La
vita nell'oltretomba: credenze religiose e pratiche culturali
Un
giorno, interrogato sulla morte da un discepolo,
Confucio rispose:
“Se non hai ancora compreso la vita come puoi
pensare di
comprendere la morte?”i |
Al mistero della
morte i Cinesi risposero con la riflessione sulla vita,
identificando la fine dell’esperienza umana sulla terra con
un’esistenza post-mortem in un mondo ultraterreno
parallelo a quello dei vivi. Non concepita come esperienza
ineluttabile e conclusiva ma piuttosto come il passaggio a una
naturale condizione, la morte era parte integrante di un
processo ciclico caratterizzato da un’alternanza continua e
infinita del principio delle tenebre e dei morti, yin,
e del principio della luce e dei vivi, yang, due forze
contrarie e complementari generate da una primordiale energia
vitale (qi) da cui trasse origine il mondo. In
principio, la componente più pesante di tale energia,
scendendo, originò la terra, mentre quella più sottile ed
eterea, salendo, formò il cielo.
Vivendo tra
cielo e terra, l’uomo altro non è che la quintessenza dei
due tipi di forze vitali. Essendo tutt’uno con il cosmo egli
nasce e perisce per confondersi nuovamente nel disordine
primordiale, da cui si originano yin e yang e il
mondo.
Come l’energia
vitale, anche l’anima era composta di due parti: l’una,
denominata hun, uranica e spirituale, al momento della
morte si separava dal corpo e ascendeva in cielo, nel regno
degli antenati; l’altra, po, ctonia e vegetativa,
seguiva il corpo nel mondo delle tenebre. Nell’inumare il
defunto, i familiari si prendevano cura del corpo (unito all’anima
ctonia) nel tentativo di provvedere al suo benessere, alla sua
continuità: accanto alla salma depositavano oggetti
personali, stoviglie, manoscritti come viatici, e inoltre
inumavano esseri umani e animali immolati per essere compagni
di viaggio nell’oltretomba (erano detti xun, “compagni”).
Quando un uomo
spirava, iniziavano i riti preparatori alla sepoltura.
Dapprima si celebrava un rito volto a richiamare l’anima hun
e indurla a ricongiungersi al corpo: tale cerimonia, nota
come fu o zhaohun (richiamare l’anima), era l’ultimo
tentativo di restituire al corpo esanime la vita: l’uomo,
che si riteneva privo di coscienza ma ancora in vita, era
adagiato sul terreno e coperto con un grande telo. Poi
giungeva uno sciamano (fuzhe), saliva sul tetto dell’abitazione
del morente e, rivolto a nord, il luogo dei morti, porgeva all’anima
una veste dell’uomo, invocando il suo nome per ben tre
volte, ogni volta implorando che tornasse indietro. Poi, non
ricevendo alcun cenno di risposta, gettava l’abito verso uno
degli astanti. Costui lo avrebbe poi portato nella camera
ardente per deporlo sulla salma.ii Solo allora,
fallito il tentativo di ricongiungere l’anima con il corpo,
si accettava la morte del congiunto e avevano inizio le
esequie. L’invocazione dell’anima era un rito pertinente
alla vita, non alla morte: “Quando una persona cessa di
respirare, i familiari piangono e invocano il ritorno dell’anima.
