L'atto di mangiare, in Giappone, non è un semplice gesto per nutrirsi bensì è parte intrinseca della cultura nipponica. Il modo di preparazione, di cottura e di consumo è un'arte dove l'estetica, la tradizione, la
religione e la storia sono altrettanto importanti, se non di più che il cibo stesso. Ogni fase nella preparazione e presentazione di un piatto è come il movimento di una sinfonia, e un pasto giapponese riflette la più intima natura di questo popolo, il suo amore per una bellezza disciplinata, il suo rispetto per ogni forma d'espressione artistica.
Contrariamente ai costumi occidentali che tentano di mescolare i sapori, i piatti sono costituiti da differenti alimenti ognuno dei quali deve possedere ciascuno la propria
individualità di gusto e di aspetto.
I consumi alimentari dei giapponesi hanno profonde radici nella loro storia, e nella
natura della loro terra e del loro mare. Le isole giapponesi sono circondate da acque
ricchissime di pesce, mentre solo una piccola parte delle terre è adatta alla coltivazione, di modo che
- con un paio di eccezioni - il pesce e altri prodotti ittici giocano un ruolo primario nell'alimentazione quotidiana e, a Tokyo al mercato di Ameyoko vicino al parco di
Ueno, al mercato centrale di Tsukiji, le bancarelle abbondano di sarde, di piccoli pesci sott'olio, di alghe, di molluschi ecc. La
vendita all'incanto dei tonni alle prime ore dell'alba è uno spettacolo al quale ogni
turista dovrebbe assistere.
Delle eccezioni suddette la più importante è il riso, pilastro dell'alimentazione
giapponese fin dall'antichità, e anche oggi presente in tavola ad ogni pasto, cominciando dalla
prima colazione.
Il Giappone non sarebbe il Giappone senza il gohan, che significa sia pasto che riso ed è presente dalla prima colazione alla cena.
Le porzioni sono sempre minuscole, preferendo moltiplicare così i sapori come se ogni pasto fosse un campionario da degustazione.
Qui, non si ricercano i prodotti esotici o fuori stagione, poiché ogni stagione apporta le proprie specialità.
La tradizione culinaria giapponese
risale a tempi lontani
Tra il VI e il VII secolo della nostra era, il Giappone è stato largamente influenzato
dalle sue strette relazioni con la Cina, quando si importavano il tè verde e i fagioli di soia. La cucina cinese, molto più complessa e più
sofisticata, era influenzata dal buddhismo, una religione basata sulla valorizzazione e il
rispetto qualsiasi forma di vita - la carne era bandita dall'alimentazione quotidiana in quanto colpiva la vita animale. Tutta questa filosofia ha segnato il menu tradizionale. Questa influenza ebbe fine a metà del IX
secolo con la caduta della dinastia Tang. Poi giunse l'età d'oro del Giappone, chiamata età Heian, dal nome di Heian-Kyo, l'antica capitale del Giappone (l'attuale Kyoto).
Per 400 anni, la vita sociale e l'arte in generale furono al loro apogeo. Si elaborò un
codice per il cerimoniale e, se la tavola era ancora frugale, la disposizione dei piatti e degli alimenti entrò a far parte della rivoluzione dell'arte e dell'estetismo visivo. Più tardi, l'epoca dei samurai introdusse l'eleganza e l'arte di mangiare divenne un'arte, una
raffinatezza e una cerimonia.
I primi contatti con il mondo occidentale non furono indolori. Parimenti a quello
cinese, il popolo nipponico considerava gli occidentali come dei barbari, e per far loro
piacere, creò a metà del XVI secolo il tempura, traendo ispirazione da alcuni piatti fritti
portoghesi e adottando questo principio con un'arte consumata e una leggerezza di
tessitura che andavano ben oltre alla versione originale. Non è che alla fine del XIX secolo, dopo una lunga frequentazione del mondo in generale, che la cucina giapponese abbandò la dieta vegetariana.
