La
Cina e i barbari
Chi erano i “barbari”
per i Cinesi dal periodo delle più remote origini sino ai
primi secoli dell’età imperiale? Occorre, prima di parlare
della Cina, vedere cosa significasse nel mondo classico
occidentale la parola “barbaro”. La parola è greca e i
Greci usavano ripetere che chiunque non fosse greco era un
barbaro. Πασ µε
Ελλεν
βαρβαροσ recitava l’adagio,
ed è già nel secondo canto dell’Iliade che troviamo
il sostantivo barbarofonos a indicare una persona che
non riesce a esprimersi correttamente, uno straniero che parla
male quando prova a balbettare la lingua dei Greci.
Barbarofono o barbaro sta, quindi, a indicare non tanto una
diversità etnica quanto piuttosto una differenziazione nel
modo di comunicare con la parola. Il concetto di barbaro non
è, quindi, all’origine una connotazione discriminante le
etnie secondo un principio di superiorità delle une sulle
altre, ma può addirittura essere reciproco, tanto è vero
che, nel quinto dei suoi Tristia, il poeta latino
Ovidio, nel lontano esilio di Tomi, poteva così affermare:
“Barbarus hic ego sum, quia non intelligor ulli / et
rident stolidi verba latina Getae.”
Ovidio non si
stupiva di poter essere considerato come un barbaro dai Geti,
in quanto anch’egli considerava tale appellativo soltanto
come un indicatore di una diversità di linguaggio. Sarà
soltanto in epoca successiva che il termine barbaro passerà a
significare l’idea di qualcosa di incivile, rozzo,
selvaggio.
In quale periodo
i Cinesi parlarono per la prima volta dei barbari? Va
ricordato che gli stessi Cinesi non si definivano tali nell’antichità,
ma indicavano se stessi con il nome della dinastia imperante o
di una del passato. Nei primi testi classici ritroveremo i
nomi dei Xia, degli Yin, ovvero delle prime due dinastie, e
quando, nel V secolo a.C., appare l’espressione Zhongguo,
che oggi sta a indicare il “Paese di Mezzo” (ovverosia
la Cina), essa si riferisce propriamente agli Stati Centrali
che si trovavano attorno al bacino del Fiume Giallo ed erano
feudi della terza dinastia, quella dei Zhou (1045-221 a.C.).
Nella sezione
intitolata Yugong (Tributi di Yu) di un’antica
antologia di testi storici nota come Shujing (Classico
dei documenti), la cui prima stesura fu attribuita alla scuola
che faceva capo a Confucio (551-479 a.C.), si può trovare una
prima descrizione del mondo sino ad allora conosciuto dai
Cinesi. Appaiono i primi nomi di popolazioni che vivevano ai
margini della comunità considerata cinese e che erano tenute
a presentare tributi al sovrano regnante. Yu era ritenuto,
secondo la tradizione cinese, il mitico fondatore della prima
dinastia, quella dei Xia, risalente al secondo millennio
avanti l’era volgare ed era ricordato come il grande
regolatore del sistema fluviale, come un sovrano illuminato
che aveva viaggiato in tutte le regioni del suo vasto regno,
riuscendo a suddividerlo in nove ben ordinate province. Si
veniva così a immaginare una prima cosmografia dello stato
cinese, successivamente raffigurato in una serie di quadrati
concentrici che, dalla capitale, si estendevano nelle
direzioni dei nostri quattro punti cardinali (fig. 1); nostri
quattro punti, perché i Cinesi hanno sempre aggiunto a essi
un quinto punto, quello del centro. Va anche ricordato che il
summenzionato termine Zhongguo o Stati Centrali si
confonde e si identifica con quello di Tianxia ovvero,
come recita letteralmente l’espressione cinese, tutte le
terre che sono situate “sotto il Cielo”. Siamo di fronte a
un’idea, anche se non esplicitata, di un unico stato
universale che i Cinesi, situati nel suo centro, hanno la
missione di poter civilizzare. Tutte le terre emerse erano
immaginate come un enorme quadrato che si estendeva sotto la
volta celeste, circondato dai Quattro mari (Sihai) che
erano, come il fiume Oceano degli antichi Greci, situati ai
confini dell’universo terrestre.