Se essa non torna, allora ha inizio il rito funebre.”iii
Con l’avvento della morte, l’attenzione dei vivi era
tutta rivolta alla salma, non già alla parte dell’anima che
avrebbe intrapreso il suo viaggio e non sarebbe tornata più
indietro. I figli e gli altri familiari onoravano il defunto
sospendendo le proprie attività quotidiane per dedicarsi alle
sue cure. La salma, giacente lungo il lato settentrionale
della camera ardente, era allora trasferita su un giaciglio
posto accanto alla finestra della parete meridionale, a
rappresentare il passaggio dal luogo del buio, del freddo,
della morte (yin), al luogo della luce, del calore,
della vita (yang). Iniziava così la sua vita post-mortem.iv
Il figlio maggiore annunciava la morte, indi giungevano ospiti
e parenti a porgere le condoglianze alla famiglia e presentare
doni per il defunto: abiti, oggetti personali, ma soprattutto
cibo. La salma, dopo essere stata accuratamente lavata, era
rivestita con gli indumenti ricevuti in dono, indi era avvolta
in numerosi strati di tessuto. Poi la cerimonia continuava all’esterno,
ove era stata predisposta la fossa tombale: vi si calava la
cassa sepolcrale, spesso costituita da più casse disposte l’una
dentro l’altra, e al suo interno si deponeva la salma. Il
feretro recava un drappo funebre di seta dipinta (mingjing):
questo poteva recare il nome del defunto o scene della vita
terrena e ultraterrena del defunto (fig. 1). Si riteneva
infatti che l’uomo non fosse più riconoscibile dopo la
morte; così, ricevute tutte le cure necessarie, sigillato nel
feretro e dotato di una nuova identità, egli poteva
intraprendere il suo viaggio nell’oltretomba…v
I
luoghi dei morti
Luoghi dei vivi
e dei morti furono sì percepiti come distinti e separati, ma
nel contempo come simili, contingenti e speculari. Gli spazi
per i morti, infatti, erano organizzati secondo le modalità
di quelli edificati per i vivi: la scelta del sito funerario
era dettata da determinati principi geomantici, applicati
anche per la scelta del luogo di costruzione delle abitazioni
dei morti.
Sin dalla
dinastia Shang (XVI sec.-1045 a.C.) le tombe reali erano
collocate in necropoli situate all’esterno della città:
erano di grandi dimensioni, a pianta cruciforme, dotate di
rampe d’accesso che conducevano alla fossa ove una camera
lignea molto ampia (detta guo o waizangguo, “cassa
esterna”) alloggiava il feretro, generalmente in legno
laccato (cat. 54/847). Sotto la camera funeraria, in
una fossa, giacevano le vittime sacrificali, umani e animali,
e inoltre offerte di varia natura, vasi sacrificali, maschere
e statue in bronzo, monili e oggetti di giada, di ceramica e
di pietra.
Già all’epoca
della dinastia Zhou Occidentale (1045-770 a.C.), fu introdotta
l’usanza di suddividere la camera funeraria in più
comparti: il feretro era solitamente collocato nella parte
più profonda, circondato dagli oggetti del corredo funerario.
In seguito la camera funeraria si andò evolvendo sino a
divenire un complesso tombale costituito da più ambienti
separati: all’interno, nella camera principale, era
collocata la salma racchiusa nel feretro, mentre gli ambienti
attigui erano destinati all’arredo. Qui giacevano anche le
vittime inumate con la salma principale – consorti e
concubine, ufficiali, soldati e animali domestici – che
simbolicamente espletavano le medesime funzioni ad esse
attribuite in vita. Durante la dinastia Zhou Orientale
(770-221 a.C.) all’usanza di immolare uomini e animali si
aggiunse la pratica di interrare figurine di vario materiale.
Queste ultime svolgevano un ruolo diverso: mentre le prime
erano immolate accanto al defunto come “compagni di viaggio”,
le seconde concorrevano a rappresentare la sua nuova vita e il
suo habitat naturale nell’oltretomba.
Col passare del
tempo, la fossa tombale lasciò gradualmente il posto alle
tombe ad assetto orizzontale scavate nella roccia della
montagna, autentici palazzi ove la vita simbolicamente
continuava: le statuine, disposte nei vari ambienti accanto
agli arredi e agli utensili che evocavano la loro funzione,
riproponevano i vari aspetti della quotidianità del defunto,
la cui presenza aleggiava indistinta fra loro. (fig. 2)vi
Il
corredo funerario: dal sacro al profano
Le figure
zoomorfe che caratterizzano i decori dei vasi sacrificali di
bronzo (le più rappresentative sono le maschere Taotie,
su cui si veda il saggio di Wang Fengjun in questo catalogo),
svolgevano una funzione apotropaica e protettiva, mentre le
creature meravigliose e gli emblemi raffigurati su specchi
(cat. 101/838), drappi funebri, lungo le pareti delle casse
sepolcrali o delle camere funerarie (si vedano ad esempio i
draghi, le fenici e le tartarughe Xuanwu, catt.
119/266, 96/157), erano segni benauguranti.