La cerimonia del tè
Questa tradizione risale al XIII secolo, perpetuata dai monaci buddhisti Zen per
raggiungere mentalmente e fisicamente la spiritualità. È nel XV secolo che si assiste alla cerimonia del tè in tutta la sua perfezione
rituale, un capolavoro di raffinatezza alla corte imperiale. Il Maestro del tè governa ogni fase della cerimonia dalla scelta della
grandezza della camera, al numero degli invitati, alla disposizione degli utensili, sino al
servizio.
La teiera, il vassoio e la ciotola vengono puliti con un panno di seta chiamata
fukusa. La ciotola viene quindi lavata con acqua
bollente che viene presa dal tradizionale bollitore in ferro mantenuto in caldo sopra a della carbonella di legna. In seguito, con dei gesti solenni, si misura con estrema cura la
polvere di tè verde nella ciotola con l'aiuto di un lungo cucchiaio da tè in bambù. Si versa quindi l'acqua, che deve essere la più pura, la più fresca e al giusto grado di temperatura senza che abbia bollito o sobbollito
eccessivamente. Il tè viene poi sbattuto con un chasen, un frusta di bambù fatta a mano al fine di produrre una schiuma verde giada.
La tecnica richiede anni di esperienza, un gioco di polso grazioso ed elegante al tempo stesso. Infine si beve il tè a piccoli sorsi per apprezzarne
ogni sfumatura dell'aroma. Il Giapponese dedica circa 40 minuti per una semplice cerimonia del tè, ma si devono
calcolare diverse ore se la cerimonia è accompagnata dal tradizionale kaiseki, il pasto
tradizionale servito con la stessa eleganza nella gestualità e altrettanto simbolismo.
Ricevere alla giapponese
Se desiderate organizzare una cena alla giapponese è bene sapere che il pasto, in Giappone, non è relegato alla funzione
primaria di mangiare per nutrirsi, ma fa parte integrante dell'arte nella sua forma più pura.
Il cibo deve essere bello a guardarsi, non soltanto al momento in cui viene servito ma già prima di essere cotto: le fette devono
essere regolari, le guarnizioni devono creare piacevoli effetti di colore, tutto deve sempre essere una carezza per l'occhio. Insomma, le presentazioni sono come dei quadri, ogni
cibo ha il proprio posto su uno stesso vassoio o in piccoli recipienti (di vetro o ceramica per cuocere vivande al fuoco o a
bagnomaria) separati. È un'arte, questa, che necessita di tempo quando non si ha il senso della
poesia.
Dal lato utensili, ogni pasto viene consumato con delle bacchette e questa semplice novità apporterà al vostro ricevimento un tocco di gaiezza. I piatti sono molto diversi dai
nostri, perché sono scelti in funzione non uno dell'altro, ma ciascuno di ciò che deve
contenere; ogni cucina giapponese ne possiede una grande varietà, adatti ad ogni varietà di cibo. Il colore è la cosa più importante, e
subito dopo viene la forma. Raramente i giapponesi usano piatti bianchi; perlopiù ne
hanno con disegni di pesci, frutti e verdure, in una varietà di colori. Il principio di fondo è quello dell'armonia di colore e forma fra il piatto e il cibo che esso contiene.
Non disponendo di piccoli piatti tipicamente giapponesi, potete utilizzare delle tovagliette di bambù, dei ventagli, dei piccoli recipienti ecc. Ogni cibo ha il suo piatto, la sua
coppetta. Bisogna saper moltiplicare i piccoli piatti.
Niente tovaglia ma una tavola nuda, depurata. E neppure tovaglioli. Prima di iniziare il festino, si servirà a ciascun invitato una
oshibori (tovaglietta di spugna arrotolata) umida e calda; per facilitare il compito
inumidire nell'acqua fredda, strizzare, arrotolare e disporre in un piatto rettangolare.
Riscaldare le salviette al microonde, e servirle con delle pinze (quelle che si utilizzano per girare gli alimenti sul grill). A fine pasto, si offrirà a ciascun invitato una ciotolina di
acqua calda profumata con una fetta di limone che serve anche a sgrassare le dita.
