Giuliano Bertuccioli in un suo saggio di 16 anni fa1 aveva accennato ai due soli diplomatici del Ministero degli Esteri che all’epoca conoscevano il cinese, senza indicarli per nome. Il primo era Mario Crema, il secondo il sottoscritto. Nella prima parte di questo
lavoro2 ho rievocato alcuni particolari sulla formazione di Mario Crema, che aveva studiato cinese all’Università di Londra, e sulle sue esperienze in Cina durante la rivoluzione culturale. In questa seconda parte cercherò di raccontare qualche cosa del secondo diplomatico che Bertuccioli aveva in mente, Mario Filippo Pini, entrato in carriera nel 1970. Compito non proprio semplice. Parlare di se stessi non è facile.
1. Il mio ingresso in carriera
Dopo la laurea in Scienze politiche all’Università di Pisa, avevo studiato cinese all’Ismeo a Roma per un anno e poi ad Harvard, come parte del programma per un M.A. in “Regional Studies - East Asia”. La mattina del 25 gennaio 1969, mentre ero ancora studente ad Harvard, sentii alla radio che il giorno prima il Ministro degli Esteri Pietro Nenni aveva dichiarato alla Camera l’intenzione di riconoscere la Repubblica popolare cinese. Il fatto
che una stazione radio di Boston, di solito interessata al massimo a quello che succedeva nel Massachusetts, desse la notizia della decisione italiana dice molto sull’atteggiamento americano nei confronti della Cina. Allora,
almeno ufficialmente, la Rpc era ancora il grande nemico da contenere a tutti i costi. Ogni apertura di un paese alleato verso Pechino aveva subito una risonanza oltre Atlantico che oggi, a distanza di tanti anni, facciamo fatica a comprendere. In ogni caso l’annuncio mi fece una profonda impressione.
Finalmente intravedevo un’occasione per andare in Cina, un mondo affascinante che fino ad allora avevo conosciuto solo sui libri. Decisi che, dopo il master ad Harvard, che avrei dovuto conseguire pochi mesi dopo,
sarei tornato in Italia, avrei fatto il concorso per la carriera diplomatica e, una volta entrato in diplomazia, mi sarei fatto destinare a Pechino. Santa sicurezza della gioventù.
Nel saggio che ho citato all’inizio, Bertuccioli osserva che il Ministero degli Esteri aveva sempre “confinato i conoscitori delle lingue orientali, ed in particolare del cinese, nel modesto ruolo degli interpreti: una carriera
che offriva pochissime aspettative di avanzamento”3. Soltanto nel 1967 il Ministero degli Esteri riuscì finalmente a riorganizzare la propria struttura, non più all’altezza dei tempi. Tutte le carriere specializzate, ivi compresa
quella per l’Oriente, vennero fuse nella nuova carriera diplomatica4. Venne creato un piccolo ruolo di “esperti di lingue”, più traduttori che interpreti, che avrebbero dovuto prestare servizio a Roma. Nell’ambito dell’unica
carriera diplomatica furono istituite delle specializzazioni per aree e per materia. I candidati per la specializzazione Estremo Oriente avrebbero dovuto sostenere gli esami scritti di diritto e di economia insieme a tutti gli altri candidati. Anche il giorno della prova di storia contemporanea si sarebbero trovati nella sala d’esame con gli altri aspiranti. Ma invece di svolgere un tema su qualche grande evento europeo ne avrebbero svolto uno di storia dell’Asia. Lo stesso sarebbe avvenuto il giorno delle prove scritte di lingua. Mentre i loro futuri colleghi se la vedevano con il francese e l’inglese, i futuri orientalisti avrebbero affrontato una sola lingua europea, ma avrebbero anche tradotto un testo cinese in italiano. Fu questo l’esame di concorso che io feci nell’autunno del 1969. Il tema di storia che mi fu assegnato verteva sul Vietnam del diciannovesimo secolo. Per la prova di cinese scritto mi aspettavo un documento della Rpc, oppure un articolo del
Quotidiano del Popolo. Invece mi trovai davanti una pagina di un autore cinese. Ba Jin, se ricordo bene. A tutt’oggi mi sfugge la logica del commissario d’esame per il cinese, dato che, se avessi vinto il concorso, sarei andato a Pechino e mi sarei reso utile ai miei superiori spiegando quello che raccontava il
Quotidiano del Popolo e non quello che raccontavano i grandi scrittori degli anni
trenta5. Ba Jin è un autore facile ma io, con pochi anni di cinese alle spalle e con la testa piena zeppa del frasario ideologico comunista del tempo, me la cavai maluccio. Alcuni anni dopo, forse spinto dai miei ricordi della prova di concorso, lessi tutte le principali opere di Ba jin, che è iventato uno dei miei autori preferiti. Almeno da quel punto di vista l’esame di concorso mi fu utile.
