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ECONOMIA E DIRITTO

Perché i sindacati cinesi non possono “alzare la voce”?

di Ivan Franceschini

1. Premessa

In seguito ad un recente scandalo verificatosi nell’area di Canton in cui si è scoperto che alcune note multinazionali pagavano i propri dipendenti con contratto part-time a volte fino al 40% in meno del salario minimo consentito, il Quotidiano del Popolo ha pubblicato un articolo il cui titolo esortava a “far risuonare ancor più forte la voce del sindacato”1 . Nonostante esso contenesse un inevitabile elogio del ruolo del sindacato cinese “non solo come importante colonna sociale del potere politico dello Stato, ma soprattutto come rappresentante e protettore degli interessi dei lavoratori e degli impiegati”, la scelta di una simile intestazione non può che far riflettere: forse che nell’attuale situazione la voce del sindacato non sempre viene ascoltata?

Fondata per la prima volta nel 1925 a Canton, la Federazione dei sindacati cinesi (Zhonghua quanguo zonggonghui) ha accompagnato il Partito comunista cinese nelle varie fasi della sua storia, condividendone spesso le sorti nelle fasi più critiche2 . Organizzata in base al principio del centralismo democratico, la struttura della Fsc combina organizzazioni formate lungo linee industriali ed organizzazioni basate su criteri geografici. L’organo sindacale di grado più elevato è il Congresso nazionale dei sindacati, a cui spetta il compito di eleggere il Comitato esecutivo. Quando il Comitato esecutivo non è in sessione, il Presidium esercita il potere decisionale in sua vece, nominando a sua volta un Segretariato con la funzione di gestire gli affari quotidiani. Per quanto riguarda i sindacati organizzati su base geografica, essi sono strutturati su tre livelli, vale a dire provincia, città e contea, così come i sindacati su base industriale, che però si concentrano esclusivamente in alcune province. Generalmente viene seguito il principio di permettere la presenza di un solo sindacato di base in ogni unità amministrativa (impresa o organo di Stato)3 e, in base agli ultimi dati disponibili, nel 2005 la Fsc raccoglieva 1.174.421 sindacati di base, 12 federazioni industriali, per un totale di 150.293.965 membri4. Queste cifre rendono l’organizzazione sindacale nazionale la più grande al mondo, senza contare il fatto che tra il 2002 e il 2005 essa ha occupato un seggio di rappresentante dei lavoratori nel Corpo governante dell’Organizzazione internazionale del lavoro, rompendo così un decennio di isolamento internazionale seguito alla crisi di Tian’anmen5 . Cosa dunque trattiene questa gigantesca organizzazione di massa dall’alzare la voce? Per quali ragioni molti dubitano della sua effettiva efficacia? In linea di massima, si possono distinguere due tipi di limiti: da un lato dei limiti interni, insiti nella struttura stessa del sindacato cinese, dall’altro dei limiti esterni, dovuti alle carenze del sistema legale cinese.

