1.
Lo studio preliminare di Giuliano Bertuccioli
Giuliano Bertuccioli durante la sua lunga attività di studioso fece accurate ricerche
sugli italiani che in un modo o in un altro avevano conosciuto la Cina. Era
attratto dalla storia vista al microscopio, ricostruita attraverso le opere, i
successi e le sfortune dei singoli attori. Proprio per questo suo particolare
interesse, sedici anni fa’, su questa stessa rivista, egli volle mettere
insieme notizie su alcuni interpreti del Ministero degli esteri che lavorarono
in Cina tra la fine del ’800 e i primi due decenni del ’9001 .
Gli interpreti rievocati, Nocentini, Vitale, Volpicelli, Bensa e Ross sono dei
personaggi interessanti, colti, con aspetti caratteriali a volte non proprio
nella norma. Bertuccioli ricorda che Daniele Varè, Ministro a Pechino negli
anni venti, aveva sentenziato che tutti i migliori interpreti erano degli
“squilibrati”. Può darsi che le persone che decidevano di decarsi allo
studio del cinese, in un’epoca in cui in Italia si sapeva poco o niente di
quel lontano e misterioso paese, fossero già a priori un tantino eccentrici.
Ma, secondo Bertuccioli, il vero problema, che inevitabilmente plasmava la
personalità degli interpreti, era l’ambiente in cui i poveretti erano
costretti a lavorare. Avevano conoscenze di lingua e di Cina che i diplomatici
non avevano.Eppure erano sempre rigidamente sottoposti a questi ultimi, anche ai
segretari di legazione più pivellini. Gli Ambasciatori, con mentalità di casta
tipica della carriera tendevano a trattare con sufficienza i collaboratori che
non venivano dai ranghi della diplomazia. E’ più che probabile che i giovani
diplomatici, a loro volta, cercassero di affermare la propria posizione, nel
piccolo microcosmo dell’ambasciata, sfruttando con arroganza il rango. Le
frustazioni per gli interpreti dovevano essere tante e profonde. Il Ministero
degli Esteri, da parte sua, non si era mai curato di preparare diplomatici
specializzati per l’Estremo oriente. Bertuccioli osserva che, per quanto ne
sapeva lui, nel 1991 c’erano in carriera solo due funzionari che conoscevano
bene la lingua cinese. Questi due funzionari erano comunque avanti negli anni e
non lavoravano in Cina2.
I due diplomatici, non citati per nome, che Bertuccioli aveva in mente, erano
Mario Crema e lo scrivente. Bertuccioli, nel suo saggio disse espressamente che
in futuro avrebbe pubblicato un altro lavoro, “questa volta sugli interpreti
più recenti e sui sinologi in genere, cattedrattici e non”. Stava
raccogliendo il materiale “senza fretta”. Dato che aveva impiegato 40 anni a
mettere insieme la documentazione per il primo saggio sugli interpreti, magari
il suo successivo lavoro avrebbe avuto la luce postumo, “a cura di qualche
allievo”3: Io non ho certo la capacità – e tanto meno l’ambizione - di
scrivere sui sinologi italiani più recenti – cattedrattici e non. Tuttavia,
dato che Bertolucci pur senza nominarmi espressamente accenna a me, un tantino
mi sento chiamato in causa. Non sono stato un allievo di Bertuccioli, ma sono
stato suo collaboratore quando era Ambasciatore in Corea. Forse anch’io posso
dare un piccolo contributo alla storia degli italiani che hanno studiato il
cinese e hanno avuto a che fare con la Cina. Forse l’Ambasciatore ( per i suoi allievi Bertuccioli era “il
Professore”, ma per me era “l’Ambasciatore”) avrebbe gradito questo mio
tentativo. Crema fu in Cina dal 1967 al 1970, ed io subito dopo, dal 1971 al 1974.