Comunque superai l’esame, entrai in carriera e fui destinato all’ufficio Asia della direzione generale Affari Politici, allora impegnato nella fase finale del negoziato per il riconoscimento della Rpc.
I negoziati erano cominciati a Parigi a febbraio dell’anno precedente, poco dopo l’annuncio di Nenni alla
Camera6. I cinesi avevano aperto le trattative proponendo un comunicato congiunto nel quale l’Italia riconosceva la sovranità della Rpc su Taiwan, prometteva di rompere ogni rapporto con la “cricca di Chiang Kai-shek” e prometteva di appoggiare le rivendicazioni della Repubblica popolare all’Onu. L’Italia voleva invece una precondizione del riconoscimento. I canadesi, che avevano cominciato a negoziare il riconoscimento con la Cina a Stoccolma contemporaneamente a noi, erano incappati nelle stesse difficoltà. Nel dicembre del 1969 i cinesi avevano rinunciato all’inserimento nel comunicato del paragrafo sulla rottura dei rapporti con la cricca di Chiang Kai-shek e al paragrafo sull’Onu, ma restavano irremovibili per quanto riguardava la loro sovranità su Taiwan. All’inizio di agosto del 1970, quando approdai all’ufficio Asia, la situazione era sostanzialmente immutata. I cinesi volevano inserire Taiwan nel comunicato congiunto per il riconoscimento e noi no. I canadesi ci
assicuravano che nemmeno loro volevano mollare su Taiwan. Noi, in ogni caso, eravamo decisi ad arrivare al riconoscimento dopo il Canada, per meglio resistere le pressioni americane. All’ufficio Asia si respirava
una atmosfera di impasse7. Se dovevamo concludere dopo i canadesi e se i canadesi, proprio come noi, non volevano cedere su Taiwan, non si vedeva proprio quale potesse essere una via di uscita. L’atmosfera cambiò
completamente lunedì 5 ottobre, quando i canadesi ci annunciarono di punto in bianco di aver risolto il problema relativo al paragrafo su Taiwan due giorni prima e di aver concluso il negoziato. Avrebbero riconosciuto
la Rpc una settimana dopo, il 13 ottobre. I cinesi avrebbero inserito nel comunicato congiunto il principio della loro sovranità su Taiwan. I canadesi, per parte loro, si sarebbero limitati a “prendere nota” della posizione cinese.
I canadesi avevano concluso la loro opera di nave rompighiaccio davanti a noi. L’idea di prendere nota della posizione cinese su Taiwan non ci piaceva molto. Ma se l’aveva accettata Ottawa potevamo accettarla anche noi. Gli americani non avrebbero potuto obiettare più di tanto.
Io mi emozionai molto, come un anno e mezzo prima quando Nenni aveva annunciato che l’Italia avrebbe riconosciuto la Rpc. Tutto a un tratto il mio obiettivo di andare a Pechino sembrava molto più vicino e a portata
di mano. Non resistetti però alla tentazione di dire la mia, come sinologo in erba, durante questa ultima fase del negoziato. Trovai da ridire su zhuyi, i due ideogrammi che canadesi e cinesi avevano scelto per il concetto di “prendere nota” della posizione cinese su Taiwan. Spiegai ai miei superiori che zhuyi aveva innanzi tutto il significato di “prestare attenzione”. Quindi il termine mi sembrava un po’ più impegnativo del semplice “prendere nota” della lingua italiana. Non misi per scritto il mio tentativo di precisazione linguistica. Ma la
mia obiezione fu recepita. Il mio capo ufficio Asia la trasmise alla segreteria generale, che a sua volta la trasmise ai nostri negoziatori a Parigi. Le cose dette a voce, si sa, quando passano di bocca in bocca tendono a subire
modifiche. Nella riunione presso l’ambasciata italiana a Parigi del 27-28 ottobre, la delegazione italiana chiese alla controparte se era vero che nel testo cinese c’era scritto che l’Italia “prendeva nota con attenzione” della posizione cinese su
Taiwan8. Evidentemente le mie disquisizioni sul termine zhuyi non erano arrivate intatte a Parigi. I cinesi assicurarono, con un moto di impazienza, che nel testo cinese dopo “prendere nota” non c’era la parola “con attenzione” e così finì il mio primo tentativo di mettermi in luce come esperto di cinese.
