Se fino all'anno scorso aveste chiesto ad uno spettatore italiano la nazionalità del regista Ang Lee, è probabile che avrebbe risposto: americana. Uno con quel cognome, e che ha diretto un western sulla guerra di secessione come Cavalcando col diavolo, sarà come minimo parente del generale Lee. Qualche dubbio in più sarebbe sorto a proposito di John Woo: che razza di cognome è? Comunque, è il regista di Face/off e di Mission Impossible 2, no? Sarà anche lui americano. Forse - avrebbe detto un
colto - è cino-americano.
Dobbiamo dirlo: noi italiani siamo all'età della pietra per quanto concerne la
conoscenza del cinema cinese (anzi: dei cinema cinesi, al plurale, e tra poco vedremo
perché). L'unico, indiscutibile regista cinese che conosciamo è Zhang Yimou, grazie al (relativo) successo di pubblico ottenuto da Lanterne rosse ormai un decennio fa. L'unica attrice (per il medesimo motivo) è Gong Li. Poi - ah sì, certo! - tutti abbiamo sentito parlare di
La tigre e il dragone: che diamine, ha vinto 4 Oscar! E il regista, quel signore simpatico che li ha ritirati, deve
essere cinese nonostante quel nome da sudista. Ang Lee, in qualche misura, se l'è cercata: da anni è un regista internazionale nel senso
più pieno del termine e anche il film con il quale si è rivelato in mezzo mondo,
Banchetto di nozze, era meticcio (una storia fra due omosessuali, uno bianco e uno cinese). In realtà proprio le stagioni 1999-2000 e 2000-2001, la seconda delle quali segnata in tutto il pianeta dal grande successo di La tigre e il dragone, sono stati importanti per la presenza cinese sul mercato italiano: sono usciti anche due film del solito Zhang Yimou,
Non uno di meno e
La strada verso casa, il primo dei quali Leone d'oro a Venezia 1999; sempre dal Lido è arrivato Diciassette anni, diretto dal più importante e controverso esponente della Sesta
Generazione, Zhang Yuan; da Hong Kong è invece giunto il vero film-culto di questi anni,
In the Mood for Love di Wong Kar-Wai. Inoltre, si è definitivamente imposto John Woo (che, ormai possiamo dirlo, è assieme a Tsui Hark il massimo maestro del cinema d'azione hongkonghese dagli anni '80 in poi). Sembra molto. Invece è pochissimo. Almeno rispetto a paesi come la Francia e la Gran Bretagna, dove i film escono non solo perché le
comunità cinesi di quei paesi sono assai più numerose e organizzate delle nostre, ma anche perché le rispettive industrie
cinematografiche puntano molto sulle coproduzioni con l'Oriente. Due esempi: i nuovi film dei
taiwanesi Tsai Ming-Liang (
Et là-bas, quelle heure est-il?, ovvero
L
aggiù che ora è?) e Hou Hsiao-Hsien (
Millennium Mambo) sono entrambi coprodotti dalla Francia e infatti erano entrambi in concorso alla penultima edizione del Festival di Cannes, quella
stravinta da La stanza del figlio di Nanni Moretti. Sono stati acquistati per l'Italia ma nella stagione appena conclusasi non sono usciti (Millennium Mambo nelle sale è uscito
fugacemente nelle sale italiane quest'estate): per questo tipo di film far breccia nel
blindatissimo sistema delle sale italiane è sempre molto difficile. Così, per la stagione 2001-2002 ci siamo accontentati di Le biciclette di Pechino, distribuito dalla Teodora Film e
diretto in assoluta, orgogliosa indipendenza dal regista Wang Xiaoshuai, un giovane
autore che vanta un poco invidiabile primato: ha girato 5 film e tutti e cinque sono stati proibiti in Cina. Tra l'altro, anche sul
concetto di "indipendenza" sarebbe bene intendersi. È una parola che in Cina può avere almeno due significati: può trattarsi di film girati pressoché clandestinamente, in video, senza alcun permesso e alcun appoggio dalla cinematografia statale (è il caso di due
notevolissimi film visti a Venezia 2001,
Seafood di Zhu Wen e
Pesce ed elefante della
giovanissima Li Yu: quest'ultimo, salvo omissioni, il primo film cinese a raccontare un amore lesbico); o di film girati al di fuori degli
studi statali, ma supportati da produzioni estere (è quest'ultimo il caso di
Quitting di Zhang Yang, anch'esso a Venezia 2001 o delle
nostre
Biciclette che ha alle spalle capitali tedeschi e francesi e non a caso è stato
premiato a Berlino: per i film di questa categoria l'appoggio, già a livello produttivo, dei
festival occidentali è una delle principali fonti di sussistenza).