2. Limiti interni: vincoli politici ed economici
Quando nell’aprile del 1992 l’Assemblea nazionale del popolo adottò una nuova “Legge sui sindacati”6 , che andava a sostituire la vecchia legge del 19507 , i provvedimenti ivi inclusi causarono le immediate proteste della Confederazione internazionale dei sindacati liberi (Icftu). In particolare le critiche si concentravano su tre aspetti della legge: la negazione della libertà di programma dei sindacati, la rigida struttura gerarchica e di controllo dell’organizzazione sindacale e la funzione del sindacato come difensore degli interessi non tanto dei lavoratori quanto dei datori di lavoro. Un caso fu aperto davanti al Comitato internazionale per la libertà di associazione dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) e alla conclusione dell’indagine fu riconosciuta, pur con qualche distinguo, la fondatezza delle critiche dell’Icftu8 . Nel 2001, in vista dell’imminente ingresso nella Omc, in Cina fu intrapresa un’opera legislativa di grandi dimensioni nel tentativo di adeguare il sistema giuridico cinese agli standard internazionali, e in questo processo fu modificata anche la “Legge sui sindacati”9 , che venne praticamente riscritta. La domanda a cui bisogna rispondere è: fino a che punto la riforma ha aperto nuovi spazi di manovra per il sindacato?
Innanzitutto bisogna considerare la prima questione, vale a dire l’assenza della libertà di programma per i sindacati. Anche se con la modifica del 2001 il legislatore cinese sembra aver tenuto almeno parzialmente conto di questo rilievo attraverso la cancellazione di alcuni articoli controversi10, l’articolo 5 della legge continua a vincolare i sindacati ad “organizzare e condurre l’educazione tra i lavoratori e gli impiegati […], ad assistere i governi popolari nel loro lavoro e a salvaguardare il potere socialista dello Stato, sotto la dittatura democratica del popolo condotta dalla classe operaia e basata sull’alleanza tra i lavoratori e i contadini”. Inoltre il ruolo del partito come guida ideologica del sindacato è stato rafforzato aggiungendo ai principi-guida dell’azione sindacale elencati all’articolo 4: “considerare lo sviluppo economico come il compito fondamentale, preservare la strada socialista, la dittatura democratica del popolo, la leadership del Partito comunista cinese, aderire al Marxismo-Leninismo-pensiero di Mao e alla teoria di Deng Xiaoping, proseguire nella politica di apertura e riforma”. In ogni caso, anche se ciò non permette assolutamente di affermare che la modifica del 2001 abbia portato nuove garanzie per la libertà di programma dei sindacati, il problema reale non sta certamente nella sudditanza ideologica in sé, semplice risultato del fatto che all’approfondirsi delle riforme economiche non si è accompagnata una riforma del sistema politico11, quanto nel fatto che il partito, attraverso meccanismi formali e informali, condiziona direttamente le dinamiche interne della Fsc. In primo luogo, la nomina dei leader sindacali a tutti i livelli deve essere sempre approvata dagli organi locali del partito, che così puntano ad evitare l’ingresso nel sindacato di elementi problematici, al punto che spesso il nome del leader sindacale viene stabilito anche prima che le elezioni al congresso sindacale abbiano luogo12. In secondo luogo, la carriera dei quadri sindacali viene tuttora decisa dalle autorità amministrative e del partito e non dai membri del sindacato stesso: una volta nominato, il presidente del sindacato in un’impresa viene quasi sempre cooptato negli organi amministrativi. Vi sono stati alcuni tentativi di elezioni democratiche dei quadri sindacali e dei presidenti di sindacato, sia come esperimenti di riforma a livello locale13 sia come effetto della pressione sui fornitori da parte di grandi aziende multinazionali interessate a migliorare la propria immagine di investitori “etici”14, ma sembra che i tempi non siano ancora maturi per un’applicazione su vasta scala di questi meccanismi democratici.

La seconda questione è quella della scelta di utilizzare la rigida forma del centralismo democratico per organizzare le strutture sindacali cinesi. Tuttora i sindacati cinesi di base sono sottoposti al rigido controllo dei livelli superiori e tuttora la Fsc è l’unica organizzazione sindacale a livello nazionale: è essenzialmente per queste ragioni che la Rpc non ha ancora potuto ratificare le convenzioni dell’Oil sulla libertà di associazione. 

In ogni caso, nonostante questi vincoli organizzativi, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, sin dai primi anni della Repubblica popolare i lavoratori non sono mai stati una presenza passiva o acquiescente sul panorama cinese: ogni volta che si sono trovati in crisi di rappresentanza, a causa dell’incapacità del sindacato ufficiale di difendere i loro interessi, non hanno esitato a creare delle organizzazioni autonome e a ricorrere ad azioni spontanee15. Anche se l’organizzazione del sindacato cinese è stata pensata per operare in un’economia pianificata, alla pari del sistema politico è difficile pensare che essa nei prossimi anni possa andare incontro ad una riforma radicale ed è tanto più improbabile una prossima decisione di metter fine al monopolio della Fsc. 

La terza questione è quella del ruolo del sindacato come difensore degli interessi dei datori di lavoro nell’ambito delle controversie sul lavoro, in particolare in riferimento al ruolo di “garante” della produzione nel caso di dispute sul lavoro e di semplice “consigliere” dei datori di lavoro in materie delicate come la salute e la sicurezza. 

