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Cina
Nascita di un impero

La Cina e i barbari
Saggio di Lionello Lanciotti
(curatore della mostra, professore emerito di Filologia cinese, 
Università degli studi di
Napoli, l’Orientale, Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente, Roma)
Dal catalogo a cura di Maurizio Scarpari e Lionello Lanciotti, edito da Skira)

La Cina e i barbari

Chi erano i “barbari” per i Cinesi dal periodo delle più remote origini sino ai primi secoli dell’età imperiale? Occorre, prima di parlare della Cina, vedere cosa significasse nel mondo classico occidentale la parola “barbaro”. La parola è greca e i Greci usavano ripetere che chiunque non fosse greco era un barbaro. Πασ µε Ελλεν βαρβαροσ recitava l’adagio, ed è già nel secondo canto dell’Iliade che troviamo il sostantivo barbarofonos a indicare una persona che non riesce a esprimersi correttamente, uno straniero che parla male quando prova a balbettare la lingua dei Greci. Barbarofono o barbaro sta, quindi, a indicare non tanto una diversità etnica quanto piuttosto una differenziazione nel modo di comunicare con la parola. Il concetto di barbaro non è, quindi, all’origine una connotazione discriminante le etnie secondo un principio di superiorità delle une sulle altre, ma può addirittura essere reciproco, tanto è vero che, nel quinto dei suoi Tristia, il poeta latino Ovidio, nel lontano esilio di Tomi, poteva così affermare: “Barbarus hic ego sum, quia non intelligor ulli / et rident stolidi verba latina Getae.”

Ovidio non si stupiva di poter essere considerato come un barbaro dai Geti, in quanto anch’egli considerava tale appellativo soltanto come un indicatore di una diversità di linguaggio. Sarà soltanto in epoca successiva che il termine barbaro passerà a significare l’idea di qualcosa di incivile, rozzo, selvaggio.

In quale periodo i Cinesi parlarono per la prima volta dei barbari? Va ricordato che gli stessi Cinesi non si definivano tali nell’antichità, ma indicavano se stessi con il nome della dinastia imperante o di una del passato. Nei primi testi classici ritroveremo i nomi dei Xia, degli Yin, ovvero delle prime due dinastie, e quando, nel V secolo a.C., appare l’espressione Zhongguo, che oggi sta a indicare il “Paese di Mezzo” (ovverosia la Cina), essa si riferisce propriamente agli Stati Centrali che si trovavano attorno al bacino del Fiume Giallo ed erano feudi della terza dinastia, quella dei Zhou (1045-221 a.C.).

Nella sezione intitolata Yugong (Tributi di Yu) di un’antica antologia di testi storici nota come Shujing (Classico dei documenti), la cui prima stesura fu attribuita alla scuola che faceva capo a Confucio (551-479 a.C.), si può trovare una prima descrizione del mondo sino ad allora conosciuto dai Cinesi. Appaiono i primi nomi di popolazioni che vivevano ai margini della comunità considerata cinese e che erano tenute a presentare tributi al sovrano regnante. Yu era ritenuto, secondo la tradizione cinese, il mitico fondatore della prima dinastia, quella dei Xia, risalente al secondo millennio avanti l’era volgare ed era ricordato come il grande regolatore del sistema fluviale, come un sovrano illuminato che aveva viaggiato in tutte le regioni del suo vasto regno, riuscendo a suddividerlo in nove ben ordinate province. Si veniva così a immaginare una prima cosmografia dello stato cinese, successivamente raffigurato in una serie di quadrati concentrici che, dalla capitale, si estendevano nelle direzioni dei nostri quattro punti cardinali (fig. 1); nostri quattro punti, perché i Cinesi hanno sempre aggiunto a essi un quinto punto, quello del centro. Va anche ricordato che il summenzionato termine Zhongguo o Stati Centrali si confonde e si identifica con quello di Tianxia ovvero, come recita letteralmente l’espressione cinese, tutte le terre che sono situate “sotto il Cielo”. Siamo di fronte a un’idea, anche se non esplicitata, di un unico stato universale che i Cinesi, situati nel suo centro, hanno la missione di poter civilizzare. Tutte le terre emerse erano immaginate come un enorme quadrato che si estendeva sotto la volta celeste, circondato dai Quattro mari (Sihai) che erano, come il fiume Oceano degli antichi Greci, situati ai confini dell’universo terrestre.

All’epoca della terza dinastia, Zhou, i Cinesi sono da tempo un popolo di agricoltori sedentari, mentre le genti alle loro frontiere sono prevalentemente popolazioni nomadi, portate a rapide scorrerie nel territorio cinese alla ricerca di sempre nuovi pascoli e di acqua per i loro cavalli. Queste genti nomadi vivono ai quattro punti cardinali; esse, a loro volta, sono suddivise in gruppi diversi, ognuno dei quali ha un nome e di cui sono descritte alcune abitudini che contrastano completamente con quelle dei Cinesi.