Questione pratica, non c'è da andare e venire dalla sala da pranzo alla cucina. Tutti i piatti sono sulla tavola, affinché gli invitati
possano creare essi stessi le armonie che desiderano. La cucina si fa davanti agli invitati e si portano tutti i cibi da cucinare graziosamente presentati su un grande piatto. Si può, in
alcuni casi, utilizzare degli scaldavivande per mantenere caldi il sakè, il tè verde, la zuppa che si versa in una ciotolina verso la fine del pasto per facilitare la digestione.
Settore bevande, del Sakè, questo "vino" di riso che si beve ben caldo in tazzine di
porcellana senza anse.
Gli spaghetti si mangiano portando la ciotola vicino alla bocca. Si prendono allora con le bacchette un po' di spaghetti che si aspirano rumorosamente, segno di soddisfazione e di etichetta.
Bisogna sapere che il pasto giapponese non comporta alcun dessert, salvo che in rare
occasioni. Si termina generalmente con un frutto di stagione: pera giapponese, kaki ecc.
Ospite a casa
di una famiglia giapponese
La testimonianza di una serata alla scoperta di un'antica e raffinatissima cultura,
dove equilibrio interiore, silenzio e armonia sono le parole d'ordine
Stava scendendo la sera quando giunsi dinnanzi alla casa. Una calma indefinibile mi pervase. Una brezza calda faceva muovere dolcemente le fronde dei giovani aceri e a questo giorno restava abbastanza luce per distinguervi un magnifico giardino.
Alcune pallide ninfee nel cuore di foglie rotonde su uno stagno, la sabbia appena
rastrellata formava degli arabeschi. Un sasso insolito mi fece inciampare. Il suono della mia voce più che la mia imprecazione aveva attirato la Signora Yukuwa sulla soglia di casa.
Come avrei desiderato, in quel momento, avere nel mio vocabolario le parole per
scusarmi per avere violato il silenzio del giardino zen. È con un sorriso che rassicurai i miei ospiti in
kimono. Essi erano là, autentici,
legati intimamente alla vita. Il marito si inchinò per una leggera riverenza altera e fiera. Era un figlio di antiche dinastie samurai e io mi chiesi se tutti i giapponesi fossero simili a lui: un'apparenza occidentale su di un'anima profondamente orientale. Appresi che
lavorava in fabbrica là dove il giorno penetra appena ma dove dimorano, vividi, i simboli del Sol Levante e la luce di un tempo.
Una volta oltrepassata la soglia, scambiai le mie scarpe con delle pantofole di feltro,
questo piacevole costume che vuole che alcuna sporcizia attaccata alle suole penetri all'interno e che nessun tacco vada a
intaccare il tatami. In muffole bianche, la signora Yukawa attraversò la stanza. Io la seguii con gli occhi e il mio sguardo si fermò, vicino a un armadio a muro, sul
tokonoma (1) dove troneggiava un buddha attorniato da due mazzi di fiori identici.
Quel mattino la signora Yukawa aveva rinnovato con maggior cura del solito i sei fiori a stelo lungo la cui presenza onora gli
antenati.
|
Hideki, che aveva seguito il mio sguardo, mi spiegò i segreti dell'ikebana, un'arte minore che sviluppa la sensibilità nelle ore di riposo.
Ikebana significa "fiori vivi", poiché questi fiori hanno il compito non di abbellire la
casa bensì di darle uno stile. Una composizione non si ripete due volte e in ogni
composizione un ramo simbolico è sempre rivolto verso il cielo. Comporre un
ikebana, mi
disse, non è un'occupazione esclusivamente femminile, ma anche un passatempo per gli uomini, considerati in Giappone capaci di cogliere anche il linguaggio dei fiori.