Forse è in questo senso che la modifica del 2001 ha apportato le maggiori novità, almeno dal punto di vista teorico. Mentre la legge del 1992 poneva al centro il principio delle “due protezioni”, contenuto nell’articolo 6, in cui si affermava che “il sindacato cinese [doveva] difendere i diritti e gli interessi legittimi dei lavoratori e degli impiegati, proteggendo allo stesso tempo gli interessi generali dell’intero popolo cinese”, la modifica del 2001 pone al centro la funzione di protezione attraverso due emendamenti di primaria importanza. Innanzitutto viene modificato l’articolo 2, il cuore stesso della legge, la definizione di “sindacato”: ora, non solo i sindacati sono “organizzazioni di massa della classe operaia, formate dai lavoratori e dagli impiegati su base volontaria”, ma devono anche “rappresentare i diritti e gli interessi legittimi dei lavoratori e degli impiegati in base alla legge”. Poi viene emendato il già citato articolo 6, il cui primo comma viene riscritto con la seguente formulazione: “I doveri e le funzioni fondamentali dei sindacati sono salvaguardare i diritti e gli interessi legittimi dei lavoratori e dei membri dello staff. I sindacati dovranno rappresentare e salvaguardare i diritti e gli interessi legittimi dei lavoratori e dei membri dello staff, allo stesso tempo proteggendo gli interessi generali dell’intero popolo cinese”. L’enfasi sul dovere della rappresentanza, pur già presente nella legge sul lavoro del 1994 all’articolo 716, è molto significativa, in quanto si tratta di un passo in avanti verso la trasformazione del sindacato da organizzazione di “amministrazione” ad organizzazione di “rappresentanza”. In ogni caso questa funzione, pur affermata chiaramente nella teoria, nella realtà risente notevolmente dei limiti insiti nella struttura sindacale cinese: la Fsc di fatto non può far altro che proteggere gli interessi dei lavoratori “a posteriori”, adottando misure rigidamente “a-politiche”, quali l’organizzazione di corsi di preparazione professionale, l’assistenza legale e la concessione di piccoli prestiti per l’avvio di nuove attività17. Anche se è attualmente in discussione una controversa bozza di legge sui contratti di lavoro che sembrerebbe rafforzare la funzione di controllo del sindacato sui contratti di lavoro, un ruolo “antagonista” del sindacato nei confronti del governo rimane assolutamente escluso.

Altri due limiti interni all’azione del sindacato che non possono essere sottovalutati sono il limite economico ed il limite dovuto alle qualificazioni (non) richieste ai quadri. Dal punto di vista economico il sindacato è completamente dipendente da quelli che tradizionalmente dovrebbero essere i suoi antagonisti, vale a dire i datori di lavoro e il governo. L’articolo 42 della legge sui sindacati stabilisce che i fondi a disposizione del sindacato debbano provenire, oltre che dalle tasse di iscrizione dei membri, anche da un contributo pari al 2% del totale delle buste paga di tutti i lavoratori e gli impiegati, allocato mensilmente dall’impresa, dall’istituzione o dall’organo di Stato ove l’organizzazione sindacale è stabilita, nonché da sussidi garantiti dai governi popolari. L’articolo 45 inoltre stabilisce che i governi popolari a tutti i livelli hanno il dovere di rendere disponibili ai sindacati i mezzi materiali, le attrezzature ed i luoghi necessari ai sindacati per condurre le proprie attività. 

Nonostante la modifica del 2001 abbia inserito alcune misure di tutela contro il mancato pagamento dei contributi da parte delle imprese, questa dipendenza economica limita fortemente la capacità di azione del sindacato cinese. Di fatto la Fsc è alla ricerca di nuove imprese in cui stabilire dei sindacati per garantirsi nuove fonti di entrate a fronte di una crescente crisi finanziaria, dovuta soprattutto al mancato pagamento dei contributi sindacali da parte delle imprese nel settore pubblico in difficoltà. La necessità di avere accesso a questi fondi ha spinto il sindacato ad adottare una politica di compromesso nei confronti del management delle imprese private, ad esempio garantendo il fatto che non vengano intraprese azioni collettive, riducendo l’onere dei contributi sindacali spettanti all’impresa e spesso persino permettendo al datore di lavoro di nominare la leadership del sindacato18. Chen Feng cita un’indagine condotta nella città di Tangshan nello Hebei, da cui emergeva che il 60-70% dei capi sindacali delle imprese locali era parente dei datori di lavoro e spesso era stato nominato direttamente da questi ultimi19. Questo mette in evidenza il secondo limite citato, vale a dire l’assenza di qualificazioni richieste ai quadri sindacali.

