Rintracciare le origini della
meditazione non è
tanto semplice, perché forse essa risale alla preistoria e nasce
insieme alle prime forme di religione e di magia. La preghiera, il
rituale religioso e magico e il sacrificio erano tutte forme culturali
che sicuramente richiedevano ai celebranti e talvolta anche ai
partecipanti un alto livello di concentrazione mentale, e forse la
visualizzazione di divinità e antenati. Si potrebbe quindi affermare
che una prima forma di meditazione è stata costituita dal tentativo di
indirizzare a un fine preciso un ipotetico “potere” della mente: per
esempio allo scopo di invocare un dio, sconfiggere un nemico, ottenere
una cacciagione abbondante, guarire da una malattia, aiutare un defunto
nell’aldilà. È possibile che tutte le grandi civiltà antiche che
hanno dato origine alle prime forme di scrittura, e cioè l’egizia, la
mesopotamica, l’indiana e la cinese, tramandassero oralmente
discipline meditative in vario modo connesse alla religione,
all’astronomia, alla matematica, all’arte e alla medicina. La
difficoltà nel tracciare una storia della meditazione è dovuta appunto
alla trasmissione orale e all’aura di segretezza che verosimilmente
circondava queste attività. Qualcosa trapela dagli studi archeologici
della civiltà egizia, dalla mitologia mesopotamica, dalle notizie sui
grandi filosofi dell’antichità, come Pitagora, dagli insegnamenti di
Socrate e dalle opere di Platone che ci sono pervenute. Probabilmente
anche i misteri greci erano forme di meditazione e di rigenerazione
spirituale. Di certo la civiltà che più ha coltivato nei secoli la
meditazione in modo sistematico è l’India. In un piccolo sigillo
ritrovato nella Valle dell’Indo (odierno Pakistan), a Mohenjo Daro,
risalente forse al IV millennio a.C., si vede la figura stilizzata di un
personaggio tricefalo, seduto a gambe incrociate su un trono, con il
corpo attraversato da righe oblique, il capo ornato da un copricapo con
due corna. Davanti al trono ci sono due daini; intorno, una tigre, un
elefante, un rinoceronte e un bufalo. Alcuni caratteri di una scrittura
ignota adornano la parte superiore del sigillo.
La scrittura della civiltà della Valle dell’Indo,
anteriore all’invasione degli arii, purtroppo non è ancora stata
decifrata, e quindi non sappiamo che cosa raffiguri esattamente questo
sigillo. È stato ipotizzato che esso rappresenti un aspetto di Shiva
come Dio degli animali o Pashupati. Di sicuro la struttura iconografica
assomiglia in modo impressionante a quella tradizionale delle immagini
buddhiste, riprodotta in infinite varianti fino ai notissimi dipinti
tibetani detti tanka: al
centro dell’immagine, un trono sorretto da animali, sul quale sembra
esserci una corolla di loto; seduto su di esso, a gambe incrociate in
posizione perfettamente simmetrica, il misterioso personaggio,
attorniato da animali di dimensione più piccola. Ma quello che più
importa ai fini della nostra riflessione è la postura a gambe
incrociate, una posizione tipica della meditazione e dello yoga. Tale
postura, nelle sue varianti del loto e mezzo loto, ha di per sé
l’effetto di calmare la mente, e costituisce un’importante base per
alcuni tipi di meditazione. Dunque questo sigillo potrebbe indicare che
l’India antica, preistorica, prearia, già praticava la meditazione,
così come in Egitto si erigevano minuscole piramidi e nella Cina
preistorica si effettuava una specie di agopuntura, con affusolati
strumenti in pietra. Se pensiamo alle testimonianze iconografi
che lasciate da altre civiltà antiche, non
troviamo personaggi importanti seduti nella posizione del loto: gli dèi
e i sovrani egizi, mesopotamici, greci e romani sono solitamente
raffigurati in piedi, oppure seduti su un trono, a cavalcioni di una
cavalcatura o sdraiati. La postura a gambe incrociate in Egitto era
considerata umile ed era tipicamente adottata dagli scribi per compiere
