1. Premessa
Dieci anni fa un rapporto elaborato dall’Hudson
Institute affermava che “il resto del mondo ha per le aziende una rilevanza
come mai l’ha avuta prima d’ora”1. Oggi osservazioni come questa non
stupiscono nessuno. L’aspetto sorprendente è che l’attenzione nei confronti
di un dato ambiente non si limita agli aspetti di competizione e di mercato, ma
tocca altresì le culture organizzative. Lo sviluppo impetuoso dei processi di
espansione oltre confine – attuati grazie anche al supporto offerto dalle
tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT), da Internet e dal
Web - comporta vere e proprie sfide per i manager e per i ricercatori che si
trovano, nei rispettivi ruoli e competenze, ad affrontare il tema del
cambiamento organizzativo.
La comprensione dei valori culturali - ossia il sistema di assunti di base
che orientano le scelte di un gruppo2 - è cruciale in tutti i discorsi che
fanno riferimento alla gestione delle risorse umane, ai comportamenti
individuali, all’interpretazione delle scelte e delle condotte degli attori
economici. Le diverse concezioni permeano gli stili di leadership e di
management, la struttura organizzativa e i sistemi di coordinamento e controllo.
I valori dominanti di provenienza influiscono sulle decisioni delle aziende che
decidono di varcare le frontiere nazionali.
Esiste una vasta letteratura che mostra come tra Europa e Stati Uniti le
iniziative di accordo, alleanza, acquisizione possano fallire per ragioni legate
alle incompatibilità tra i soggetti coinvolti. Tali problematiche, già
complesse in presenza di contesti e pratiche manageriali relativamente simili,
si complicano vieppiù quando si attraversano i confini culturali.
Da quando la Cina è diventata una protagonista dello scenario mondiale (non
soltanto per la presenza crescente di imprese straniere, ma anche perché dal
2000 al 2005 il valore delle operazioni di acquisizione all’estero promosse
dalle aziende cinesi è cresciuto di quasi 13 volte)3 il tema del “cultural
divide” è balzato in primo piano. Si pensi soltanto al problema di come
assicurare un’efficace comunicazione tra gruppi di lavoro i cui membri operano
da sedi geograficamente molto distanti; o all’esigenza di garantire ’accettazione
e l’utilizzo del medesimo programma informatico da parte di tutte le unità
organizzative cui è destinato. O, ancora, al problema – diventato molto
comune tra le multinazionali del software che hanno costituito proprie unità di
ricerca e sviluppo sull’altra sponda del Pacifico – di affidare la
progettazione di soluzioni applicative a gruppi di lavoro nei quali i decisori
aziendali, il personale tecnico (programmatori, sistemisti, analisti di
processo), gli utilizzatori finali (partner d’affari, clienti, collaboratori
aziendali, consumatori ecc.), siano portatori di culture differenti.
Questioni di tale rilevanza sono inevitabilmente destinate a caratterizzare
lo scenario futuro, soprattutto in conseguenza della diffusione di modelli
gestionali e stili organizzativi sempre più all’insegna di gruppi di lavoro
dispersi, mobili e multiculturali. La prima buona notizia è che esistono casi
di successo che dimostrano come le diversità culturali non vanno lette sempre e
necessariamente come vincoli, ma possono invece costituire dei veri e propri
asset (invisibili, ma non per questo meno preziosi), capaci di influire
concretamente sulle prospettive di sviluppo. Ad esempio Lenovo, il gigante
cinese dei personal computer, ha dichiarato recentemente che nelle sue strategie
globali rientra a pieno titolo la valorizzazione delle identità culturali del
top management (il presidente Yang è definito un Bill Gates con caratteristiche
cinesi, mentre l’amministratore delegato William Amelio è statunitense ma
abita a Singapore, ossia a metà strada tra i principali mercati di sbocco dell’azienda)4.
La seconda notizia confortante è che oggi, a differenza di uanto avveniva fino
al recente passato, molti ostacoli all’efficace comunicazione possono trovare
una risposta coerente nelle opportunità offerte dalle tecnologie, segnatamente
Internet e il Web. Vediamo come.
2. Le tecnologie ICT per colmare il divario
Da molti anni il telefono (fisso e mobile), il fax, la teleconferenza, la
posta elettronica, gli sms, costituiscono i mezzi di comunicazione più diffusi
e conosciuti in assoluto. L’aspetto interessante, legato direttamente ai
recenti sviluppi in campo tecnologico, è che questi strumenti - da sempre
considerati soluzioni distinte e separate, sia dal punto di vista dell’infrastruttura
tecnologica, sia dal punto di vista delle apparecchiature e delle logiche di
utilizzo - stanno entrando in una nuova fase contrassegnata dal binomio “convergenza
e integrazione”.
Significa che, grazie alla crescente disponibilità di reti ad alta capacità
(cosiddette “a banda larga” o broadband) che stanno conoscendo un
vero e proprio boom in tutto il mondo, è diventato possibile usare la medesima
infrastruttura per veicolare, in aggiunta alle chiamate telefoniche, svariati
servizi di omunicazione (cablata, senza fili e mobile) dei dati, delle immagini,
dei suoni e così via. La convergenza poggia su un protocollo di comunicazione
unico (IP, Internet Protocol), lo stesso che consente a Internet di funzionare
come sappiamo. Ma vi è di più. La rete ad alta capacità e le sue applicazioni
iventano disponibili mediante qualunque tipo di dispositivo: dal personal
computer, al cellulare, al computer palmare ed altri ancora. Con quali implicazioni?