Ricordo che l’ambasciatore della Cina nazionalista Xu Shaochang lasciò l’Italia il 6 novembre, il giorno stesso in cui riconoscemmo la Rpc. Il povero Xu aveva un karma che sarebbe stato un incubo per qualsiasi diplomatico.
Dopo essere stato costretto a lasciare il nostro paese ottenne il posto di ambasciatore a Buenos Aires, ma dovette andarsene anche da là, quando l’Argentina riconobbe Pechino. Dall’Argentina fu destinato nel Vietnam del Sud, ove gli toccò una melanconica partenza per la terza volta di seguito, quando Saigon cadde di fronte all’avanzata dei nord
vietnamiti9.
2. Prime esperienze a Pechino, contatti con una connazionale che viveva in un villaggio
Pochi mesi dopo il riconoscimento fui destinato in Cina. Arrivai a Pechino nel maggio del 1971, tre settimane dopo l’ultima apparizione in pubblico del presidente Mao, avvenuta in occasione della festa del lavoro del primo maggio. L’ambasciata era stata appena aperta ed era ancora installata in un appartamentino, in attesa che i cinesi
finissero di costruirci, in gran fretta, una cancelleria e una residenza per l’ambasciatore. Come diplomatico più giovane del gruppo toccò a me, tra gli altri compiti, occuparmi di questioni consolari, all’inizio, in verità assai limitate. Le delegazioni cinesi che andavano in Italia e avevano bisogno di visto erano ben poche. E la comunità italiana, a parte pochissimi e saltuari uomini d’affari, era inesistente. In effetti il primo caso di cui mi dovetti occupare riguardava un connazionale deceduto molti anni prima. Le autorità cinesi mandarono in ambasciata
un fascicoletto con il resoconto, molto scarno, di un legionario di origine italiana che, all’epoca della disfatta francese a Dien Bien Phu in Vietnam nel 1954, aveva disertato e, per sfortuna sua, era finito in Cina. Non ricordo il nome di questo connazionale, deceduto per malattia e probabilmente per stenti, in un campo militare dello Yunnan. Ricordo solo, ancora oggi, la foto della salma che i cinesi scattarono subito dopo il decesso e pensarono bene di allegare al fascicolo con precisione burocratica. L’immagine in bianco e nero mostra un ragazzo magrissimo, con carnagione molto chiara, capelli neri, tratti delicati, steso su un lettino da campo come se fosse solo assopito. Non si notano segni di passate sofferenze. Un ricciolo sulla fronte allontana ogni parvenza di rude soldato di ventura.