Ecco perché parlavamo di "Cine": non solo perché le Cine erano tre (Cina Popolare, Taiwan, Hong Kong) e continuano ad
esserlo, cinematograficamente, anche dopo il ritorno di Hong Kong al "mainland", al
continente; ma anche perché all'interno di queste tre Cine sussistono enormi differenze. Ad esempio, noi occidentali conosciamo il
cinema taiwanese solo per i film che arrivano ai festival, e pensiamo probabilmente che tutti i registi dell'isola che fu chiamata
Formosa siano intellettuali, pensosi e lievemente criptici come Hou Hsiao-Hsien e Tsai Ming-Liang. Niente di più falso. Hou e Tsai sono, a Taiwan, autori per pochi,
rigorosamente emarginati dal mercato come può esserlo un Ermanno Olmi in Italia; e il 90% della produzione ripercorre i generi cari al cinema di Hong Kong, dal thriller
all'action-movie alla commedia. Di Hong Kong, abbiamo pian piano imparato che è stata la
cinematografia più moderna e spettacolare, a livello mondiale, dagli anni '80 in poi: ma conosciamo la punta dell'iceberg. Abbiamo un ricordo forte ma ormai lontano di Bruce Lee, abbiamo visto i film americani di John Woo, qualche filmetto minore di Jackie Chan e solo le modestissime opere che Tsui Hark (il vero genio del cinema degli ultimi vent'anni: Woo, per capirci, l'ha scoperto lui) ha girato in Occidente.
Il caso di La tigre e il dragone è emblematico: leggere le stupite recensioni di molta stampa occidentale era davvero esilarante. Sembrava che Ang Lee avesse inventato un genere, quando La tigre e il dragone (e il
regista è il primo ad ammetterlo) è già un film "revisionista" su un genere, il
wuxiapian, che nelle tre Cine è popolare da almeno trent'anni. Si tratta di film di arti marziali, o di cappa e spada, il cui maestro King Hu (suo il capolavoro A Touch of Zen, passato in Italia solo su qualche nottata di "Fuori
orario") era attivo già negli anni '60 ed è recentemente scomparso, portandosi nella tomba il sogno di un film sul religioso
italiano Matteo Ricci, uno dei personaggi-ponte (ma assai meno famoso di Marco Polo) fra Oriente e Occidente in tempi non sospetti. La tigre e il dragone sta a King Hu, o ai
meravigliosi wuxiapian di Tsui Hark (Peking Opera Blues su tutti, ma che dire della serie di
Storie di fantasmi cinesi prodotta da Tsui e diretta da Ching Siu-Tung?), come i film di Peckinpah o di Leone stanno ai western classici di John Ford. Voi affermereste di capire C'era una volta il West se non avete visto Ombre rosse? Sicuramente no. Ma di fronte a La tigre e il dragone, scopriamo l'acqua calda: e non sappiamo né da dove sgorga né chi l'ha scaldata.
Visto che, con La tigre e il dragone, siamo entrati nel territorio del cinema popolare, sia pure di altissima fattura, vale la pena
spendere due parole su un altro continente ignoto: il pubblico cinese. Sia chiaro: è ignoto anche a chi scrive, che non è mai stato in Cina, ma vorremmo limitarci a riferire alcuni segnali di fumo arrivati dalle nostre parti grazie ad un festival assolutamente meritorio, il Far East Film Festival che si svolge ad Udine (per iniziativa dell'associazione culturale Cec, Centro espressioni cinematografiche) ogni anno, nel mese di aprile. Perché è
eccezionale, questo festival? Perché propone i film "popolari" dei paesi orientali, quelli che davvero la gente va vedere in Corea, in Giappone, nelle Filippine, a Singapore e, appunto, in Cina. Nell'edizione 2001
abbiamo appunto visto due fra i maggiori successi "di cassetta" nella Cina popolare: Dimmi il tuo segreto di Huang Jianxin, regista fra i meno noti della Quinta Generazione, e
Sospiro di Feng Xiaogang (traduciamo dai titoli inglesi destinati alla distribuzione
internazionale, che spessissimo - e questo vale in realtà per tutti i film citati - non
corrispondono a quelli cinesi). La cosa sorprendente di questi due film è lo spaccato sociale che propongono: sono indagini sulla classe
media, su gente che maneggia denaro, viaggia su belle macchine, vive in case borghesi, ha un'assidua frequentazione di computer e
cellulari. Naturalmente, in entrambi i casi fa capolino il dramma: nel caso di Huang, il "segreto" del titolo è l'incidente d'auto
provocato da una donna, che sta rincasando ubriaca, dopo una cena al ristorante; in
Sospiro, l'ambiente è invece, addirittura, quello del cinema, e il protagonista è uno
sceneggiatore alle prese con temi quali adulterio, divorzio e difficoltà relazionali tra sessi nella Cina metropolitana di oggi. I personaggi mangiano al Kentucky Fried Chicken,
bevono il caffè da Starbucks, hanno più gli stessi problemi dei protagonisti di Un posto al sole: insomma, vedendo questi film si scopre che il pubblico cinese - più o meno come quello occidentale - ama le soap e le storie d'amore tormentate, e non disdegna di vedere sullo schermo gente ricca e vite di lusso. Viene da pensare che L'ultimo bacio di Muccino
potrebbe essere un successone da quelle parti; ma in fondo è più interessante sapere che, questi sì!, sono film di Stato e che Feng ha dovuto subire dalla censura una sola
condizione affinchè il suo film fosse approvato: lo sceneggiatore alla fine del valzer di corna e avventure, doveva tornare dalla sua
famiglia. In Cina esiste una sorta di codice Hays, funzionale ai modelli (sociali, narrativi, comportamentali) che si vuol fare arrivare agli spettatori; ma finché ci limiteremo a importare quei 4 o 5 film all'anno (quasi sempre, come si è visto, proibiti in patria o comunque snobbati dal grande pubblico) non lo capiremo mai.
Alberto Crespi
(Per gentile concessione di MONDO CINESE)