Tra tutti e due quindi fummo testimoni del processo di
avvicinamento dell’Italia alla RPC e dell’inizio delle relazioni
diplomatiche.Parlando di Crema e di Pini finirò per raccontare anche qualche
cosa di quegli anni; I tasselli che aggiungerò al mosaico generale non
dovrebbero disturbare nessuno. Mario Crema ed io siamo in pensione. I fatti a
cui mi riferisco sono ormai lontani nel tempo. Dopo il 1970 Crema non fu più
destinato in Cina, mentre io ci sono tornato per prestare servizio a Pechino una
seconda volta, e poi a Taipei e a Shanghai. Spero un giorno di riuscire a
raccontare qualche cosa di queste esperienze più recenti in un altro articolo.
2. La formazione di Mario Crema
Comincio da Mario Crema entrato in carriera nel 1954. Se uno guarda l’annuario
diplomatico, un volumone che riporta la carriera di tutti i diplomatici, non
trova molto che aiuti a capire la sua vocazione orientalista. L’annuario
dice solo che Crema si era laureato in legge a Bologna, aveva servito a Bengasi,
Cardiff, Berna e Hong Kong. Negli anni più maturi era stato Ministro
consigliere a Tokyo e poi Ambasciatore a Seoul e a Manila, dove aveva terminato
la carriera. La realtà che non compare sull’arido annuario è più
interessante. Crema sulla carta era Vice Console a Cardiff nel Galles, ma a
Cardiff c’era andato poche volte, solo per qualche cerimonia alla quale era
proprio necessaria la presenza del Console italiano. In realtà lavorava a
Londra. Ebbe il permesso di frequentare l’Università di Londra ove ottenne un
B.A. in cinese moderno. Evidentemente qualche barlume di saggezza i superiori di
Crema l’avevano avuto. Furono abbastanza flessibili da lasciargli frequentare
l’università e studiare una materia assai utile per il Ministero, la lingua
cinese. Bisogna dire che il mondo diplomatico dei primi anni sessanta non era
ancora oberato e sotto stress come l’ambiente delle Ambasciate di oggi, ove,
grazie alla posta elettronica, tutto gira in modo frenetico in tempi reali. Gli
incontri internazionali non si erano ancora moltiplicati in modo esponenziale,
come poi è avvenuto a partire dagli anni novanta. Le sfide della
globalizzazione erano ancora lontane. Se un giovane diplomatico italiano
chiedesse oggi al proprio Ambasciatore di andare a studiare all’università di
Londra si beccherebbe come minimo un urlo di indignazione.
Nell’autunno del 1966, quando stava per finire il suo periodo di servizio a Hong Kong, Crema
venne in Italia in congedo. Una volta a Roma, ricevette una telefonata dal
gabinetto con la notizia che Fanfani, allora Ministro degli esteri, voleva
vederlo. Grande emozione di Crema che allora aveva alle spalle solo 3 anni di
carriera. Nel sistema rigidamente gerarchico della diplomazia era assolutamente
insolito che il Ministro in persona volesse incontrare un Console in vacanza da
Hong Kong. Fanfani fece a Crema un esamino di una mezz’oretta, con quel
cipiglio da professore in cattedra che Fanfani sapeva usare così bene. Fece
domande sulla Cina e sulla rivoluzione culturale. A un tratto chiese quali
fossero i piani di Crema per il futuro. Crema risposse che si aspettava di
essere richiamato al Ministero, perchè era all’estero da molti anni, ma ebbe
l’impressione che il Ministro non lo stesse ascoltando. “Andrebbe a
Pechino?” interloquì Fanfani a bruciapelo. “Di corsa Signor Ministro” fu
la risposta di Crema, del tutto istintiva e spontanea. Molto interessato alla
Cina, alla cultura e alla lingua cinese, Crema era sinceramente felice di essere
destinato oltre la cortina di bambù. Forse oggi non ci facciamo più tanto
caso, ma 40 anni fa’ un’offerta di andare a vivere a Pechino, capitale di un
paese estremamente ideologizzato e “diverso”, chiuso e ostile
all’occidente da più di venti anni e ancora più isolato a partire
dall’inizio della rivoluzione culturale, suonava un po’ come n’offerta di
un soggiorno sulla luna in una stazione spaziale.