Anche se la modifica del 2001 ha specificato all’articolo 9 che nessun parente dei dirigenti di un’impresa può candidarsi per l’elezione a membro del comitato sindacale di base dell’impresa, la legge continua a stabilire all’articolo 3 che l’unico criterio per entrare nel sindacato è quello di “basarsi sul salario o sul reddito come principale fonte di sussistenza” (yi gonzi shouru wei zhuyao shenghuo laiyuan), definizione che non garantisce l’indipendenza e l’autonomia dei sindacalisti dal management20. Di fatto ancora oggi in Cina succede spesso che sindacati siano stabiliti dai datori di lavoro o da loro fantocci.

3. Limiti esterni: l’assenza del diritto di sciopero
Nelle attuali circostanze esistono numerosi limiti esterni all’azione del sindacato cinese, quali un sistema di contrattazione collettiva decisamente carente e dei meccanismi di gestione democratica delle imprese largamente insufficienti; ma probabilmente l’ostacolo più grande all’azione del sindacato è l’assenza di una chiara definizione del diritto di sciopero. La linea politica attualmente seguita in Cina in materia è da rintracciarsi in un documento del Comitato centrale del Pcc emanato nel marzo del 1957 con il titolo “Indicazioni del Comitato centrale del Pcc relative al trattamento degli scioperi e delle astensioni dalle lezioni”21. In esso, riprendendo il celebre discorso di Mao sulla corretta risoluzione delle contraddizioni in seno al popolo, si affermava il carattere non antagonistico delle dispute tra i lavoratori e la classe dirigente e se ne riconducevano le cause al burocratismo dell’apparato. Si riconosceva il fatto che nel caso in cui le masse fossero state private dei diritti democratici e spinte all’esasperazione al punto da non poter fare a meno di adottare misure estreme quali gli scioperi, le astensioni dalle lezioni, i cortei e le petizioni, tali movimenti popolari fossero “non solo inevitabili, ma anche necessari”, e quindi andassero permessi e non vietati. Anche se questi termini difficilmente si adattano alla situazione attuale, negli ultimi cinquant’anni il Pcc non ha emanato ulteriori indicazioni riguardo al diritto di sciopero.

Nonostante fosse stato inserito nelle Carte costituzionali del 1975 e 1978, il diritto di sciopero non è stato confermato nella Costituzione del 198222. Ancora oggi, dopo 25 anni e dopo ripetute richieste alle autorità, il governo cinese continua a mantenere un atteggiamento cauto ed ambiguo in materia, alternando aperture apparenti a chiusure reali: attualmente il diritto di sciopero non è stato ancora reinserito tra i diritti civili costituzionali. Nel 2001 l’Assemblea nazionale del popolo ha ratificato il “Patto sui diritti economici, sociali e culturali” delle Nazioni unite23, che all’articolo 8 comma 1 impegna gli Stati contraenti a garantire, tra l’altro, il diritto di sciopero, purché esercitato in conformità alle leggi di ciascun paese. Anche se alcuni autori ritengono che questa ratifica possa costituire la base giuridica per il diritto di sciopero in Cina anche in assenza di emendamenti costituzionali24, nell’attuale situazione di vuoto normativo, in cui il diritto di sciopero è relegato in una specie di limbo giuridico, tale ratifica appare semplicemente retorica; un’impressione rafforzata dalla riserva posta dal legislatore cinese al comma 1 dello stesso articolo del Patto, nel quale viene sancito il diritto degli individui a costituire e ad unirsi autonomamente in sindacati. 

Un autentico passo avanti verso il riconoscimento del diritto di sciopero è invece rappresentato dalla modifica del 2001 all’articolo 25 della “Legge sui sindacati”25. Nonostante le pressioni della Fsc, che nel 1988 aveva presentato un documento alla leadership del partito in cui richiedeva che nella legge sui sindacati di imminente stesura fosse concesso ai lavoratori il diritto allo sciopero26, tale articolo era così formulato: “In caso di blocchi del lavoro (tinggong) o scioperi del rendimento (daigong) in un’impresa, il sindacato dovrà, insieme alle autorità amministrative dell’impresa o altre autorità relative, negoziare una soluzione per le richieste avanzate dai lavoratori considerate ragionevoli e assolvibili, in modo da rendere possibile che il normale processo di produzione riprenda il più velocemente possibile”27.