La mia convinzione di non avere italiani residenti in Cina, in ogni caso, non durò a lungo. Un giorno mi arrivò sul tavolo una lettera da una italiana che risiedeva nel Zhejiang, Piera Tozzini. Il suo italiano era un po’ incerto e arrugginito, il linguaggio controllato. Ma il messaggio era chiaro e commovente. La Tozzini, lombarda d’origine, aveva spostato un cinese a Milano e lo aveva seguito in Cina nell’immediato dopoguerra. La vita in Italia all’epoca era molto difficile, ma la Tozzini non poteva immaginare che stava andando a incappare in una realtà molto più drammatica e complessa di quella che aveva lasciato alle spalle. Dopo il 1949 era rimasta letteralmente arenata in un villaggio cinese, senza contatti e aiuti dall’esterno. Lo stabilimento delle relazioni
diplomatiche tra Italia e Cina le aveva dato speranza. Forse l’ambasciata poteva fare qualche cosa per lei. All’inizio ci muovemmo con cautela perchè sapevamo quanto i cinesi fossero sensibili a qualsiasi nostro contatto al di fuori dei canali ufficiali, non controllati. La Tozzini ci avrebbe inevitabilmente mostrato una faccia della realtà cinese che il regime non gradiva far conoscere. Dopo alcuni mesi riuscii ad ottenere il permesso dalle autorità di andare a trovare questa nostra unica e sola connazionale nel paese. Non nel villaggio dove viveva, ma ad Hangzhou, la città più vicina. L’incontro avvenne in un ristorante, ove la signora si presentò con due figli, un giovane sui 18 anni e una bambina di dieci, undici anni. La Tozzini indossava la giacca e i pantaloni di cotone sbiadito tipici della Cina del tempo. Capelli corti, pallida, occhi chiari, aspetto stanco, mostrava più della sua età. Il figlio aveva l’aria melanconica. La bambina era molto graziosa. Consegnai alla signora un piccolo sussidio. La somma era modesta perchè temevamo che una cifra più consistente avrebbe potuto insospettire i cinesi e spingerli a controllare più severamente i nostri contatti con la signora. Cominciò allora un rapporto tra la Tozzini e l’ambasciata che durò negli anni e che culminò con un viaggio omaggio per lei e la figlia in Italia in occasione della visita di Pertini in Cina nel
198010. Purtoppo il figlio non potè conoscere il paese d’origine della madre. Era morto in un incidente in una miniera dove era andato a lavorare, come succede a tanti cinesi anche al giorno d’oggi.
I miei doveri consolari mi permisero di conoscere l’unica altra persona in qualche modo collegata all’Italia che risiedeva in Cina. Si trattava di Anna Porta, la signora di origine russa che aveva intrattenuto Crema alcuni anni prima con lo stile dei vecchi tempi. La signora mi ricevette nel suo appartamentino nella ex concessione francese, un po’ buio e zeppo di mobili cinesi. Ormai settantaduenne, aveva capelli bianchi molto in ordine e un aspetto distinto, ma si vedeva che gli anni cominciavano a pesarle. Fu cortese ma mi sembrò un tantino distante. Ebbi la sensazione che l’Italia di cui io facevo parte fosse troppo diversa da quella che lei aveva conosciuto, quando Shanghai era una città cosmopolita e brillante e i diplomatici del
regno11, in occasioni di gala, sfoggiavano ancora uniformi e feluche.
3. Interprete “ausiliario”
L’ambasciata a Pechino non avrebbe potuto funzionare senza interpreti di cinese, che noi naturalmente non avevamo. Il problema non erano tanto i contatti con il Ministero degli Esteri, dove c’era sempre qualcuno che parlava italiano (come vedremo tra poco i cinesi erano stati più previdenti di noi). Le difficoltà quotidiane erano di carattere meno elevato ma altrettanto impellenti. Si trattava di leggere bollette della luce e del telefono, fare telefonate, prenotare biglietti, dirimere le costanti incomprensioni tra i membri dell’ambasciata e il loro personale domestico. I due o tre interpreti che il Ministero degli Esteri cinese riuscì a trovare per noi conoscevano solo l’inglese o il francese. L’ambasciatore non gradì la situazione. Gli sembrava disdicevole per la nostra immagine – tutti i torti non glieli posso dare – che l’ambasciata d’Italia non avesse interpreti che parlavano italiano. Io avrei dovuto risolvere il problema dando lezioni di italiano, naturalmente fuori dall’orario d’ufficio, ai nostri interprei cinesi. Per parte mia feci tenace e lunga resistenza passiva all’iniziativa. Francamente non ricordo più nemmeno perchè. Forse mi sembrava un’ingiustizia non poter dedicare tutto il mio tempo libero alla lingua cinese. Forse mi sembrava una diminutio dover insegnare italiano. Ripensandoci a distanza di tanti anni, la mia cocciutaggine fu uno sbaglio, perchè dando lezioni di italiano avrei potuto far pratica di cinese e imparare qualche cosa sulla Cina. Come ho accennato parlando della Tozzini, all’epoca le ambasciate erano ancora totalmente isolate dal mondo locale e così rimasero a lungo, almeno fino alla fine degli anni settanta. Vivevamo come gocce d’olio in un bicchiere d’acqua. Credo alla fine di aver dato al massimo una decina di lezioni agli interpreti su un arco di tre anni. I cinesi sono notoriamente tenaci nello studio. Uno dei giovani a cui detti qualche svogliata lezione di italiano continuò a studiare da solo e a fare pratica di lingua in ambasciata, anno dopo anno. Diventò così bravo che il Ministero degli Esteri cinese lo mandò a lavorare all’ambasciata a Roma. Ho rivisto questo signore di recente a Shanghai, ormai con i capelli grigi come me e in pensione anche lui. Sa ancora l’italiano molto bene.