3. I primi rapporti dell’Italia con la Rpc
A questo punto, occorre fare un passo indietro. Tre anni prima, nel novembre
del1964, Italia e Cina avevano firmato un accordo per lo scambio di uffici
commerciali nelle rispettive capitali. Il nostro primo governo di centro
sinistra, nato da poco, era riuscito a concludere questa operazione nonostante
le pressioni e le resistenze degli americani, molto contrari all’iniziativa ed
aveva affidato all’Istituto per il commercio estero il compito di organizzare
la nostra presenza nella capitale cinese. L’ufficio della Rpc a Roma aprì nel
febbraio 1965 e quello dell’Ice a Pechino più o meno in contemporanea. Per i
cinesi gli uffici commerciali erano un primo passo verso complete relazioni
diplomatiche. Per l’Italia, come tante volte nella storia della nostra
politica estera, la posizione era più ambigua. Certe forze politiche, sinistre
in prima fila, vedevano l’apertura degli uffici secondo la stessa ottica dei
cinesi, come un preludio a future relazioni ufficiali. Altre forze,
in particolare quelle che consideravano essenziale il rapporto con gli Stati
Uniti, preferivano concentrarsi sul solo problema dell’incremento degli scambi
commerciali, evitando per quanto possibile gesti che potessero fare pensare a
sviluppi più impegnativi. Questa seconda tendenza fu quella che prevalse nel
periodo immediatamente successivo all’apertura delle rappresentanze
commerciali. Sembra che Italia e Cina avessero convenuto di mettere diplomatici
di carriera a capo dei rispettivi uffici5,
mentre i vice sarebbero stati dei
funzionari provenienti da organismi commerciali. I cinesi inviarono a dirigere
l’ufficio di Roma Xu Ming, fino allora Vice direttore del Dipartimento Europa
orientale del Ministero degli esteri. Noi invece, interessati
a rabbonire gli americani e a consolidare l’impressione che l’accordo
stipulato fosse di natura puramente commerciale e non una prima testa di ponte
verso aperture più ambiziose, mettemmo a capo dell’Ufficio Ice di Pechino un
uomo dell’Istituto, Giuseppe Manzella.
Fanfani divenne Ministro degli esteri nel marzo del 1965. Salvo una brevissima parentesi
di un paio di mesi, rimase costantemente alla guida della Farnesina per più di
tre anni. Toccò quindi a lui gestire i rapporti con
la Cina dopo l’apertura degli uffici di Pechino e di Roma. Quando lasciò gli
Esteri, nell’estate del 1968, eravamo ormai molto vicini al grande passo, alla
decisione cioè di riconoscere la Repubblica popolare. Carattere deciso e
portato all’azione, Fanfani durante tutta la sua carriera politica cercò un
ruolo internazionale di rilievo per l’Italia nonostante le strettoie imposte
dagli americani. Un po’ per questa ambizione, un po’ perché credeva
nell’importanza della Cina, egli fu certamente uno dei nostri politici che,
nel corso degli anni, contribuì all’apertura dell’Italia verso la Rpc.
Amava dire che “una realtà come la Cina non può essere ignorata”6.
Contemporaneamente Fanfani, come altri politici del suo tempo, sentiva molto il problema della
guerra in Vietnam. Anche in questa prospettiva guardava alla Cina con grande
interesse. Riteneva che la Rpc dovesse essere
ammessa all’Onu ed inserita nel tessuto dei rapporti tra est e ovest. Perchè
senza il contributo cinese non si poteva pensare a una soluzione del problema
vietnamita. Procedendo lungo questa linea di pensiero, nel
1965 Fanfani aveva cercato di promuovere in sede Onu l’idea di un comitato di
studio sulla questione della ammissione della Cina. L’iniziativa di Fanfani
era un tentativo abbastanza trasparente di arrivare ad avere entro le Nazioni
unite entrambe le Cine, nel nome dell’universalità dell’organizzazione.