Nel 2001 con la revisione della legge, il legislatore decideva di riscrivere l’articolo (ora articolo 27) in questa maniera: “In caso di blocchi del lavoro o scioperi del rendimento in un’impresa o in un’istituzione, il sindacato dovrà, per conto dei lavoratori e degli impiegati, tenere delle consultazioni con l’impresa o l’istituzione o le parti coinvolte, presentare le opinioni e le richieste dei lavoratori e degli impiegati, e avanzare delle proposte. Riguardo alle richieste ragionevoli fatte dai lavoratori e dagli impiegati, l’impresa o l’istituzione dovrà provare a soddisfarle. Il sindacato dovrà assistere l’impresa o l’istituzione nel trattare propriamente la questione, in modo da aiutare a ripristinare il normale ordine della produzione e l’altro lavoro il più velocemente possibile”.

Molti leggono questa modifica come un implicito riconoscimento del diritto di sciopero, interpretando il termine tinggong, letteralmente “blocco del lavoro”, come un eufemismo per indicare lo sciopero. Se si conviene con questa lettura, il sindacato attualmente continua a non godere del diritto di proclamare ed organizzare scioperi, ma quantomeno acquista un ruolo importante nella gestione del fenomeno, diventando portavoce effettivo dei lavoratori, autorizzato a presentare le loro opinioni e richieste, a differenza di quanto avveniva in precedenza. In ogni caso, anche se la nuova formula è pensata appositamente per fornire un implicito sostegno ai lavoratori impegnati in un blocco del lavoro, gli studi di Chen Feng28 hanno dimostrato come l’atteggiamento del sindacato cinese nel caso di azioni collettive sia quantomeno ambiguo. Schiacciato tra la funzione rappresentativa dei lavoratori e la difesa degli interessi “collettivi” dello Stato, lo scopo ultimo del sindacato è ancora considerato quello di persuadere i lavoratori in protesta ad abbandonare le strade: di fatto i leader sindacali sono i primi ad apparire sul luogo dei disordini cercando di influenzare i lavoratori e convincerli ad andarsene29. Oltre a ciò, anche dal punto di vista giuridico rimangono gravi motivi di insoddisfazione nei confronti di questa nuova formulazione dell’articolo, quali il carattere implicito del riconoscimento della legittimità del blocco del lavoro, l’assenza di norme che disciplinino e limitino tali blocchi e l’assenza del diritto del sindacato di proclamare uno sciopero30.

Queste mancanze limitano certamente la portata di un cambiamento che non va in ogni caso sottovalutato. Ulteriore segno di apertura è stata la promulgazione di una nuova “Legge sulla sicurezza nella produzione” nel novembre del 200331: agli articoli 46 e 47 essa riconosce ai lavoratori delle imprese statali che nel lavoro incontrano una situazione che mette direttamente in pericolo la loro sicurezza personale il diritto di rifiutarsi di eseguire gli ordini così come di smettere di lavorare e abbandonare il posto di lavoro senza per questo subire alcuna riduzione salariale, diminuzione nel welfare oppure cancellazione del contratto di lavoro. 

Nonostante queste aperture e concessioni nei confronti del diritto di sciopero, il codice penale della Rpc continua a comminare delle pene molto severe nei confronti degli scioperanti. Nel codice lo sciopero non viene mai menzionato in quanto tale, ma può essere indirettamente ricondotto a fattispecie disciplinate in altre sezioni, in primo luogo ai crimini contro la sicurezza dello Stato e di disturbo dell’ordine pubblico. Ad esempio, il comma 1 dell’articolo 290, probabilmente la formulazione più esplicita, stabilisce che “se una folla riunita disturba l’ordine pubblico, se le circostanze sono così serie che il lavoro, la produzione, l’attività, l’educazione o la ricerca scientifica non possono essere condotte e vengono causati seri danni, gli istigatori della rivolta dovranno essere condannati all’imprigionamento per un periodo stabilito di non meno di tre anni e non più di sette, gli altri partecipanti attivi dovranno essere condannati all’imprigionamento per un periodo stabilito di non più di tre anni, alla detenzione criminale, alla pubblica sorveglianza o alla privazione dei diritti politici”32. Inoltre, l’esercizio del diritto allo sciopero risulta essere limitato non solo da altre leggi funzionali alla salvaguardia dell’ordine pubblico33, ma anche da provvedimenti amministrativi quali il “Regolamento sui contratti collettivi” del 200434