All’epoca
della terza dinastia, Zhou, i Cinesi sono da tempo un popolo
di agricoltori sedentari, mentre le genti alle loro frontiere
sono prevalentemente popolazioni nomadi, portate a rapide
scorrerie nel territorio cinese alla ricerca di sempre nuovi
pascoli e di acqua per i loro cavalli. Queste genti nomadi
vivono ai quattro punti cardinali; esse, a loro volta, sono
suddivise in gruppi diversi, ognuno dei quali ha un nome e di
cui sono descritte alcune abitudini che contrastano
completamente con quelle dei Cinesi.
A settentrione
vivevano le cinque tribù dei Di, che avevano come loro
abitazioni solo delle caverne e si vestivano con pellicce e
piume di animali. Nelle zone meridionali si trovavano le otto
tribù dei Man, che usavano tatuarsi la faccia, non cuocevano
i loro cibi e dormivano con le gambe incrociate. A oriente c’erano
le nove tribù degli Yi, che avevano chiome sciolte, usavano
tatuare tutto il loro corpo e, come i Man, non usavano vivande
cotte. A occidente, infine, vivevano le sei tribù dei Rong,
anch’esse caratterizzate dall’usanza di portare le chiome
sciolte, di indossare abiti fatti con pelli di animali e di
non cibarsi di cereali. Alcune abitudini di queste popolazioni
come il tatuaggio, il vivere in caverne, il vestirsi di pelli
e piume, e il cibarsi di alimenti crudi contrastavano
completamente con quelle dei Cinesi ed erano da questi
interpretate come la conseguenza di genti cresciute in un
ambiente privo di condizioni di armonia e di riserbo, non
influenzato da norme rituali elementari. Inoltre i Cinesi
affermavano che le lingue di tali popolazioni non erano
intelligibili, così come erano diversi i loro gusti e i loro
desideri. I nomadi non vivevano come i Cinesi in città
recinte da mura, non avevano una loro scrittura e, quando
dovevano stipulare contratti, lo facevano solo oralmente;
inoltre ignoravano i riti o l’etichetta (li) e davano
la preferenza ai giovani e alla gente sana invece che ai
vecchi e ai malati, così contravvenendo al rispetto dovuto
alle persone anziane (xiao).
I caratteri
ideografici che i Cinesi usavano per indicare i nomi di queste
popolazioni hanno connotazioni dispregiative o militaresche.
Il carattere che indica i Man ha, nella parte inferiore, il
disegno di un insetto; quello relativo ai Di, nella parte
destra indica un cane; il carattere per i Rong rappresenta un’arma,
mentre, infine, quello per gli Yi è formato dalla fusione di
due altri caratteri che stanno a indicare un uomo e un arco.
In un passo del Classico
dei documenti, prima ricordato, i barbari sembrano anelare
alla civiltà cinese: pare che quando Tang, il fondatore della
seconda dinastia, andava a combattere nelle regioni
occidentali, i barbari orientali Yi si lamentassero di essere
trascurati e che quando poi egli andava a guerreggiare ai
confini meridionali, fossero i barbari Di del nord a fare le
stesse rimostranze; perché, come ritenevano i Cinesi, tutte
le popolazioni guardavano al loro sovrano allo stesso modo in
cui quando, perdurando una siccità, si osservano le nuvole e
si guarda l’arcobaleno.