Cina e aiwan, ancorate su posizioni dogmatiche, condannarono l’approccio
italiano. L’iniziativa, specialmente agli inizi, non
era piaciuta molto neanche agli americani. Fanfani di conseguenza aveva
rinunciato a sottoporre il suo progetto in Assemblea generale ma era tornato
alla carica nel 1966. L’idea del comitato di studio fu respinta con
62 voti contrari, 34 favorevoli e 25 astensioni7.
4. L’arrivo di Crema a Pechino
Il quadro generale appena descritto aiuta a capire perchè Fanfani lasciò fare a
chi voleva tenere un basso profilo in Cina e decise di mandare un diplomatico a
Pechino, sotto la copertura Ice, solo alla fine del 1966, quasi due anni dopo
l’apertura degli Uffici. Averlo fatto prima probabilmente non avrebbe portato
grossi vantaggi immediati, mentre avrebbe potuto irritare Washington, sempre
sospettosa delle nostre tendenze verso il riconoscimento della Cina comunista,
proprio mentre cercavamo di convincere il Dipartimento di Stato della saggezza
della nostra iniziativa all’Onu. Le aperture alla Cina richiedevano tempo,
pazienza e cautela.
La partenza di Crema per la Cina fu così coperta dal riserbo più assoluto. Gli
furono date istruzioni di non tornare a Hong Kong e di non dire niente a
nessuno, nè ai suoi superiori al Ministero, nè al suo Console generale
a Hong Kong. Una volta giunto a Pechino Crema avrebbe dovuto comunicare con Roma
con delle lettere del tipo “Signor Ministro”, con delle missive cioè
inviate tramite bolgetta diplomatica direttamente a Fanfani.
Ricevette anche un cifrario a mano per mandare messaggi urgenti a Roma, se fosse
stato proprio necessario. Fu la moglie di Crema a tornare a Hong Kong da sola a
imballare le masserizie. Il riserbo che Fanfani volle nei confronti di Hong Kong
è comprensibile. Hong Kong, piccola colonia, è sempre stato un ambiente molto
pettegolo. Sarebbe stato difficile nascondere completamente la nuova
destinazione di Crema. Gli americani avrebbero scoperto la verità e avrebbero
cominciato a fare rimostranze. Un po’ meno comprensibile la scelta di Fanfani
di non informare la struttura del Ministero della decisione presa e
dell’ordine dato a Crema di riferire direttamente al Ministro. La manovra
certamente non piacque a quella “gerarchia
interna” che Fanfani amava scombussolare quando lo riteneva utile per i suoi
fini. Dubito che Fanfani pensasse che la presenza di Crema a Pechino sarebbe
rimasta nascosta a lungo, e probabilmente neanche lo desiderava. Egli voleva
solo che Crema arrivasse nella sua nuova sede senza che nessuno avesse avuto
modo di avanzare obiezioni e critiche a priori. A fatto compiuto chi voleva
protestare, in Italia e negli Stati Uniti, protestasse pure. Più facile a quel
momento resistere a pressioni.
Crema prima di partire vide anche Nenni. L’anziano statista con il suo accento
romagnolo gli disse: “io Mao Zedong lo capisco bene, è un contadino come sono
io”8. L’osservazione di Nenni, che aveva
incontrato Mao nel 1955, non era priva di una sua saggezza. Negli anni sessanta
non erano ancora state pubblicate quelle biografie ricche di particolari sulla
vita di Mao che oggi si trovano in tutte le librerie9.
Il “grande timoniere” era conosciuto in occidente, spesso a vanvera, più
per il suo pensiero politico che per il suo background e la sua personalità.
Durante i tre anni a Pechino Crema riferì sulla rivoluzione culturale e sugli sviluppi
in Cina con le sue brave lettere indirizzate “al Signor Ministro”. Questo
sistema un po’ insolito per comunicare con Roma10 divenne
un’abitudine e rimase immutato anche quando, dopo Fanfani, il Ministero passò
brevemente a Moro e poi a Nenni, alla fine del 1968.