Vasi, strumenti
musicali e altri oggetti sacri sepolti nelle tombe erano
veicoli per comunicare con l’aldilà: attraverso le
fragranze dei cibi sacrificali, le melodie prodotte dagli
strumenti musicali e i testi impressi sulla superficie dei
manufatti in bronzo l’officiante il rito – in questo caso
il defunto – comunicava con i propri antenati. Le maschere
teriomorfe che li rendevano così belli, misteriosi e nel
contempo minacciosi, proteggevano il defunto dalle insidie
degli spiriti malevoli e dalle influenze nefaste della natura,
mentre i prodigi che affollavano i decori erano forieri di
buona sorte, felicità e prosperità nel regno delle tenebre.
A partire dal V sec. a.C. circa, gli animali di buon auspicio
“apparvero” sotto forma di sculture in legno o in bronzo
di dimensioni naturali e furono collocati, proprio come
tributi, accanto alla bara. Bellissimi e di gran pregio sono i
tre esemplari in mostra: il cervo di legno laccato (cat.
58/851), l’elegante uccello ibrido in bronzo con agemina d’oro
e intarsi di turchese (cat. 51/842) e la gru in bronzo (cat.
79/854).
Gradualmente,
all’antica funzione religiosa degli oggetti principali dei
corredi funerari se ne aggiunse un’altra, quella dell’uso
quotidiano da parte dell’“inquilino” della tomba. Ciò
avvenne con il consolidarsi di una concezione “profana”
della morte in cui il viaggio nell’oltretomba era percepito
come una mera continuazione dell’esistenza umana. Ed ecco
che, accanto ai monumentali vasi rituali dell’epoca Zhou
Occidentale, apparvero stoviglie per uso domestico in
terracotta, accessori per la toilette quotidiana, e persino
elementi architettonici come porte e finestre lungo le pareti
della camera funeraria, a definirne in modo inequivocabile la
sua funzione di dimora del defunto.
L’evoluzione
della concezione del post-mortem nel regno meridionale
di Chu (invaso e sconfitto dal regno di Qin nel 278 a.C.) nel
periodo Zhou Orientale, è testimoniato da una graduale
trasformazione delle tradizioni rituali relative alla
sepoltura.vii Nei secoli VIII-VI nelle tombe di
medie dimensioni la varietà di oggetti era alquanto limitata:
si trattava quasi esclusivamente di vasi rituali in bronzo e
imitazioni di questi in terracotta e ceramica, manufatti che,
fino al III secolo a.C., occuparono un posto di rilievo nei
corredi funerari di queste tombe.viii Qual era la
loro funzione? Erano collocate nelle tombe per contenere cibi
sacrificali, come avveniva anticamente durante i riti per gli
antenati svolti nei templi ancestrali, oppure avevano
gradualmente perduto l’originaria funzione di vasi
sacrificali per assumere quella di comuni contenitori di cibo
per il defunto? Le testimonianze archeologiche sembrano
avvalorare quest’ultima ipotesi: infatti, già nelle
sepolture del VI sec. a.C. le offerte di cibo – gli alimenti
più comuni erano i medesimi consumati usualmente nel regno
dei vivi, ovvero riso, carni, giuggiole ecc. – erano
collocate su tavolini in legno oppure in canestri di bambù,
come avveniva nella vita quotidiana. In una tomba, oltre ad un
cesto contenente alcune giuggiole, furono trovati anche i
bastoncini di legno con cui consumarle. Sovente i recipienti
erano riposti l’uno nell’altro, pronti a essere utilizzati
come contenitori per alimenti (fig. 3). Risulta pertanto
evidente che avevano perduto l’originaria funzione rituale.
Nelle tombe di Chu il vasellame era tutto riposto in un
reparto situato nella parte superiore della cassa esterna.
Inoltre, attorno al V secolo a.C., sia nelle tombe di medie
dimensioni sia in quelle più modeste apparvero nuove
suppellettili: alabarde, asce, pugnali, archi ed elmetti,
oggetti che un tempo erano presenti solo nelle tombe degli
aristocratici (si veda, ad esempio, il pugnale in ferro con
elsa d’oro e intarsi di turchese, cat. 46/828). Questo nuovo
elemento potrebbe trovare spiegazione negli eventi degli anni
506-505 a.C.: gli eserciti di Wu avevano invaso il regno di
Chu, espugnando la capitale e costringendo il sovrano a
fuggire a nord. Fu da allora che le armi provenienti da Wu,
depredate al nemico, furono incluse nei corredi funerari delle
tombe di Chu.ix
L’aspetto e la
disposizione dei corredi delle tombe erano sempre più simili
a quelli delle abitazioni, come dimostra l’inclusione di
utensili per uso domestico, monili e oggetti per l’abbigliamento
e la toilette quotidiani: ad esempio il brucia profumi in
bronzo (cat. 33/333), lo specchio in bronzo a decoro
intrecciato (cat. 35/336), la coppia di pettorali in giada e
corniola (cat. 44/901), la scatola in legno laccato decorata
con scene narrative (56/849) e quella, sempre in legno
laccato, a forma di maiale (cat. 57/850).
