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KYUDO 
UN ARCO TESO TRA CIELO E TERRA

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Avvolto da tenebre impenetrabili,
lo Zen appare il più singolare degli enigmi che
l'Estremo Oriente Spirituale ci propone:
insolubile ed affascinante nella sua incredibile semplicità.

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Non ci sono possibilità di sorta di intuirne il significato da una descrizione fatta da un seguace che ne è stato liberato e trasformato; la nostra cultura scientista a razionalista occidentale ci pone in una condizione nettamente svantaggiosa.
Esistono sì libri sacri dello Zen, ma rivelano il loro vero senso solo a coloro che hanno già vissuto l'Esperienza diretta.

Esperienza diretta: come procurarsela?

Secondo Matsu (788 d.C.) lo Zen è «Coscienza Quotidiana». Significa che bisogna cercarlo dimenticando la nostra origine pensante e razionale. D'altro canto è innegabile che le grandi opere umane compaiono all'improvviso, quando i loro artefici non calcolano a non pensano. L'immagine dell'innocenza nei movimenti spontanei di un fanciullo ci può aiutare a capire cosa significa dimenticare il proprio egotismo.

Cosa c'entra il tiro con l'arco in tutto ciò?

Ebbene, il Giappone dei nostri giorni tira con l'arco ma non si cruccia di colpire il bersaglio come noi occidentali. II Kyudo, o Shado è l'arte marziale giapponese che più incarna in sè i principi Zen dell'annullamento della personalità. La pratica del tiro con l'arco lungo non persegue fini pratici. Non limìta il suo essere ad una pura di forme estetiche. II complesso ma elegante cerimoniale che culmina con il sibilo della freccia che fende l'aria è codificato da ferree regole di etichetta a di comportamento le cui origini si perdono nella notte dei tempi.
La tecnica gioca un ruolo marginale, net senso che deve essere assorbita a livello inconscio a applicata con la naturalezza a spontaneità dovuta. L'allenamento è perciò lento, duro e faticoso.

Kyu-jutsu, arco per la guerra

Nell'antico Giappone feudale, i guerrieri che praticavano il Kyu‑jutsu venivano addestrati e disciplinati in modo tale da sviluppare un alto grado di indipendenza visiva e forte capacità di percezione dei particolari e dei dettagli significativi.
II Guerriero doveva essere in grado di «percepire» le ombre dei nemici in movimento, anticipare gli agguati e vedere con chiarezza i punti deboli della corazza del nemico lanciato al galoppo verso di lui.
In questo contesto l'arte dell'arco si avvaleva di pratiche di concentrazione e di controllo mentale che già erano antiche nel momento della loro diffusione dalla Cina in Giappone.
Attraverso il rituale Chan (in cinese, Zen in giapponese) i guerrieri del Sol levante riuscivano a creare in sé uno stato mentale di completa indifferenza a calma che permetteva loro di scagliare con la massima efficienza le frecce anche nel caos di una battaglia.

L'azione «santa» di un grande maestro

  In questa descrizione dell'azione del maestro Anzawa, uno dei più grandi maestri di Kyudo morto net 1970 ad ottantre anni, traspare chiara la «santità» dell'azione coordinata che conduce la freccia verso il  bersaglio.
Sensei Anzawa, ottantatre anni, si appresta alla cerimonia del Shado. La sua casa, nonostante sia vicina alla città, non risente del caos a del rumore.  

II Dojo è ricavato nel suo giardino; le sue orecchie non sentono, i suoi occhi non vedono ma la sua mente e il corpo sono in perfetta sintonia coordinata nei gesti del rituale.
In ginocchio nella posizione «Seiza», Anzawa raduna i suoi pensieri; il suo lungo arco nella mano sinistra tocca con l'estremità superiore il pavimento in legno.
Come impugnare l'arco a come trattenere la corda con il pollice della mano destra.
In questa esecuzione di forme, che ricorda una coreografia del teatro No, ogni azione sembra rimanere sospesa nell'eternità.
Ora si alza, scivola in avanti con i suoi piedi calzati nei «Tabi», le bianche calze contro il lucido pavimento.
Con poche lente a misurate azioni si denuda la spalla sinistra.
Si inginocchia a posiziona l'arco, il suo respiro segue il tempo.
Si alza, incocca la freccia impennata di bianco, a trattenendone un'altra con la sinistra, si prepara a scagliare.
Lentamente l'arco è innalzato sopra la sua testa; egli volge to sguardo Verso il bersaglio.
Lo tende senza alcuno sforzo e rimane in quella posizione. È il rinnovamento dell’unione tra cielo e terra per mezzo della corda dell’arco tesa, è l’equilibrio che mai deve essere perturbato.

Il dischiudersi di un fiore

La freccia è rilasciata come il dischiudersi di un fiore. Vola accompagnata da un piccolo grido acuto, il “kiai”.
Il maestro rimane immobile, segue con lo spirito il suo volo. L’apertura delle sue braccia e la rotazione dell’arco nella mano sinistra concludono elegantemente l’atto.
Una Freccia, una Vita: una perfetta azione si è conclusa. Sensei Anzawa è morto; le sue parole riassumono emblematicamente lo spirito dello Zen.
Bisogna mirare oltre il bersaglio, la nostra vita, il nostro spirito volano con la freccia.
E se la freccia è ben scoccata non vi è mai fine.

Vittorio Brizzi

(Per gentile concessione della rivista “Tiro con l’arco”)


Frammenti d'Oriente, dicembre 2001

 

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