Il momento più difficile per Crema nella nuova sede arrivò presto, meno di sei
mesi dopo il suo sbarco a Pechino. A fine estate del 1967 le autorità italiane
impedirono a una nave cinese, imbandierata con slogan
che inneggiavano al destino rivoluzionario del popolo cinese e del popolo
italiano, di entrare nel porto di Genova. Scoppiò un putiferio. I marinai
cinesi dichiararono che sarebbero morti di fame e di sete ma non si sarebbero
spostati da Genova11. Ci furono dimostrazioni contro l’Ufficio Ice a Pechino.
Le autorità cinesi convocarono Manzella e gli dissero che non erano in grado di
garantire la sua incolumità. Un modo garbato per costringerlo agli arresti
domiciliari. Situazione molto tesa anche per Crema, in ufficio e a casa. Il
personale di servizio aveva l’aria cupa e sbatteva i piatti sul tavolo quando
serviva a tavola. La figlia
di Crema di quattro anni pensò bene di scegliere quel momento per tirare un
calcio alla Ayi,la sua tata cinese. La Ayi – che a detta di Crema era molto affezionata alla bambina, tanto
che aveva le lacrime agli occhi quando la famiglia Crema lasciò definitivamente la Cina anni dopo
– fu costretta a denunciare “l’aggressione subita” in occasione delle
riunioni settimanali durante le quali cuochi e Ayi dovevano riferire all’ufficio da cui dipendevano, il
Fuwuju, quello che avveniva nelle case dove lavoravano. Crema fu
convocato al Ministero degli esteri per sentirsi dire che il comportamento della
figlia aveva minato i rapporti di amicizia tra il popolo cinese e il popolo
italiano. L’atmosfera a Pechino nel 1967 era certamente isterica. Poche
settimane prima l’incidente a casa Crema gruppi estremisti di guardie rosse
avevano occupato il Ministero degli esteri, messo Chen Yi sotto accusa e buttato all’aria gli archivi,
cominciando ad inviare istruzioni farneticanti alle Ambasciate cinesi
all’estero. I funzionari del Ministero erano sottoposti a chissà quali
pressioni. Ma sempre esseri umani erano. Crema ebbe l’impressione che i suoi
accusatori facessero una gran fatica a mantenere la faccia seria durante la loro
tirata contro la minuscola nemica del proletariato. Dopo una ventina di giorni i
marinai cinesi poterono sbarcare e la situazione si sbloccò. Crema fu convocato
al Ministero degli esteri di pomeriggio12 e si vide servire del tè. Capì subito che le cose
erano tornate a posto, prima ancora che i suoi interlucotori aprissero bocca. Non restava che andare a dare
la buona novella a Manzella, bloccato a casa da quasi tre settimane. Manzella
aveva grandi baffi di tipo risorgimentale, che aveva il vezzo di torcere tra le
dita quando era sotto stress. Crema non resistè alla tentazione di presentarsi
alla porta del direttore Ice con la faccia scura e preoccupata, come se vi
fossero stati degli sviluppi molto gravi, tanto per dare un ultimo breve patema
d’animo al preoccupatissimo direttore dell’Ice13.
5.
Un connazionale arrestato a Shanghai
Nell’anno successivo, il 1968, Crema dovette intervenire presso le autorità cinesi per
cercare di aiutare un italiano, certo Nerone14, capitano di una nave battente
bandiera polacca. Nerone era stato arrestato per aver scattato foto nel porto di Shanghai. I cinesi furono irremovibili e Nerone
rimase in prigione per circa tre anni. Fu liberato, cioè espulso, solo dopo lo
stabilimento delle relazioni diplomatiche alla fine del 1970.Crema, per puro
caso, incontrò Nerone in Giappone alcuni anni dopo. Il bravo capitano disse di
non essere stato nè torturato nè maltrattato, ma di avere subito giornalmente
ore di indottrinamento. Fatto probabilmente vero
perchè si esprimeva ancora con il jargon rivoluzionario che aveva assorbito in
prigione. Raccontò di essere stato pagato dalla Cia per fare foto di
installazioni nella Corea del Nord e nella Cina comunista. Si riteneva
fortunato di essere stato beccato a Shanghai, perchè se lo avessero scoperto i
nordcoreani le cose gli sarebbero andate molto peggio. Nerone vedeva lo zampino
dei servizi americani nella sua sfortunata avventura a Shanghai. Sosteneva che
il suo contatto Cia lo voleva lontano dal Giappone per “farsela con sua
moglie”. Crema ricorda vagamente che Nerone scrisse un libro di memorie in cui
dette una versione diversa delle sue sventure in Cina. Difficile sapere come
andarono veramente le cose. Forse si trattò di un episodio di minispionaggio di
poco conto. Nerone dava l’impressione di essere uno dei tanti avventurieri, un
po’ mitomani, un po’ portati agli espedienti, un po’ illusi, che giravano
– e girano – per il mondo. I servizi segreti americani (e non solo
americani), negli anni in cui la Cina era chiusa al mondo esterno erano sempre
pronti ad affidare piccoli compiti a questa particolare fauna. Nella migliore
delle ipotesi ottenevano qualche foto o qualche notizia da aggiungere ai loro
archivi. Nella peggiore delle ipotesi perdevano qualche centinaio di dollari.