Già dal VI
secolo a.C. accanto alle varie suppellettili nelle sepolture
apparvero statue di legno o di terracotta: guerrieri,
funzionari, concubine, danzatori e danzatrici e animali da
cortile popolavano il palazzo, i suoi giardini e i terreni
attigui e inscenavano le varie attività della vita quotidiana
del defunto e del suo entourage. Oltre al monumentale e
noto esercito di terracotta di Qin Shi Huangdi, che rende l’idea
della maestosità e dell’imponenza del primo impero ma
altresì della megalomania del suo artefice, altrettanto
suggestive sono le più piccole statue rinvenute nelle
tombe imperiali della dinastia Han: i fanti di colore
nero provenienti da Zhangling (cat. 102/940), le
intrattenitrici inginocchiate (cat. 105/870), i guerrieri a
cavallo dipinti (106/251), le esili figure maschili e
femminili (catt. 252, 253), e infine i set di cani (109/254),
buoi (110/255), pecore (111/256) e maiali (112/258) del Museo
di Yangling.
Le
giade funerarie
Sin dall’epoca
neolitica era costumanza riporre accanto alla salma, nel luogo
d’inumazione, oggetti di giada (nefrite) a forma di dischi
piatti con un foro circolare al centro, noti come bi (catt.
100/829, 115/231) e altri a forma di parallelepipedi
attraversati verticalmente da un foro circolare, denominati cong
(cat. 39/821). Rinvenuti solo nelle tombe, non
erano comuni oggetti per l’uso quotidiano: bi e cong
avevano un’importante funzione rituale e, nel contempo,
erano emblemi di potere. Lo testimonia il rinvenimento di
queste giade nelle tombe più grandi delle culture neolitiche
orientali come, ad esempio, quelle appartenenti alla cultura
Dawenkou (IV-III millennio a.C.), una particolare fase della
storia della Cina in cui la ricerca della distinzione sociale
trovò espressione nella produzione di oggetti di giada,
originariamente di terracotta o pietra: la rarità e bellezza
del materiale da cui prendevano forma, la giada appunto,
nobile e preziosa quintessenza della montagna, conferiva a
essi un profondo ed elevato valore simbolico-rituale.
Gli scavi
condotti negli anni Trenta del secolo scorso portarono alla
luce una cospicua quantità di giade funerarie attribuite a un’altra
delle culture neolitiche della costa orientale, Liangzhu,
risalente all’inizio del III millennio a.C. Degne di
menzione sono le giade bi e cong rinvenute nella
tomba di un giovane nel 1982, a Sidun, nel Jiangsu: tra i
centoventi oggetti interrati accanto alla salma, figuravano
ventiquattro bi e trentatre cong (fig. 4).x
Secondo una ricostruzione dei riti funerari che accompagnavano
l’inumazione del defunto in quest’area, gli officianti il
rito disponevano i bi sul terreno assieme a tre asce
perforate, poi li incendiavano. Quando il rogo stava per
estinguersi, adagiavano la salma sulle giade bi e poi
la circondavano con un recinto di cong. Alla fine
riponevano alcuni bi, i più belli e meglio preservati
all’azione del fuoco, sul torace del defunto.xi
Il bi,
dalla caratteristica forma discoidale, evocava il cielo,
immaginato a forma sferica o semisferica. Lo si ritrova in
vari contesti, sulla salma, sulla nuca del defunto, o come
componente dei pettorali di giada (cat. 158); è stato
ipotizzato che sulla nuca del defunto, ovvero sulla sommità
del copricapo di giada, simbolicamente rappresentasse il foro
d’uscita dell’anima corporea (fig. 5).xii Le
giade cong, invece, dalla superficie esterna
quadrangolare o prismatica e quella del foro circolare,
esprimevano l’antica concezione del cosmo, con il cielo
sferico e la terra quadrata.xiii Secondo tale
interpretazione, avvalorata dalla presenza in molti cong di
decori con maschere zoomorfe (creature fantastiche con
funzioni mediatiche), fungevano da strumenti rituali, axis
mundi: con essi lo sciamano stabiliva una via di
comunicazione tra la terra e il cielo (fig. 6).xiv
Il tema dell’uso rituale di questi strumenti è tuttora
oggetto di continue speculazioni e non è da escludere che gli
cong ritrovati a Sidun svolgessero semplicemente una
funzione protettiva e apotropaica.