il loro lavoro, non certo a fini meditativi. L’antico sigillo indiano
potrebbe quindi essere la più antica testimonianza di una posizione
utilizzata per meditare, posizione che rappresenta un’istruzione
primaria dell’attività meditativa. Il fatto che i maestri di yoga, i
fondatori del jainismo e il Buddha vengano raffigurati di solito così
seduti è significativo. Molto più scarse sono le testimonianze di
divinità o personaggi mitologici dell’induismo seduti a gambe
incrociate: solo in rari casi, quando si vuole esplicitamente ritrarli
come meditanti, Visnu e Shiva assumono la posizione del loto; altrimenti
sono in piedi, danzano, abbracciano le loro consorti oppure sono
mollemente adagiati su letti o sedili. In effetti,
salvo casi eccezionali, gli dèi non praticano la meditazione,
perché impersonano già la realtà ultima, sciolta dai vincoli della
trasmigrazione. Il misterioso personaggio tricefalo di Mohenjo Daro non
può rivelarci chi fosse esattamente, né che cosa facesse seduto a
gambe incrociate. Di certo, se è esistita una pratica della meditazione
prearia, questa ha in qualche modo influenzato la civiltà vedica degli
invasori arii giunti dal nord in India nella seconda metà del II
millennio a.C., ed ha trovato potente espressione nelle Upanishad,
ultime parti dei Veda, i sacri
testi indiani tramandati oralmente. Per millenni i Veda
sono stati insegnati solo da maestri brahmani maschi a discepoli dalle
stesse caratteristiche, e chi nasceva femmina, oppure in una casta
inferiore a quella brahmanica o al di fuori da qualsiasi casta, non
aveva e non ha ancora oggi il diritto di ascoltare le parole vediche e
le istruzioni che permettono di renderle operative nella realtà.
Secondo la tradizione, il significato simbolico dei Veda
può essere colto solo dalla viva voce del maestro, dopo che il
discepolo ha memorizzato il testo.
Oggi molte parti dei Veda
sono tradotte in italiano e si trovano comunemente in libreria, ma ci si
chiede fino a che punto queste traduzioni conservino un’essenza
spirituale così volatile. Se la conoscenza dei Veda
e la meditazione a essa legata è stata in India per lungo tempo
principalmente patrimonio e privilegio della casta brahmanica, accanto a
essa altri testi religiosi, come i Purana, ne hanno offerto alle donne e
alle altre caste una volgarizzazione; si sono sviluppate pratiche devozionali accessibili a tutti; e
singoli individui, maschi e femmine, hanno seguito la vocazione
all’ascetismo, da soli o in gruppo, praticando nei modi più vari,
rinunciando alla vita familiare e sociale, facendo voti di severa
austerità, digiunando e mendicando. Lo stesso Siddhartha, quando non
era ancora il Buddha, lasciò la casa e la famiglia, intraprese la vita
del rinunciante e andò a scuola da alcuni maestri di yoga, che gli
insegnarono importanti pratiche meditative, da lui considerate però non
sufficienti per giungere alla liberazione definitiva dalla
trasmigrazione.
Come i maestri del jainismo, il Buddha insegnò la
meditazione a rinuncianti maschi e femmine di qualsiasi condizione
sociale; inoltre, fondando come i jaina un ordine monastico maschile e
femminile e codificandone le attività, ridusse al minimo le incertezze
sulla pratica vissuta in tutti i suoi aspetti. L’ordine monastico,
poi, conservò e trasmise gli insegnamenti su come meditare e ne preservò
l’essenza, adattando la forma ai diversi contesti storici ed etnici.
Se oggi noi laici occidentali possiamo sederci a
gambe incrociate, cosa inizialmente non facile, per calmare la nostra
mente, meditare e migliorare profondamente il nostro modo di pensare e
di vivere, se questa sapienza millenaria è giunta alla nostra portata,
lo dobbiamo proprio al buddhismo indiano, che si è diffuso in tutto il mondo,
raccogliendo forse l’eredità di quell’antico personaggio seduto a
gambe incrociate raffigurato nel sigillo di Mohenjo Daro.
Antonella
Comba