Durante i suoi viaggi a Shanghai per cercare di aiutare Nerone, Crema visitò la signora
Anna Porta. Nata Anna Nicolaevna Bouvianovskaya intorno al 1900, era una dei
tanti russi bianchi fuggiti durante la rivoluzione
bolscevica e finita a Shanghai. Il primo marito russo (o forse il secondo) si
era suicidato. Gestiva il “Bianna saloon”, negozio di parrucchiera e
cosmetici, nella più elegante strada della concessione francese,
Avenue Joffre, oggi Huaihai lu. Aveva bei tratti regolari e signorili e grandi
occhi dal taglio leggermente orientale che avevano affascinato un impiegato del
nostro Consolato, il signor Porta, che la aveva
sposata. Porta era rimasto in Cina, come guardiano del Consolato, anche quando
tutto il nostro personale era stato ritirato, tra il 1950 e il 1952. Le male
voci sussurravano che avesse messo le radici a Shanghai non tanto per volontà
sua, ma perchè non gli veniva concesso il visto di uscita, essendo stato
coinvolto, prima della liberazione, in traffici poco leciti che le autorità
conoscevano bene15. Dopo la morte del marito, la signora Porta Bouvianovskaya
aveva continuato a custodire alcuni beni del Consolato. Quando Crema arrivò a
Shanghai, la signora Porta dette un piccolo ricevimento in suo onore al quale
invitò i soli tre stranieri allora residenti in città. Due direttori di banca,
uno belga e uno inglese, bloccati a Shanghai dalle autorità comuniste perchè
nel 1949 avevano trasferito i fondi delle loro filiali all’estero (fondi che
le rispettive banche non avevano nessuna intenzione di far tornare in Cina) e il
rappresentante delle linee aeree pakistane. Crema fu molto sorpreso di vedersi
offrire dalla signora Porta champagne di marca e Havana. Da dove la signora
avesse tirato fuori bottiglie e sigari, in piena rivoluzione culturale, Crema
non lo scoprì mai. Forse erano antiche scorte del Consolato. In ogni caso le
rivoluzioni, anche le più burrascose, lasciano spesso qualche piccolo angolo
intatto. Una volta lessi da qualche parte che una vecchietta era rimasta
tranquilla a vivere dentro il Cremlino, con la sua mucca, per molti anni anche
dopo l’occupazione degli enormi palazzi da parte dei comunisti. Nessuno se ne
era accorto, o ci aveva fatto caso. La stessa signora Porta, almeno per certe
cose, era scivolata tra le fessure del sistema impiantato dal nuovo regime. Pare
che da casa sua riuscisse a telefonare alla sorella negli Stati Uniti senza
pagare niente. Evidentemente le autorità avevano scordato la linea.
6.