Quest’ultimo in particolare all’articolo 5 stabilisce che durante la contrattazione collettiva nessuna delle parti può ricorrere ad azioni estreme. In definitiva dunque, nonostante i segnali di apertura, organizzare o partecipare ad uno sciopero in Cina tuttora rimane un’attività molto rischiosa.
Nonostante non sia ancora riuscito ad accordarsi sulla questione fondamentale se attualmente lo sciopero sia da considerare un’azione legale oppure illegale, negli ultimi anni il mondo accademico cinese è impegnato in un acceso dibattito sulla questione dell’affermazione del diritto di sciopero. In questo dibattito è possibile distinguere due differenti correnti di pensiero35. La prima, che possiamo definire “gradualista”, rappresentata da accademici come Xu Jianyu e Wang Huaizhang dell’Università del Zhejiang36, è favorevole alla reintroduzione del diritto di sciopero, ma non sul breve periodo, in quanto ritiene che attualmente non ne sussistano le condizioni: lo sviluppo economico del paese sarebbe ancora insufficiente, le leggi complementari allo sciopero non sarebbero adeguate e i lavoratori sarebbero immaturi per godere di un tale diritto. La seconda corrente, alla quale è possibile ricondurre, tra gli altri, Chang Kai, docente dell’Università del Popolo di Pechino, e Liu Yunya e Zhang Li, docenti presso l’Università Politecnica del Jiangsu, è invece favorevole all’immediata introduzione del diritto di sciopero nella legislazione cinese, anche se vi sono divergenze sui metodi: alcuni propongono di partire dalla Costituzione, emendare poi la legge sul lavoro e infine promulgare una nuova apposita legge per lo sciopero37; altri di cominciare sperimentando delle legislazioni sullo sciopero su scala locale, partendo dalle imprese private e a capitale estero, prima di introdurre il diritto nella legislazione nazionale38; altri ancora di avviare il processo con un documento programmatico adottato dall’Assemblea nazionale del popolo, seguito da alcuni esperimenti su realtà locali rappresentative della situazione cinese, attraverso quali maturare l’esperienza da riversare in una legge sullo sciopero39.

In ogni caso l’idea di fondo che entrambe le scuole sottintendono è la stessa: il diritto di sciopero, non importa se considerato “un male necessario” oppure una “valvola di sicurezza sociale”, prima o poi dovrà essere reintrodotto nella Repubblica popolare. Esso infatti in fin dei conti potrebbe divenire un elemento di stabilità per l’attuale sistema politico, più che un fattore di instabilità.

4. Conclusioni
Che il sindacato cinese avesse dei limiti strutturali che gli impedivano di “alzare la voce”, era già apparso evidente negli anni Novanta: infatti, nel corso del processo di ristrutturazione del sistema delle imprese di Stato, le uniche misure adottate per rappresentare e difendere gli interessi dei lavoratori erano state quelle di fornire dei servizi di preparazione professionale per i dipendenti licenziati, aprire dei centri di consulenza e garantire dei piccoli prestiti per l’avvio di nuove attività40. In quelle circostanze il sindacato cinese sì è rivelato non tanto un attore in grado di negoziare l’andamento delle riforme nell’interesse dei lavoratori, quanto un utile strumento di gestione delle inevitabili ripercussioni del processo di ristrutturazione industriale in termini di disoccupazione. Infatti al sindacato è concesso entrare in gioco solamente quando tutte le decisioni sono già state prese e non resta altro da fare che cercare di limitare i danni attraverso misure rigidamente “a-politiche”. In questo senso, nell’affrontare le lamentele dei lavoratori i sindacati cinesi si caratterizzano più come “agenzie di assistenza legale o lavoro sociale, atte a risolvere i problemi caso per caso, che organizzazioni del lavoro che formano, perseguono, rappresentano e difendono gli interessi dei lavoratori in una maniera più proattiva” 41. Di fatto i limiti interni ed esterni a cui è sottoposto non permettono al sindacato cinese di avere altro ruolo che questo.
Per esercitare la funzione di rappresentanza all’interno di un simile contesto, il sindacato cinese non può che ricorrere, pur in maniera molto selettiva, a strumenti quali l’assistenza legale ai lavoratori42, confermando in questo modo la propria natura strumentale e non antagonista. Nella situazione paradossale in cui “l’influenza [dei sindacati] deriva non dal lavoro organizzato ma dal loro status istituzionale nella struttura dello Stato”43, la concessione della democrazia sindacale senza diritto di sciopero non può portare grandi benefici ai lavoratori; allo stesso tempo, la concessione del diritto di sciopero senza la democrazia sindacale è assolutamente inutile. Solamente quando i lavoratori cinesi avranno il pieno diritto di eleggere i propri rappresentanti e godranno della possibilità di ricorrere allo sciopero, i sindacati cinesi potranno davvero “far sentire più forte la propria voce”. Allora la stabilità sociale non potrà che trarne vantaggio.