In epoca più
tarda, in particolare con la fondazione dell’impero, quando,
con il Primo Augusto Imperatore si diffuse il culto dell’immortalità,
xv la giada, per la bellezza, la durevolezza e le
proprietà alchemiche, fu associata con tale credenza. Oltre
ai bi e agli cong, i vivi utilizzavano piccole
giade per occludere gli orifizi della salma, intendendo così
evitare la fuoriuscita dell’anima (le linfe e gli umori) e
la conseguente decomposizione del corpo: due piccole giade per
coprire gli occhi, due per le narici, due per le orecchie e
due per la bocca, una delle quali a forma di cicala, simbolo d’immortalità
(fig. 7). Da tale pratica e da quella, più antica, di
ricoprire il corpo del defunto di bi, derivò
probabilmente l’ambizioso disegno di confezionare una veste
di giada che avvolgesse integralmente la salma, nella speranza
di ritardare il più a lungo possibile la sua decomposizione.
Si concepì dapprima una veste di tessuto su cui erano cuciti
piccoli frammenti di giada perforati, oppure singoli
accessori, come ad esempio la maschera che copriva il volto, i
guanti o i calzari (fig. 8); da qui derivò la ben più
pregiata veste di giada (yuyi), costituita interamente
da migliaia di tessere di giada assemblate e cucite con del
filo metallico (d’oro, d’argento o di rame) fino ad
avvolgere l’intero corpo del defunto (cat. 120/950).xvi
Tra il 1946 e il
1992 sono stati rinvenuti oltre quaranta esemplari (alcuni dei
quali preservati solo parzialmente) in tombe di varie province
della Cina, risalenti agli anni compresi tra il 122 a.C. e il
182 d.C. Le forme delle tessere di giada con cui erano
realizzate le vesti variavano (potevano essere quadrate,
rettangolari, triangolari, circolari o semicircolari) e, in
taluni casi, le decorazioni che recavano rivelavano la loro
origine (in genere si trattava di frammenti di vasi o di altri
oggetti). La veste di giada fu un privilegio riservato a pochi
eletti: era l’imperatore o l’imperatrice a stabilire chi,
per propri meriti e virtù, era degno di sfarzo, splendore e
soprattutto longevità nel regno delle tenebre.
Così serrato
nella giada (con il corpo e i suoi orifizi), custodito nelle
proprie casse sepolcrali (l’una dentro l’altra), protetto
dai soldati e confortato nella nuova dimora dai beni terreni e
dalla compagnia di danzatrici, cantanti, concubine, servitori
e animali, l’uomo si accingeva a condurre una vita virtuosa
anche nel mondo dei morti. E chissà, forse alla fine del suo
lungo cammino si sarebbe liberato anche della transeunte
condizione della morte divenendo, come ci suggerisce la
piccola scultura in bronzo (cat. 87/86), un Immortale tout
court.
___________________________
i Lunyu XI,12.
Confucio, Dialoghi, Testo a fronte. Traduzione e cura
di Tiziana Lippiello, Einaudi, Torino 2006, p. 123.
ii Yili, in Ruan Yuan (1764-1849), a cura di, Shisanjing
shuju, Yiwen Yinshuguan, Taibei 1989, 8 voll., vol. IV,
cap. 35, pp. 1128-29; Liji, in Ruan Yuan, op. cit.,
vol. V, cap. 44, p. 1472. Wu Hung, Art in Ritual Context:
Rethinking Mawangdui, in “Early China”, 17, 1992, pp.
111-144, in particolare pp. 112-113; Yü Yingshi, O Soul,
Come Back! A Study in the Changing Conceptions of the Soul and
Afterlife in Pre-Buddhist China, “Harvard Journal of
Asiatic Studies”, 42, 2, 1987, pp. 363-395.
iii Commento di Zheng Xuan (127-200). Liji, in Shisanjing
shuju, op. cit., vol. V, cap. 44, p. 763.
iv Secondo l’interpretazione di Kong Yingda (574-648).
v Yili, in Ruan Yuan, op. cit., cap. 35, p. 412.