A settentrione vivevano le cinque tribù dei Di, che avevano come loro abitazioni solo delle caverne e si vestivano con pellicce e piume di animali. Nelle zone meridionali si trovavano le otto tribù dei Man, che usavano tatuarsi la faccia, non cuocevano i loro cibi e dormivano con le gambe incrociate. A oriente c’erano le nove tribù degli Yi, che avevano chiome sciolte, usavano tatuare tutto il loro corpo e, come i Man, non usavano vivande cotte. A occidente, infine, vivevano le sei tribù dei Rong, anch’esse caratterizzate dall’usanza di portare le chiome sciolte, di indossare abiti fatti con pelli di animali e di non cibarsi di cereali. Alcune abitudini di queste popolazioni come il tatuaggio, il vivere in caverne, il vestirsi di pelli e piume, e il cibarsi di alimenti crudi contrastavano completamente con quelle dei Cinesi ed erano da questi interpretate come la conseguenza di genti cresciute in un ambiente privo di condizioni di armonia e di riserbo, non influenzato da norme rituali elementari. Inoltre i Cinesi affermavano che le lingue di tali popolazioni non erano intelligibili, così come erano diversi i loro gusti e i loro desideri. I nomadi non vivevano come i Cinesi in città recinte da mura, non avevano una loro scrittura e, quando dovevano stipulare contratti, lo facevano solo oralmente; inoltre ignoravano i riti o l’etichetta (li) e davano la preferenza ai giovani e alla gente sana invece che ai vecchi e ai malati, così contravvenendo al rispetto dovuto alle persone anziane (xiao).

I caratteri ideografici che i Cinesi usavano per indicare i nomi di queste popolazioni hanno connotazioni dispregiative o militaresche. Il carattere che indica i Man ha, nella parte inferiore, il disegno di un insetto; quello relativo ai Di, nella parte destra indica un cane; il carattere per i Rong rappresenta un’arma, mentre, infine, quello per gli Yi è formato dalla fusione di due altri caratteri che stanno a indicare un uomo e un arco.

In un passo del Classico dei documenti, prima ricordato, i barbari sembrano anelare alla civiltà cinese: pare che quando Tang, il fondatore della seconda dinastia, andava a combattere nelle regioni occidentali, i barbari orientali Yi si lamentassero di essere trascurati e che quando poi egli andava a guerreggiare ai confini meridionali, fossero i barbari Di del nord a fare le stesse rimostranze; perché, come ritenevano i Cinesi, tutte le popolazioni guardavano al loro sovrano allo stesso modo in cui quando, perdurando una siccità, si osservano le nuvole e si guarda l’arcobaleno.

Nella più antica antologia poetica cinese, lo Shijing (Classico delle odi), anch’essa passata al vaglio della scuola confuciana – la tradizione voleva che Confucio in persona avesse selezionato da oltre tremila composizioni poetiche soltanto le trecentocinque che figurano oggi nella versione tramandataci – si parla di imprese militari contro popolazioni barbariche che furono sottomesse, di muraglie erette e fossati scavati a scopo difensivo, di divisione di terre, di tasse da percepire, talvolta costituite da veri e propri tributi come pelli di leopardi, pantere rosse e orsi bruni (Ode 261). In un’altra composizione si ricorda come le popolazioni barbariche, una volta sottomesse, “divennero molto brave e non si ribellarono più” e come presentavano come tributo alcune cose preziose: grandi tartarughe, le cui corazze erano impiegate dai Cinesi per le pratiche mantiche, zanne di elefanti e gran quantità di metallo (Ode 299). Molte delle composizioni poetiche del Classico delle odi, trasmesse oralmente di generazione in generazione, stanno a documentare epoche di remoti conflitti fra Cinesi e barbari nonché un inizio di un’opera di colonizzazione in diverse regioni di frontiera.

Dall’opera cronologicamente più vicina alla predicazione di Confucio, i Lunyu (Dialoghi), si possono ricavare alcune interessanti osservazioni su come il massimo filosofo cinese valutasse la questione dei barbari. La prima di esse così recita: “Le tribù Yi e i Di con i loro governanti non sono paragonabili nemmeno ai nostri popoli che ne sono privi.” (Lunyu, III, 5). Deluso dai cattivi governanti cinesi, Confucio disse una volta che “avrebbe desiderato andare a vivere fra i barbari Yi. Qualcuno osservò che quelli erano rozzi, come sarebbe stato possibile ciò? Il Maestro rispose che, se un uomo superiore andasse a vivere fra di loro, quale rozzezza avrebbe potuto esserci?” (Lunyu, IX, 14). E ancora, in altra occasione, Confucio replicò a un suo discepolo: “Se nel privato e nel pubblico sarai diligente, sincero e onesto, anche se vivrai fra i barbari Yi e Di non verrai mai contro a ciò.” (Lunyu, XIII, 19).