MONDO CINESE N. 131, APRILE-GIUGNO 2007

Note

1 “Rang Gonghui de shengyin geng xiangliang” (Far risuonare ancora più forte la voce del Sindacato), Renmin Ribao, 6.4.2007, p. 5..
2 Per una storia del sindacato cinese fino alla metà degli anni ’80 si veda Lee Lai To, Trade Unions in China: 1949 to the Present, Singapore University Press, Singapore, 1986..
3 Per una descrizione della struttura della Federazione dei sindacati cinesi (Fsc) si veda Bill Taylor, Chang Kai, Li Qi, Industrial Relations in China, Edward Elgar, Cheltenham 2003, pp. 104-105; Warner Malcom, Sek Hong Ng, China’s TradeUnions and Management, Macmillan, London 1998, pp. 41-47..
4 Zhonghua Quanguo Zonggonghui, Zhongguo Gonghui Nianjian: 2006 (Annuario statistico dei sindacati cinesi: 2006), Zhonghua quanguo zonggonghui zhuban, Beijing, 2006..
5 Per un’analisi del rapporto tra la Cina e l’Oil fino alla metà degli anni ’90, si veda Ann Kent, “China, International Organizations and regimes: the ILO as a case study in organizational learning”, Pacific Affairs, vol. 70, n. 4, inverno 1997-1998, pp. 517-532..
6 Per la “Legge sui sindacati” (Gonghui fa) del 1992 si veda Zhonghua Renmin Gongheguo Guowuyuan Gongbao, n. 11, 1992, pp. 374-380..
7 Per la Legge sui sindacati del 1950 si veda il sito: http://www.npc.gov.cn/zgrdw/common/zw.jsp?id=4245&lmfl=%B7%A8%C2%C9%CE%C4%BC%FE&label=WXZLK&pdmc=010602.
8 International Labour Organization, Complaint against the Government of China presented by the International Confederation of Free Trade Unions, reports n.286 e 292, case n.1652, disponibile sul database Ilolex al sito 
http://www.ilo.org/ilolex/english/caseframeE.htm. .
9 Per la “Legge sui sindacati” modificata nel 2001 si veda Zhonghua Renmin Gongheguo Guowuyuan Gongbao, n. 34, 2001, pp. 17-25. Per un confronto tra la Legge sui sindacati del 1992 e quella del 2001 si veda Caroline Heuer, A Comparison of the Chinese Trade Union Laws 1992 and 2001, su http://www.woekweb.de/conchilli-mx/cms/upload/pdf/gewerkschaften_in_china/publikationen/heuer_2004_a_comparision_of_the_
chinese_tade_union_laws.pdf . .
10 Articoli 8 e 9 della Legge del 1992..
11 Marina Miranda, “Il Partito comunista cinese, da ‘partito rivoluzionario’ a ‘partito di governo’”, Mondo Cinese, n. 113, ottobre-dicembre 2002, pp.15-19..
12 B. Taylor, Chang Kai, Li Qi, op.cit., pp. 116-117..
13 Ibid., p.113..
14 Ann Kimberly Elliot, Richard B. Freeman, Can Labor Standards Improve under Globalization?, Institute for International Economics, Washington DC 2003, pp. 124-125..
15 Questa tesi viene argomentata da Jackie Sheehan in Chinese Workers: a New History, Routledge, London 1998..
16 Laodongfa Xiaoquanshu (Raccolta completa di leggi e regolamenti sul lavoro), Falü chubanshe, Beijing 2006, p. 2..
17 Chen Feng, “Between the State and labour: the conflict of Chinese trade unions’ double identity in market reform”, China Quarterly, n. 176, dicembre 2003, pp. 1006-1028; Id., “Legal mobilization by trade unions: the case of Shanghai”, The China Journal, n. 52, luglio 2004, pp. 27-45; Sek Hong Ng, Olivia Ip, “Unemployment in China and the All-China Federation of Trade Unions”, in Unemployment in China, a cura di Grace Lee, Michael Warner, Routledge, London 2007, pp. 65-86..