Sul ruolo del mingjing si veda, ad esempio, Wu Hung, art.
cit., pp. 116-127.
vi Un noto esempio è la tomba del Principe Liu Sheng e della
sua presunta consorte, databili rispettivamente al 113 a.C. e
a un periodo compreso tra il 118 e il 104 a.C. Sulla tomba del
Principe Liu Sheng e, in generale, sulla struttura delle tombe
in epoca Han si veda ad esempio R.L. Thorp, Mountain Tombs
and Jade Burial Suits: Preparations for Eternity in the
Western Han, in G. Kuwayama, ed., Ancient Mortuary
Traditions of China. Papers on Chinese Ceramic Funerary
Sculptures, Los Angeles County Museum of Art, Los Angeles
1991, pp. 26-39; M. Scarpari, Antica Cina. La civiltà
cinese dalle origini alla dinastia Tang, White Star,
Vercelli 2000, pp. 231-235.
vii A. Thote, Continuities and Discontinuities: Chu Burials
during the Eastern Zhou Period, in R. Whitfield, Wang Tao,
eds., Exploring China’s Past: New Discoveries and Studies
in Archaeology and Ritual, Saffron, London 1999, pp.
189-204, in particolare p. 192.
viii Ibid.
ix A. Thote, art. cit., pp. 193-99.
x Per un approfondimento sulle origini e sui siti di
ritrovamento delle giade cong e bi si vedano, ad
esempio, Wang Wei, Liangzhu wenhua yucong chuyi (Alcune
considerazioni sulle giade cong della cultura
Liangzhu), in “Kaogu”, 11, 1986, pp. 1009-1016; Huo Wei,
Li Yongxian, Guanyu cong, bi de liangdian chuyi (Alcune
considerazioni sulle giade cong e bi), in “Kaogu
yu wenwu”, 1, 1992, pp. 60-66. Wu Hung, Monumentality in
Early Chinese Art and Architecture, Stanford University
Press, Stanford 1995, pp. 24-44.
xi Nanjing bowuguan, 1982 nian Jiangsu Changzhou Wujin
Sidun yizhi de fajue (La scoperta nel 1982 dei resti di
una sepoltura a Sidun, (Wujin, Changzhou, nella provincia del
Jiangsu), in “Kaogu”, 2, 1984, pp. 115-116; D.N.
Keightley, Shamanism, Death and the Ancestors: Religious
Mediation in Neolithic and Shang China (ca. 5000-1000
B.C.), in “Asiatische Studien”, 52, 3, 1998, pp.
763-832, in particolare pp. 786-788.
xii La giada bi compare, ad esempio, sul copricapo del
principe Liu Sheng e su quello della sua consorte Dou Wan (II
secolo a.C.). J. Rawson, edited by, Mysteries of Ancient
China. New Discoveries of Ancient China, British Museum
Press, London 1996, pp. 52-55, 170-171.
xiii Si veda, ad esempio, Zhao Qingfang, On Bi and Cong,
in “Orientations”, 20, 5, 1989, pp. 78-82; K.C. Chang, An
Essay on Cong, “Orientations”, 20, 6, 1989, pp. 37-43.
xiv Si veda, ad esempio, Chang Kwang-chih, Ritual and Power,
in R.E. Murowchick, ed., Cradles of Civilization: China:
Ancient Culture, Modern Land, Weldon Russell, North Sydney
1994, p. 66; D.N. Keightley, op. cit., pp. 774-776;
Idem, The Quest for Eternity in Ancient China: The Dead,
Their Gifts, Their Names, in G. Kuwayama, op. cit.,
pp. 12-24, in particolare pp. 14-16.
xv Sul Primo Augusto Imperatore si veda il saggio di M.
Scarpari in questo catalogo.
xvi Per un’esaustiva descrizione delle vesti e di altri
oggetti funerari di epoca Han si veda M. Loewe, State
Funerals of the Han Empire, in “Bulletin of the Museum
of Far Eastern Antiquities”, 1, 1999, pp. 5-72; si veda
inoltre R.L. Thorp, art. cit., pp. 33-36. |