Infine, a un altro suo discepolo che lo interrogava sul modo di comportarsi, il Maestro disse: “Se le tue parole saranno leali e sincere e il tuo comportamento sarà onesto e cauto, anche se vivrai fra i barbari Man e Mo saprai come comportarti.” (Lunyu, XV, 6). Viene così evidenziata nelle parole di Confucio la superiorità etica dei Cinesi rispetto alle altre genti che vivevano alle loro frontiere.

Il pensatore eterodosso Wang Chong, vissuto nel primo secolo dell’era volgare, dedicò un lungo paragrafo del suo Lunheng (Bilancia di discussioni) alle prime due affermazioni di Confucio. La prima, che alcuni commentatori avevano interpretato come un lamento del Maestro perché il suo paese non aveva un sovrano degno di tale nome, mentre persino i barbari avevano dei governanti, è giustamente considerata come una prova della superiorità culturale cinese anche in difficili contingenze politiche. La seconda pone Wang Chong di fronte a un dilemma. Confucio, deluso e amareggiato della sua epoca, avrebbe espresso paradossalmente il desiderio di andare a vivere fra i barbari, ma “ciò significa che l’uomo superiore conserva per se stesso la sua cultura o, invece, che la comunicherà?” – si chiede Wang Chong – “Dovrà tenersela dentro? Ma avrebbe anche potuto farlo in Cina e non era necessario allora andare fra i barbari; ma se doveva istruirli, in quale modo questi potevano essere educati?” (Lunheng, p. 91). Wang Chong resta dell’opinione che Confucio abbia usato un paradosso assurdo come quello di poter incivilire i barbari e ricorda come il mitico Yu, fondatore della prima dinastia, quando andò a visitare il Paese degli Uomini Nudi (luoguo) dovette “denudarsi finché stette fra loro e, solo quando li lasciò, riprese i suoi abiti. L’usanza di indossare vestiti non prese allora radici fra le genti barbare.” (ibidem). Wang Chong era uno scettico iconoclasta, talmente autonomo da permettersi di criticare lo stesso Confucio, anche se si professava suo seguace.

Vedremo successivamente come lo stesso Wang Chong parlerà delle trasformazioni successive delle popolazioni barbare.

L’anonimo autore del Liji (Memoriale dei riti) avrebbe invece sostenuto che “la fama del Saggio cresce e si diffonde per tutto il mondo, estendendosi in zone a settentrione e a meridione sin nelle contrade barbare.” (Liji, XXVIII, 2).

Il primo grande interprete della dottrina confuciana, Mencio (390-305 sec. a.C.), nell’opera che porta il suo stesso nome, Mengzi, fa un’interessante osservazione sul mondo dei barbari, quando scrive: “Ho sentito dire che Man e Yi hanno usato costumi cinesi, ma non ho mai sentito il contrario. Chen Liang [una persona originaria dello stato meridionale allora considerato semibarbarico] di Chu, incantato dalla dottrina di Confucio e del duca Zhou, si recò a nord del suo paese per studiare la saggezza degli Stati Centrali e fra i nostri studiosi del nord nessuno lo superò in saggezza.” (Mengzi, III, 1). Questo brano è una documentazione di un tipico esempio di sinizzazione di un uomo proveniente da un paese del sud non ancora completamente acculturato.

Non ci furono soltanto scontri fra Cinesi e barbari nel periodo che arriva sino alla dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.). Un errore è aver considerato la Cina come un paese sempre chiuso in se stesso e impermeabile alle influenze straniere. La Cina apprese da etnie a lei diverse alcune tecniche della metallurgia, la costruzione di città murate, l’impiego del carro da guerra e, probabilmente, la stessa idea di ricorrere a una scrittura. Fu capace, grazie a una tendenza sincretista che avrebbe sempre caratterizzato la sua cultura, a sinizzare quanto aveva accettato da altri paesi. Gli stessi barbari influenzarono anche la Cina, quando questa dovette accettare un sistema di leggi penali. Per i Cinesi, e in particolare per la scuola che si richiamava a Confucio, unica legge era quella che si ispirava al Cielo, che aveva affidato alle varie dinastie, succedutesi nella guida del paese, l’incarico o il mandato di governare il paese. Era questa la teoria del Mandato Celeste (Tianming). Ma, all’età di Confucio, il mondo era decaduto dalla mitica età dell’oro delle origini della civiltà a un’epoca di grande corruzione politica e morale. I Confuciani predicavano la pratica delle virtù, lo studio dei testi antichi da cui ricavare esempi da imitare ed errori da non ripetere, ma la concezione di un mondo basato sull’etica era insufficiente. Necessitavano, in un’età difficile, ferree leggi penali per riportare la società, assieme alla pratica delle virtù e allo studio, a un livello da cui era andata decadendo. E allora, nella sezione del Classico dei documenti, ecco apparire un trattato intitolato Lüxing (Le punizioni di Lü) in cui si legge che “il popolo dei Miao non aveva una formazione edificante, ma era controllato mediante punizioni. Furono create le cinque pene repressive e furono chiamate leggi (fa).” (Shujing, XIX, p. 18a). I Miao erano una tribù barbara meridionale e a essi attribuirono la creazione di un sistema penale che fu adottato come rimedio necessario in un’epoca di estrema decadenza.