Nonostante non fossi un interprete, durante i primi anni di carriera mi fu chiesto varie volte di fare quel mestiere in occasioni importanti. Alle mie rimostranze che non ero all’altezza, perchè non ero un interprete e comunque un interprete deve fare solo quel lavoro e studiare cinese tutto il tempo, mentre io ero chiamato da mattina a sera ad occuparmi di un sacco di cose che non c’entravano niente con la lingua, mi fu sempre detto di non preoccuparmi. L’importante era sedermi, insieme all’interprete cinese, alle spalle delle due personalità a colloquio. Non era dignitoso avere solo un cinese dietro alle due poltrone. Se l’interprete cinese sbagliava, sarebbe stato mio compito rimetterlo in
carreggiata12. Il lavoro richiestomi non era poi troppo difficile, specialmente quando parlava la personalità italiana. Avendo ovviamente capito benissimo l’italiano, potevo facilmente aggiungere una parola o due, se l’interprete cinese dimenticava qualche dettaglio. Confesso che non resistetti alla tentazione, di tanto in tanto, di dire qualche cosa, per mostrare che il cinese lo sapevo pure io. Corressi gli interpreti di cinese. Devo dire che questi ultimi, tutti colleghi del
Waijiao bu, mostrarono nei miei confronti sempre pazienza, generosità e autocontrollo. Non mi tirarono mai un calcio e Dio solo sa se a volte me lo sarei meritato. Alcuni di essi sono ancora miei amici dopo quasi 40 anni.
Ricordo anche degli episodi un tantino comici. Uno risale al 17 aprile 1971, poche settimane prima della mia partenza per Pechino.
Quel giorno il primo ambasciatore della Repubblica popolare, Shen Ping, presentò le credenziali al Quirinale. Io dovevo fare la mia piccola parte di interprete ausiliario durante il colloquio di rito tra Saragat e Shen Ping. Mentre ci stavamo tutti ancora accomodando sulle sedie, Shen Ping disse qualche parola di saluto che l’interprete cinese non tradusse immeditamente. Forse non aveva sentito. I miei superiori del Ministero degli Esteri si girarono verso di me e mi incoraggiarono a tradurre. Prima che io potessi aprire bocca Saragat gelò tutti gli italiani presenti con la frase impaziente: “lasciate tradurre ai cinesi tanto qui il cinese lo capiscono solo loro”. Saragat aveva fatto la sua parte per promuovere i rapporti tra Italia e Cina. Come Ministro degli Esteri, all’inizio del 1964, aveva dichiarato che la ripresa dei contatti con Pechino non era una questione di “se si dovesse farlo”, ma di “quando” sarebbe stato opportuno
giungervi13. Durante la sua permanenza alla Farnesina, l’Italia aveva concluso con i cinesi l’accordo per lo scambio di uffici commerciali nelle rispettive capitali. Ma nel momento in cui Saragat mi zittì questi precedenti non mi vennero in mente e non mi rincuorarono. Pensai solo che il residente, essendo stato Ministro degli Esteri (e ambasciatore a Parigi subito dopo la guerra) doveva conoscere la macchina del Ministero e sapere che il sistema non preparava diplomatici specializzati in lingue orientali.