Nella più
antica antologia poetica cinese, lo Shijing (Classico
delle odi), anch’essa passata al vaglio della scuola
confuciana – la tradizione voleva che Confucio in persona
avesse selezionato da oltre tremila composizioni poetiche
soltanto le trecentocinque che figurano oggi nella versione
tramandataci – si parla di imprese militari contro
popolazioni barbariche che furono sottomesse, di muraglie
erette e fossati scavati a scopo difensivo, di divisione di
terre, di tasse da percepire, talvolta costituite da veri e
propri tributi come pelli di leopardi, pantere rosse e orsi
bruni (Ode 261). In un’altra composizione si ricorda come le
popolazioni barbariche, una volta sottomesse, “divennero
molto brave e non si ribellarono più” e come presentavano
come tributo alcune cose preziose: grandi tartarughe, le cui
corazze erano impiegate dai Cinesi per le pratiche mantiche,
zanne di elefanti e gran quantità di metallo (Ode 299). Molte
delle composizioni poetiche del Classico delle odi,
trasmesse oralmente di generazione in generazione, stanno a
documentare epoche di remoti conflitti fra Cinesi e barbari
nonché un inizio di un’opera di colonizzazione in diverse
regioni di frontiera.
Dall’opera
cronologicamente più vicina alla predicazione di Confucio, i Lunyu
(Dialoghi), si possono ricavare alcune interessanti
osservazioni su come il massimo filosofo cinese valutasse la
questione dei barbari. La prima di esse così recita: “Le
tribù Yi e i Di con i loro governanti non sono paragonabili
nemmeno ai nostri popoli che ne sono privi.” (Lunyu, III,
5). Deluso dai cattivi governanti cinesi, Confucio disse una
volta che “avrebbe desiderato andare a vivere fra i barbari
Yi. Qualcuno osservò che quelli erano rozzi, come sarebbe
stato possibile ciò? Il Maestro rispose che, se un uomo
superiore andasse a vivere fra di loro, quale rozzezza avrebbe
potuto esserci?” (Lunyu, IX, 14). E ancora, in altra
occasione, Confucio replicò a un suo discepolo: “Se nel
privato e nel pubblico sarai diligente, sincero e onesto,
anche se vivrai fra i barbari Yi e Di non verrai mai contro a
ciò.” (Lunyu, XIII, 19).
Infine, a un
altro suo discepolo che lo interrogava sul modo di
comportarsi, il Maestro disse: “Se le tue parole saranno
leali e sincere e il tuo comportamento sarà onesto e cauto,
anche se vivrai fra i barbari Man e Mo saprai come
comportarti.” (Lunyu, XV, 6). Viene così evidenziata
nelle parole di Confucio la superiorità etica dei Cinesi
rispetto alle altre genti che vivevano alle loro frontiere.
Il pensatore
eterodosso Wang Chong, vissuto nel primo secolo dell’era
volgare, dedicò un lungo paragrafo del suo Lunheng (Bilancia
di discussioni) alle prime due affermazioni di Confucio. La
prima, che alcuni commentatori avevano interpretato come un
lamento del Maestro perché il suo paese non aveva un sovrano
degno di tale nome, mentre persino i barbari avevano dei
governanti, è giustamente considerata come una prova della
superiorità culturale cinese anche in difficili contingenze
politiche. La seconda pone Wang Chong di fronte a un dilemma.
Confucio, deluso e amareggiato della sua epoca, avrebbe
espresso paradossalmente il desiderio di andare a vivere fra i
barbari, ma “ciò significa che l’uomo superiore conserva
per se stesso la sua cultura o, invece, che la comunicherà?”
– si chiede Wang Chong – “Dovrà tenersela dentro? Ma
avrebbe anche potuto farlo in Cina e non era necessario allora
andare fra i barbari; ma se doveva istruirli, in quale modo
questi potevano essere educati?” (Lunheng, p. 91).
Wang Chong resta dell’opinione che Confucio abbia usato un
paradosso assurdo come quello di poter incivilire i barbari e
ricorda come il mitico Yu, fondatore della prima dinastia,
quando andò a visitare il Paese degli Uomini Nudi (luoguo)
dovette “denudarsi finché stette fra loro e, solo quando li
lasciò, riprese i suoi abiti. L’usanza di indossare vestiti
non prese allora radici fra le genti barbare.” (ibidem).