Gli stessi Qin, prima di riuscire, attraverso lunghe e sanguinose guerre, a creare il primo impero pancinese, erano stati considerati come una popolazione semibarbarica, non ancora completamente acculturata. Nel Zhanguoce (Intrighi degli Stati Combattenti), opera redatta nel I secolo a.C. dal famoso erudito Liu Xiang, nella sezione relativa allo stato feudale di Wei, si afferma come “le genti di Qin hanno gli stessi costumi dei Rong e dei Di, hanno una mentalità da tigri e da lupi, ignorano cosa sia un comportarsi rettamente, gioiscono della crudeltà, sono avidi di guadagno e, se intravedono di poter trarre vantaggio da qualcosa, riescono anche a ottenerla senza preoccuparsi di cosa possa capitare alle loro stesse famiglie, alla maniera delle bestie selvagge.” (Zhangguoce).

I Qin furono i primi a unificare la Cina, grazie alla loro forza militare, e riuscirono ad attuare un sistema di riforme, ispirate in gran parte dalla scuola legista (fajia), che estesero a tutto il paese. La loro dinastia, che nei desideri del suo fondatore, il Primo Augusto Imperatore, aveva previsto un numero infinito di successivi sovrani, fu effimera, ma il loro impianto politico, anche se mitigato dal ritorno della scuola confuciana, costituì la base di un sistema imperiale che durò dalla prima dinastia Han sino agli inizi del XX secolo.

In epoca Han ritroviamo ancora il pensatore Wang Chong che, nella sezione dei suoi sopra ricordati Lunheng intitolata Xuan Han (Elogio degli Han), afferma che “Quando l’imperatore della dinastia Han giunse al potere […] i Quattro Mari erano uniti e tutto l’impero era ordinato. Gli uomini dai capelli neri [uno dei modi per indicare i Cinesi e distinguerli da altre etnie dai capelli biondi o rossicci come certe popolazioni centrasiatiche] vivono ora in armonia […] Il territorio degli antichi Rong e Di fa ora parte del nostro paese. Gli antichi Uomini Nudi ora usano bei vestiti, le genti che andavano a testa nuda usano adesso copricapo, e le popolazioni che andavano a piedi scalzi ora portano le scarpe degli Shang. Le terre sterili e pietrose sono state trasformate in fertile suolo e i feroci banditi sono diventati persone rispettose delle leggi. La rozzezza dei selvaggi è stata smussata e i ribelli sono diventati gente pacifica. Non è questa, forse, la pace universale? Per quanto riguarda queste trasformazioni rese possibili dalla virtù, gli antichi Zhou non superarono gli attuali Han.” (Lunheng, p. 191). A parte il tono apologetico e trionfalistico verso la dinastia Han al potere, è evidente che l’opera di sinizzazione dei barbari non si limitava ad aver essi adottato costumi civili, ma anche ad aver accettato i principi della civiltà cinese. Ma già alle porte della Cina stava premendo un’altra popolazione nomade, come quella dei Xiongnu, che qualche studioso ha voluto collegare agli Unni così ben noti al nostro mondo occidentale.

Bibliografia

Liji (Memorie dei riti), in Ruan Yuan (1764-1849), op. cit., vol. V.
Lunyu (Dialoghi), in Ruan Yuan, op. cit., vol. VIII.
Lunheng (Bilancia delle discussioni) in Zhuzi jicheng, Shanghai shuju, Shanghai 1986, vol. VII. 
Mengzi (Mengzi), in Ruan Yuan (1764-1849), op. cit., vol. VIII.
Ruan Yuan (1764-1849), a cura di, Shisanjing shuju, Yiwen Yinshuguan, Taibei 1989, 8 voll.
Shijing (Classico delle odi), in Ruan Yuan, op. cit., vol. II.
Shujing (Classico dei documenti), in Ruan Yuan, op. cit., vol. I.
Zhanguoce (Intrighi degli Stati Combattenti).

 

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