A dir la verità il Ministero un interprete italiano di cinese ce lo aveva. Paolo Marone, laureatosi all’Orientale di Napoli, era entrato al Ministero come “esperto in lingue estere (cinese)”, il ruolo dei traduttori interpreti che lavoravano a Roma. Nel 1969 Marone era stato spedito al nostro consolato generale a Hong Kong per fare pratica di cinese.
Questo particolare non era sfuggito a Newsweek, che nell’agosto del 1969 aveva pubblicato un trafiletto con la notizia che l’Italia era decisa a concludere il negoziato per il riconoscimento della Rpc in tempi brevi, prima del Canada e stava preparando a Hong Kong in gran segreto un team di esperti in cinese, in vista dell’imminente apertura dell’ambasciata. Il team che stava rinfrescando il proprio cinese a Hong Kong era il solo Marone. Ma l’ambasciatore Nazionalista a Roma ritenne necessario scrivere un telegramma a Taipei sull’argomento.
Marone in effetti venne a lavorare in ambasciata a Pechino nel 1973, ma non era molto interessato alla Cina. Era passato al ruolo degli “ispettori amministrativi” e si occupava di altre cose. È scomparso prematuramente molti anni fa.
4. Diplomatici italiani specializzati per l’Estremo Oriente, problema irrisolto
Quando ero un giovane diplomatico a Pechino nei primi anni 70 ed avevo ancora degli entusiasmi, scrissi un appunto illustrando in dettaglio come i principali paesi occidentali facevano studiare il mandarino ai giovani diplomatici destinati alla Cina, in modo da avere funzionari specializzati per la Rpc. Sottoposi il mio lavoretto
all’ambasciatore che lo trasmise a Roma. Il mio appunto girò per vari uffici del Ministero e fu poi affondato con l’annotazione a margine che non era saggio avere diplomatici che conoscessero il cinese. Studiando la lingua si sarebbero “cinesizzati” e sarebbero diventati inutili per la carriera. Racconto questa reazione del Ministero solo
per sentito dire, perchè nessuno mi comunicò mai ufficialmente che fine avesse fatto il mio appunto. Un nostro funzionario dell’ambasciata a Pechino scriveva, all’inizio del 1900, che l’Italia era il solo paese a non avere in Cina diplomatici specializzati per quel
paese14. Settanta anni dopo la situazione era cambiata molto poco.
Io sono rimasto l’unico candidato ad avere fatto, durante il concorso, una prova scritta di storia orientale e una prova scritta di cinese come previsto dalla riforma del 1967. Il Ministero, forse anche perchè nessuno seguì le mie orme, anni dopo cambiò le condizioni che avevano regolato il mio concorso da orientalista. Nel 1991 aprì il concorso, tradizionalmente limitato ai laureati in legge, economia e scienze politiche, anche ai laureati in lettere e in lingue e civiltà orientali ma, per quanto ho potuto vedere leggendo il bando di concorso per la
carriera diplomatica di quest’anno, le cose sono cambiate di nuovo. Le lauree in lettere e lingue orientali non sono più riconosciute valide per candidarsi al concorso. Le prove di inglese e francese scritto sono obbligatorie. I giovani interessati alla specializzazione per l’Estremo Oriente (due posti nel concorso di quest’anno) possono portare all’esame anche il cinese, ma solo agli orali, come “extra” per ottenere più punti e la specializzazione.
Il Ministero degli Esteri ha sempre avuto in media un paio di diplomatici che hanno un background di cinese di una certa serietà. Oggi, nonostante l’esplosione dei rapporti di tutto il mondo con la Cina, la situazione non è mutata. Per quanto mi risulta, anche oggi ci sono soltanto due funzionari che hanno studiato cinese all’università. Come nel 1991, quando Bertuccioli scriveva pensando a Crema e a Pini. Se ce ne sono di più, o sono appena entrati in carriera o non li ho mai incontrati nel corso dei miei lunghi periodi di servizio in Cina.
Il Ministero degli Esteri ogni tanto assume in Cina, tramite concorso, dei “contrattisti secondo la legge italiana”. Per essere ammessi alle prove i candidati devono aver risieduto in Cina almeno due anni continuativi ed avere una buona conoscenza della lingua. Abbiamo oggi una decina o poco più di giovani entrati nell’ambasciata e nei consolati in Cina con questo sistema o con sistemi simili usati dal Ministero in passato.