Breve ritorno di Crema in Cina
A partire dall’aprile del 1968 il Ministero degli esteri rafforzò la presenza
diplomatica a Pechino sotto copertura Ice, inviando nella capitale cinese un
giovane diplomatico, alla sua prima uscita all’estero, a collaborare con Crema16. Questa volta il Ministero non fece grandi misteri. La nostra presenza
semiufficiale nella Rpc si stava consolidando. Crema fu trasferito
all’Ambasciata a Tokyo nel marzo del 1970, quando il negoziato per lo
stabilimento delle relazioni diplomatiche con la Repubblica popolare era ormai
in corso da più di un anno.
Nel dicembre del 1975 tornò brevemente in Cina per accompagnare Fanfani in visita a
Pechino e Shanghai insieme alla moglie. Fanfani stava attraversando un periodo
difficile della sua vita politica che lo aveva molto provato. L’anno prima si
era impegnato a fondo contro il divorzio, ma era stato battuto nel referendum di
maggio. Nel 1975, in giugno, la Dc aveva ottenuto pessimi risultati alle urne, e
non era riuscita a contrastare la forte ascesa dei comunisti. Allontanato dal
posto di segretario del partito, Fanfani aveva dovuto lasciare la guida della Dc
a Benigno Zaccagnini. Fanfani fu particolarmente toccato dall’invito cinese
giunto in un momento in cui il suo prestigio, dentro e fuori la Dc, non era
certamente molto alto17 Fanfani divenne di nuovo Presidente
del Consiglio nel 1982 e poi nel 1987. Ma i cinesi quando lo invitarono molto
probabilmente non pensavano in modo particolare a un futuro ritorno al governo
del volitivo professore aretino. “I vecchi amici della Cina” nella
prospettiva cinese mantengono sempre nel tempo quella qualifica, anche se non
sono più al potere. Il Regno di Mezzo ha sempre trattato con benevolenza
imperiale le persone che hanno acquistato meriti ai suoi occhi. Fanfani arrivò
in Cina pochi giorni prima della morte di Kang Sheng, l’odiato capo dei
servizi segreti pesantemente coinvolto nella rivoluzione culturale, ammalato di
cancro da tempo. Era in corso un traumatico periodo di transizione di cui si
sarebbero visti gli sviluppi solo dopo la morte di Mao un anno dopo.
Ma la diplomazia cinese, quando lo voleva, sapeva mantenere una facciata amichevole
e rilassata anche nei momenti difficili. Il Ministro degli esteri Qiao Guanhua,
sorridente e cordiale come sempre, dette un banchetto in onore di Fanfani che, tra una portata e l’altra, snocciolò con verve e
umorismo anedotti sulle tante personalità politiche che aveva incontrato nel
corso della sua carriera, da Adenauer a Kruschiov. Evidentemente la calorosa
accoglienza ricevuta e qualche bicchierino di maotai gli avevano fatto bene allo spirito. Fanfani dette prova della sua ottima forma
anche sulla grande muraglia. Faceva un gran freddo e non c’era modo di scaldarsi. Fanfani riuscì a trovare una bottiglia di
liquore cinese nell’unica botteguccia in vista, ma non c’erano bicchieri. Tolse
di imbarazzo gli accompagnatori cinesi facendo con destrezza dei bicchierini con
della carta recuparata dalla borsa della moglie. Evidentemente lo spirito di
iniziativa e di adattamento non era solo monopolio degli operai e contadini
cinesi. Anche il popolo italiano sapeva arrangiarsi, all’occorrenza. Il 5
dicembre Fanfani fu ricevuto da Deng Xiaoping. Al momento del commiato, Deng
puntò un dito verso Crema e gli disse: “so che lei capisce il cinese”.
Crema per parte sua aveva trovato il pesante accento sichuanese di Deng
assolutamente difficile da decifrare. La confessione di Crema sul cinese ostico
di Deng non toglie niente all’impegno con il quale questo nostro diplomatico
si è sempre dedicato allo studio della lingua. Se è stato un hobby, come
osserva Bertuccioli, è stato un hobby che Crema ha coltivato con grande
perseveranza. Crema molti anni fa’ seguì anche un corso di calligrafia. La
sua shufa non è niente male.
(segue una
seconda parte, che sarà pubblicata sul prossimo numero 32)
MONDO CINESE N.
131, APRILE - GIUGNO 2007