18 B. Taylor, Chang Kai, Li Qi, op. cit., p. 127..
19 Chen Feng, “Between the State and labour”, op. cit., p. 1025..
20 Wang Quanxing, Wang Min, “Gonghuifa 2001nian xiugai de chenggong yu buzu, (I successi e le mancanze della modifica del 2001 alla Legge sul sindacato)”, Huadong Falü Pinglun, n. 1, 2002, pp. 114-138..
21 Zhonggong Zhongyang guanyu Chuli Bagong, Bake Wenti de Zhishi, (Indicazioni del Comitato centrale del Pcc sul trattamento degli scioperi e delle astensioni dalle lezioni) disponibile su http://news.xinhuanet.com/ziliao/2005-01/05/content_2418443.htm.. 
22 Per uno studio comparato degli articoli delle Costituzioni cinesi sui diritti politici si veda Giorgio Melis, “Costituzioni Cinesi Comparate (parte III)”, Mondo Cinese, n. 46, giugno 1984, pp. 38-80..
23 International Covenant on Economic, Social and Cultural Rights, su http://www.ohchr.org/english/law/cescr.htm. .
24 Chang Kai, “Bagongquan lifa wenti de ruogan sikao” (Alcune riflessioni sulla legislazione sul diritto di sciopero), Xuehai, n. 4, 2005, pp. 43-55..
25 Zhonghua Renmin Gongheguo Guowuyuan Gongbao, n. 34, 2001, op. cit., p. 23..
26 Chen Feng, “Between the State and labour”, op. cit., p. 1018..
27 Zhonghua Renmin Gongheguo Guowuyuan Gongbao, n. 11, 1992, op. cit., p. 378..
28 Si vedano i due studi di Chen Feng già citati..
29 Chen Feng, “Between the State and labour”, op. cit., p. 1019..
30 Wang Quanxing, Wang Min, op. cit., p. 123..
31 “Anquan shengchanfa” (Legge sulla sicurezza nella produzione), Zhonghua Renmin Gongheguo Guowuyuan Gongbao, n. 22, 2002, pp. 6-13. Gli articoli citati si trovano a pagina 9..
32 Zhonghua Renmin Gongheguo Xingfa (Codice Penale della Repubblica popolare cinese), Falü Chubanshe, Beijing 2006, p.67..
33 “Zhi’an guanli chufafa” (Legge sulle punizioni amministrative per l’ordine pubbico), Zhonghua Renmin Gongheguo Guowuyuan Gongbao, n. 30, 2005, pp.5-17..
34 “Jiti hetong guiding” (Regolamento sui contratti collettivi), in Laodongfa Xiaoquanshu (Raccolta completa di leggi e regolamenti sul lavoro), Falü chubanshe, Beijing 2006, pp. 154-159. L’articolo citato si trova a p. 155..
35 Per questa distinzione si veda Liu Yunya, Zhang Li, “Xunzhao shiluo de bagongquan, (Alla ricerca del diritto di sciopero perduto), Nanjing Linye Daxue Xuebao, vol.7, n. 1, marzo 2007, pp. 33-39..
36 Xu Jianyu, Wang Huaizhang, “Lun Bagongquan Yinggai Huanxing” (Sul diritto di sciopero bisogna procedere lentamente), Shanxi Daxue Xuebao, n. 3, 2003, pp. 58-61..
37 Lo proponevano Liu Yunya e Zhang Li in una versione preliminare dell’articolo apparsa in rete sul sito www.haokanba.com, ora non più attivo..
38 Chang Kai, “Bagongquan lifa wenti de ruogan sikao”, op.cit., p. 53..
39 Su Miaohan, Yao Hongmin, Zheng Lei, “Falü dui bagongquan de queren ji guifan” (L’affermazione legale e le norme relative al diritto di sciopero), Faxue, n. 1, 2005, pp. 12-15..
40 Sek Hong Ng, Olivia Ip, op.cit., p. 83..
41 Chen Feng, “Between the State and labour”, op. cit., p. 1026..
42 Ibid., p. 1013..
43 Ibid,. p. 1016; Chen Feng, “Legal mobilization by trade unions”, op.cit., p. 43..
 

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