Hanno contratti stabili, ma possono lavorare solo nella sede dove sono stati assunti. Alcuni hanno raggiunto un livello di cinese veramente encomiabile. Ma naturalmente hanno molte delle frustrazioni di cui Bertuccioli parlava 16 anni fa. E nessun sbocco di carriera.
I docenti universitari che hanno lavorato e che lavorano in ambasciata e all’Istituto di Cultura con contratti temporanei restano un caso a parte. Come osservò Bertuccioli 16 anni fa non dovrebbero svolgere mansioni
di interprete ed avere le responsabilità spettanti a funzionari15.
I cinesi sono stati più previdenti di noi. Nel 1960, quando in Italia nessuno si preoccupava di preparare diplomatici per l’Estremo Oriente, Zhou Enlai decise che la Cina doveva prepararsi alla sfida di rapporti
ufficiali con un numero di paesi sempre crescente. Dette ordine al Ministero dell’Istruzione Superiore, il
Gaojiao bu, di selezionare un centinaio di studenti promettenti dalle varie facoltà di lingue. Convogliati tutti insieme a Pechino, i giovani selezionati ricevettero un breve indottrinamento di gruppo mirato a prepararli al soggiorno
all’estero e furono poi spediti in giro per il mondo a studiare le lingue. I futuri diplomatici assegnati all’Italia, quattro o cinque in tutto, arrivarono a Roma tra la fine del 1960 e l’inizio del 1961. Impararono l’italiano bene, si laurearono nel 1965 e poi iniziarono la loro carriera al
Waijiao bu, alternandosi tra Roma e Pechino. Una grigia mattina di febbraio del 1971 fui mandato all’ingresso della Farnesina per ricevere Feng Xiaobi, venuto a Roma come incaricato d’affari per aprire l’ambasciata della Repubblica popolare. Era la prima volta che un diplomatico cinese metteva piede alla Farnesina e il momento mi sembrò ricco di significato. Feng arrivò accompagnato da uno dei giovani italianisti che Zhou Enlai aveva mandato in Italia a studiare la nostra lingua dieci anni
prima16. I cinesi avevano messo su un sistema che cominciava a funzionare. C’è da augurarsi che anche l’Italia, un giorno, trovi il modo di preparare e valorizzare i diplomatici interessati alla Cina, alla sua cultura e alla sua lingua.
MONDO CINESE N. 132, LUGLIO -
SETTEMBRE 2007
1. G. Bertuccioli, “Per una storia della sinologia italiana: prime note su alcuni sinologhi e interpreti di cinese”,
Mondo Cinese, n.74, giugno 1991, pp.9-39..
2 Si veda lo scorso numero 131 di questa rivista, pp. 5-17..
3 G. Bertuccioli, op. cit., p.12..
4 DPR n. 18 del 1967..
5 Nei primi anni ‘70 l’unico modo di sapere qualche cosa su quello che succedeva in Cina era ascoltare radio e televisione e analizzare i pochi giornali che era consentito agli stranieri leggere. I quadri cinesi, a loro volta, sapevano dell’occidente solo quello che i loro dirigenti selezionavano con cura dalle agenzie di stampa straniere in un giornaletto di quattro pagine, lo
Cankao xiaoxi. Lo Cankao xiaoxi esiste ancora ma non è più misterioso come una volta. Noi diplomatici non potevamo leggerlo. Io ero felice quando ne trovavo un foglio in un parco, magari buttato nell’immondezza dopo essere stato usato per incartare qualche cosa (o usato dietro un cespuglio per scopi ancora più umili che non è elegante nominare in un articolo). Eravamo affamati di notizie. Anche un pezzetto di giornale sporco, con traduzioni in cinese da agenzie di stampa straniere, diventava qualche cosa di prezioso e affascinante..
6 Alcuni autori hanno esaminato in dettaglio il negoziato italo-cinese per il riconoscimento. Vedi in particolare G. Bressi, “Primi approcci e accordo di riconoscimento”,
Relazioni Internazionali, 14 novembre 1970, pp.1067–1069; P. Olla Brundu, “Pietro Nenni, Aldo Moro e il riconoscimento della Cina comunista”,
Le carte e la storia, vol.X, n. 2, 2004, pp.29-51..