Wang Chong era uno scettico iconoclasta, talmente autonomo da
permettersi di criticare lo stesso Confucio, anche se si
professava suo seguace.
Vedremo
successivamente come lo stesso Wang Chong parlerà delle
trasformazioni successive delle popolazioni barbare.
L’anonimo
autore del Liji (Memoriale dei riti) avrebbe invece
sostenuto che “la fama del Saggio cresce e si diffonde per
tutto il mondo, estendendosi in zone a settentrione e a
meridione sin nelle contrade barbare.” (Liji, XXVIII,
2).
Il primo grande
interprete della dottrina confuciana, Mencio (390-305 sec.
a.C.), nell’opera che porta il suo stesso nome, Mengzi, fa
un’interessante osservazione sul mondo dei barbari, quando
scrive: “Ho sentito dire che Man e Yi hanno usato costumi
cinesi, ma non ho mai sentito il contrario. Chen Liang [una
persona originaria dello stato meridionale allora considerato
semibarbarico] di Chu, incantato dalla dottrina di Confucio e
del duca Zhou, si recò a nord del suo paese per studiare la
saggezza degli Stati Centrali e fra i nostri studiosi del nord
nessuno lo superò in saggezza.” (Mengzi, III, 1).
Questo brano è una documentazione di un tipico esempio di
sinizzazione di un uomo proveniente da un paese del sud non
ancora completamente acculturato.
Non ci furono
soltanto scontri fra Cinesi e barbari nel periodo che arriva
sino alla dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.). Un errore è aver
considerato la Cina come un paese sempre chiuso in se stesso e
impermeabile alle influenze straniere. La Cina apprese da
etnie a lei diverse alcune tecniche della metallurgia, la
costruzione di città murate, l’impiego del carro da guerra
e, probabilmente, la stessa idea di ricorrere a una scrittura.
Fu capace, grazie a una tendenza sincretista che avrebbe
sempre caratterizzato la sua cultura, a sinizzare quanto aveva
accettato da altri paesi. Gli stessi barbari influenzarono
anche la Cina, quando questa dovette accettare un sistema di
leggi penali. Per i Cinesi, e in particolare per la scuola che
si richiamava a Confucio, unica legge era quella che si
ispirava al Cielo, che aveva affidato alle varie dinastie,
succedutesi nella guida del paese, l’incarico o il mandato
di governare il paese. Era questa la teoria del Mandato
Celeste (Tianming). Ma, all’età di Confucio, il
mondo era decaduto dalla mitica età dell’oro delle origini
della civiltà a un’epoca di grande corruzione politica e
morale. I Confuciani predicavano la pratica delle virtù, lo
studio dei testi antichi da cui ricavare esempi da imitare ed
errori da non ripetere, ma la concezione di un mondo basato
sull’etica era insufficiente. Necessitavano, in un’età
difficile, ferree leggi penali per riportare la società,
assieme alla pratica delle virtù e allo studio, a un livello
da cui era andata decadendo. E allora, nella sezione del Classico
dei documenti, ecco apparire un trattato intitolato Lüxing
(Le punizioni di Lü) in cui si legge che “il popolo dei
Miao non aveva una formazione edificante, ma era controllato
mediante punizioni. Furono create le cinque pene repressive e
furono chiamate leggi (fa).” (Shujing, XIX, p.
18a). I Miao erano una tribù barbara meridionale e a essi
attribuirono la creazione di un sistema penale che fu adottato
come rimedio necessario in un’epoca di estrema decadenza.
