo deterrente, come
raccomandato dai legisti. Le dinastie successive ai Qin
ereditarono i vantaggi delle riforme introdotte dal Primo
Imperatore non dovendo più affrontarne le fasi più
traumatiche e potendo al tempo stesso dimostrarsi indulgenti
verso quelle tradizioni e quei particolarismi che non si
fossero rivelati d’ostacolo all’amministrazione centrale,
mentre l’impresa unificatrice non aveva lasciato molte
alternative a un’imposizione ferrea che spezzasse ogni
ostacolo alla centralizzazione politica e burocratica.
Stando a quanto
riferito dalle fonti successive i gravosi compiti di
frontiera, il massiccio ricorso alle corvè e ai lavori
forzati, l’applicazione di punizioni severe per scoraggiare
ogni inadempienza, quand’anche determinata da cause di forza
maggiore, alienarono al Primo Imperatore il favore di gran
parte dei suoi sudditi.
Egli morì nel
210 a.C. a Shaqiu, nell’odierno Hebei, e la sua scomparsa
venne taciuta per qualche tempo al fine di ordire un complotto
che modificasse le disposizioni riguardanti la successione.
Per volere di Li Si e dell’eunuco Zhao Gao (morto nel 207
a.C.) il legittimo erede venne costretto al suicidio in base a
un falso proclama imperiale e il secondogenito Hu Hai venne
fatto salire al trono con il titolo di Secondo Augusto
Imperatore, Ershi Huangdi (210-206 a.C.).
L’ansia d’immortalità
del Primo Imperatore probabilmente conteneva la consapevolezza
dell’estrema fragilità del potere assoluto di fronte alla
morte e se la sua dinastia era destinata a soccombere
rapidamente, la sua gloria doveva perdurare immensa, affidata
alle grandiose opere realizzate e difesa non da guerrieri
mortali, ma da uno sterminato esercito di terracotta. |