7 Il capo ufficio Asia all’epoca era Vittorio Bacci di Capaci, scomparso da diversi anni. Diceva sempre che l’Italia doveva arrivare al riconoscimento della Rpc dopo il Canada. Questa in ogni caso era la linea del Ministero che risulta anche dai documenti. Vedi anche P. Olla Brundu,
op.cit.. Bacci di Capaci aveva due giovani collaboratori ormai entrambi a riposo, Francesco Damiano Spinola e lo scrivente. Sia Spinola che io abbiamo gli stessi ricordi degli ultimi mesi del negoziato. Ho controllato i miei ricordi dell’atmosfera dell’estate del 1970 all’ufficio Asia in occasione di un colloquio che ho avuto con Spinola il 10 marzo di quest’anno..
8 Archivio storico del Ministero degli Affari Esteri (ASMAE), scarico dell’ambasciata a Pechino, busta del riconoscimento della Rpc da parte dell’Italia. “Resoconto del quarto incontro che ha avuto luogo il 27 e il 28 ottobre 1970 fra i rappresentanti dell’Italia e della Repubblica popolare di Cina presso la sede dell’ambasciata di quest’ultima a Parigi”..
9 L’informazione è dell’ex-Ministro degli Esteri, Qian Fu. .
10 La Tozzini e i miei sforzi per aiutarla sono citati anche nel libro di M. Jacobucci,
Pertini Uomo di Pace, Rizzoli, Milano, 1985, pp.168-169..
11 L’Italia a Shanghai aveva, oltre al consolato, uffici dell’ambasciata. I nostri ambasciatori, quando potevano, preferivano stare a Shanghai, molto più comoda di Nanchino, la capitale nazionalista. Il consolato era a Nanjing Xilu, in una palazzina costruita nel 1903 in uno stile classico che ricordava un po’ le ville del Palladio. Negli anni ‘90 tutta la zona fu rasa al suolo per fare posto a sopraelevate e
brutti palazzi moderni. Pare che negli anni della guerra mondiale i nostri uffici fossero stati spostati in uno degli edifici dello splendido
compound conosciuto in passato come “Morris House”, oggi Ruijin Hotel..
12 L’abitudine di mettere un funzionario italiano che sa un po’ di cinese dietro le poltrone dei due dignitari a colloquio, a fare da comparsa accanto all’interprete cinese, si vede qualche volta ancora oggi. Non più in occasione di incontri organizzati dalla nostra diplomazia ma durante visite gestite da altre amministrazioni. Oggi sono tanti gli organismi pubblici italiani che hanno scambi e contatti con la Cina, ma i giovani funzionari che sanno il cinese sono quasi inesistenti in tutte le amministrazioni, non solo agli Esteri..
13 I saggi sul riconoscimento italiano della Rpc e gli appunti del Ministero degli Esteri sull’argomento, tradizionalmente fanno risalire alle aperture di Saragat nel 1964 l’inizio della nostra marcia di avvicinamento alla Cina comunista. In effetti la marcia era stata molto lunga. Già nel febbraio del 1950 Sforza aveva deciso di riconoscere la Repubblica popolare, ma dovette rinunciare prima per pressioni
interne e poi a causa della guerra di Corea. Un mio saggio sull’argomento, dal titolo “Perchè l’Italia non riconobbe la Cina comunista nel febbraio del 1950”, uscirà su un prossimo numero di
Nuova Storia Contemporanea, Casa editrice Le Lettere..
14 C. Bulfoni, “Il contributo italiano alla liberazione delle legazioni straniere assediate a Pechino dai Boxer”, in <www.club.it/culture/culture98/clara.bulfoni/corpo.tx.bulfoni.html>
.
15 G. Bertuccioli, op.cit., p.14..
16 Si veda Chen Baoshun, “Il 30esimo anniversario delle relazioni diplomatiche tra l’Italia e la Cina”,
Mondo Cinese, n. 105, settembre-dicembre 2000, pp.71-73..