Gli stessi Qin,
prima di riuscire, attraverso lunghe e sanguinose guerre, a
creare il primo impero pancinese, erano stati considerati come
una popolazione semibarbarica, non ancora completamente
acculturata. Nel Zhanguoce (Intrighi degli Stati
Combattenti), opera redatta nel I secolo a.C. dal famoso
erudito Liu Xiang, nella sezione relativa allo stato feudale
di Wei, si afferma come “le genti di Qin hanno gli stessi
costumi dei Rong e dei Di, hanno una mentalità da tigri e da
lupi, ignorano cosa sia un comportarsi rettamente, gioiscono
della crudeltà, sono avidi di guadagno e, se intravedono di
poter trarre vantaggio da qualcosa, riescono anche a ottenerla
senza preoccuparsi di cosa possa capitare alle loro stesse
famiglie, alla maniera delle bestie selvagge.” (Zhangguoce).
I Qin furono i
primi a unificare la Cina, grazie alla loro forza militare, e
riuscirono ad attuare un sistema di riforme, ispirate in gran
parte dalla scuola legista (fajia), che estesero a
tutto il paese. La loro dinastia, che nei desideri del suo
fondatore, il Primo Augusto Imperatore, aveva previsto un
numero infinito di successivi sovrani, fu effimera, ma il loro
impianto politico, anche se mitigato dal ritorno della scuola
confuciana, costituì la base di un sistema imperiale che
durò dalla prima dinastia Han sino agli inizi del XX secolo.
In epoca Han
ritroviamo ancora il pensatore Wang Chong che, nella sezione
dei suoi sopra ricordati Lunheng intitolata Xuan Han
(Elogio degli Han), afferma che “Quando l’imperatore
della dinastia Han giunse al potere […] i Quattro Mari erano
uniti e tutto l’impero era ordinato. Gli uomini dai capelli
neri [uno dei modi per indicare i Cinesi e distinguerli da
altre etnie dai capelli biondi o rossicci come certe
popolazioni centrasiatiche] vivono ora in armonia […] Il
territorio degli antichi Rong e Di fa ora parte del nostro
paese. Gli antichi Uomini Nudi ora usano bei vestiti, le genti
che andavano a testa nuda usano adesso copricapo, e le
popolazioni che andavano a piedi scalzi ora portano le scarpe
degli Shang. Le terre sterili e pietrose sono state
trasformate in fertile suolo e i feroci banditi sono diventati
persone rispettose delle leggi. La rozzezza dei selvaggi è
stata smussata e i ribelli sono diventati gente pacifica. Non
è questa, forse, la pace universale? Per quanto riguarda
queste trasformazioni rese possibili dalla virtù, gli antichi
Zhou non superarono gli attuali Han.” (Lunheng, p.
191). A parte il tono apologetico e trionfalistico verso la
dinastia Han al potere, è evidente che l’opera di
sinizzazione dei barbari non si limitava ad aver essi adottato
costumi civili, ma anche ad aver accettato i principi della
civiltà cinese. Ma già alle porte della Cina stava premendo
un’altra popolazione nomade, come quella dei Xiongnu, che
qualche studioso ha voluto collegare agli Unni così ben noti
al nostro mondo occidentale.
Bibliografia
Liji (Memorie
dei riti), in Ruan Yuan (1764-1849), op. cit., vol. V.
Lunyu (Dialoghi), in Ruan Yuan, op. cit., vol.
VIII.
Lunheng (Bilancia delle discussioni) in Zhuzi
jicheng, Shanghai shuju, Shanghai 1986, vol. VII.
Mengzi (Mengzi), in Ruan Yuan (1764-1849), op. cit.,
vol. VIII.
Ruan Yuan (1764-1849), a cura di, Shisanjing shuju,
Yiwen Yinshuguan, Taibei 1989, 8 voll.
Shijing (Classico delle odi), in Ruan Yuan, op. cit.,
vol. II.
Shujing (Classico dei documenti), in Ruan Yuan, op.
cit., vol. I.
Zhanguoce (Intrighi degli Stati Combattenti). |