Durante questo periodo la signora Yukawa andava e veniva con estrema leggerezza, sfiorando gli oggetti più che toccarli. Posava con una tale grazia i cibi sul tavolo di lacca nera che la si sarebbe detta un'artista all'opera. Che rapimento per gli occhi e
quale delizia per il palato! La cena sembrava avere per tema la virilità e il coraggio.
L'insieme dei cibi portati comprendeva dei gamberetti rosa messi vicini a rappresentare un elmo da samurai; su un vassoio di bambù, delle rondelle di cetriolo erano state tagliate in modo da simboleggiare la cotta di maglia di un avventuriero; pezzi croccanti di
zenzero avvolti in fogli di nori (alghe) a ricordare delle lance e, su un mare di riso, una sarda seccata e salata faceva pensare a una barca.
|
Ikebana,
l'arte di comporre i fiori, nel tokonoma |
|
Se un tempo i nobili dovevano vuotare le loro ciotole fino a renderle pulite, tanto da far scivolare nelle maniche del loro kimono i semi dei frutti o le lische dei pesci, ancora oggi un piatto contenente degli rimasugli è per i giapponesi uno spettacolo sgraziato e offensivo. Cosciente di tutto questo, ma
senza sforzo, devo ammetterlo, alla fine del gohan (pasto) la mia ciotola era vuota. Deposi le mie bacchette e mi ritornò alla mente una frase letta una volta: "Questi stranieri pallidi, dal naso lungo, ingoiano grossi pezzi di
carne e queste maniere ci fanno orrore… ma noi non sappiamo se hanno un'etichetta; mangiano con le dita e non come noi con delle bacchette".
Indovinai, più che sentirlo realmente, il soffio d'aria che spostava al passaggio il largo
kimono ornato di fiori bianchi della signora Yukawa. Suo marito versò dell'acqua
bollente in una tazza, mescolò il tè, portò la tazza alla fronte, l'abbassò e ne bevve qualche sorso. Molto maldestramente l'imitai.
"Lentamente, molto lentamente - insistette - così coglierete il piacere del gesto prima
ancora di apprezzare il vostro tè. Il tè ha una lunga storia, e fu introdotto in Giappone
verso l'anno 800 sotto forma di una polvere che serviva a curare i malati o a confezionare delle bevande per i preti e i ricchi.
Noi beviamo - disse - il shincha; è una varietà di ocha (tè verde) molto dolce, ma per la cerimonia del tè utilizziamo delle foglie raccolte da piante speciali e molto antiche. Noi siamo
- mi disse ridendo - altrettanto maniaci in fatto di tè quanto i più
tradizionalisti dei lord inglesi".
Approfittai del suo buon umore per risistemare le mie gambe incrociate, in quanto
sentivo uno spiacevole formicolio. Feci degli sforzi per trovare la posizione migliore,
poiché non ci sono sedie in una sala da pranzo giapponese.
"Il tè - proseguì il mio ospite - è una vera cerimonia. È il cha-no-yu, una storia
risalente a Senno Rikyu, un monaco zen del XVIII secolo che scrisse un codice del tè, ne stabilì la regola severa e complicata". Ammirai la sottigliezza delle parole e compresi il
messaggio. Per rispetto e anche allo scopo di provare che un Occidentale ne è capace, bevvi in silenzio e scoprii un mezzo
straordinario di comunicazione.
Quando sua moglie fece ritorno, notai il suo modo sottomesso, rivelatore della sua
educazione e del gusto dell'abitudine. Era ancora un omaggio spontaneo a suo marito, alla sua casa e all'invitato che la casa accoglie.
Con rimpianto presi congedo dai miei ospiti e ritornai in albergo.
-----------
(1)Tokonoma : nicchia grande circa un tatami (1,80 x 0,90), alta fino al soffitto, ricavata nella parete rivolta nella direzione propizia, di una tipica stanza
giapponese che funge da sala. Sulla parete di fondo viene appeso un rotolo di carta con un disegno o un dipinto o una calligrafia. Nel centro viene posto un vaso di fiori o un oggetto ornamentale. Il pavimento è
leggermente sopraelevato rispetto al livello del tatami.