Un ambiente di comunicazione integrata come quello descritto è utile
soprattutto per il lavoro di gruppo, ambito nel quale i dati, le comunicazioni
informali e le relazioni interpersonali sono strettamente legati. Meeting
telematici, attività formative (e-learning), condivisione di file, di
messaggi e documenti vari possono contribuire a ridurre le distanze spazio
temporali. Ciò vale per chi lavora abitualmente dalla propria scrivania, per le
figure professionali “mobili” o per chi invece opera stando a casa. Ad
esempio, un unico numero di telefono consente al dipendente di essere
rintracciato ovunque, anche fuori dalle sedi dell’azienda, e di avere nel
contempo tutte le applicazioni e i dati a portata mano. La gestione delle
strutture commerciali risulta semplificata e inoltre si possono ottenere
interessanti risparmi sui costi telefonici.
I software per comunicare via chat e instant messaging sono
apprezzati da chi, come le imprese operanti nei settori delle spedizioni, della
logistica, del trading, lavora massicciamente con i numeri (sotto forma di
quantità e date) in diverse lingue. Scrivere e condividere brevi messaggi
mentre si è collegati in adioconferenza permette di evitare gli errori e gli
equivoci che possono insorgere col telefono, mantenendo di questo mezzo il
feedback immediato. L’instant messaging aiuta poi a superare le incertezze di
chi deve esprimersi in una lingua che non è la propria, ed evita che la poca
dimestichezza linguistica sia scambiata per incompetenza o scarso entusiasmo.
Tra le aziende presenti in Cina è diffuso l’utilizzo della videoconferenza
per riunioni di coordinamento con la casa madre. L’italiana Univels5 si è
inserita in questo segmento di offerta specializzandosi nella fornitura di
strumenti per la comunicazione e la formazione anche in outsourcing, attraverso
collegamenti permanenti via videoconferenza e tramite portale per i propri
clienti (soprattutto PMI). Di sicuro all’orizzonte si profilano sviluppi
promettenti: una nuova famiglia di applicazioni software, appositamente studiate
per creare un ambiente di collaborazione virtuale “ricco”, fruibile mediante
vari dispositivi d’uso comune, sono diventate accessibili e convenienti grazie
alla diffusione delle reti ad alte prestazioni. Esse possono offrire un
contributo concreto alla comunicazione, anche nell’ambito di contesti
multiculturali. In quest’ottica Internet tende a diventare un vero e proprio
canale polifunzionale di relazione con l’esterno.
La direzione di marcia verso cui si stanno orientando tutti i protagonisti
del settore ICT (da Ibm a Cisco a Microsoft, per limitarsi ai nomi più noti) è
ormai tracciata; tuttavia sarebbe un errore pensare che Internet e gli strumenti
di collaborazione unificata di nuova generazione possano, di per sé, annullare
le differenze tra le culture (e le eventuali subculture gerarchiche,
professionali e così via) delle organizzazioni.
Studi recenti indicano che negli ambienti “virtuali” le distanze non
scompaiono d’incanto. Anzi, la tecnologia può addirittura rafforzare le
differenze, agendo come una sorta di “amplificatore culturale”6.
Gli assunti che orientano le scelte e i comportamenti delle persone - in sede
di presa di decisioni, di pianificazione del lavoro, di gestione delle riunioni,
di formazione del consenso ecc. - sono invisibili, ma non per questo meno forti
e persistenti. Così, è tutt’altro che raro che il sistema software di
supporto decisionale progettato in Europa per garantire una partecipazione
democratica e paritaria possa disorientare chi opera abitualmente in contesti
ove domina la gerarchia.
L’audioconferenza induce all’essenzialità (che qualcuno potrebbe
scambiare per scortesia) e inoltre rende invisibili i gesti e le espressioni
dell’interlocutore; mentre un messaggio di posta elettronica spedito a una
lista di distribuzione non consente di distinguere il peso dei destinatari
inclusi nell’elenco. Anche nei meeting telematici le riunioni possono essere
indette per ratificare decisioni già prese altrove. Infine anche lo stress, il
fuso orario, il giorno scelto per l’incontro a distanza possono essere causa
di isallineamenti o tensioni tra i partecipanti. L’unico auspicio ragionevole
è che la sensibilità culturale cresca e si diffonda sempre più, per
consentire alle organizzazioni di porre in essere strategie di cambiamento e
scelte tecnologiche coerenti con gli obiettivi da raggiungere.
3. Sempre più Cina nella ricerca manageriale
La velocità di diffusione di Internet e l’enfasi che caratterizza il
dibattito sul cambiamento organizzativo richiedono un impegno adeguato sul
fronte della ricerca. Come sottolineato da un recente saggio di Farh e colleghi7, la produzione scientifica di matrice organizzativa e manageriale
dedicata alla realtà della Cina è frammentaria e incompleta. Non è raro
imbattersi in risultati contrastanti. Spesso, poi, gli indicatori impiegati dai
ricercatori (ancorché “tradotti” o “adattati”) originano in contesti
culturali europei o nordamericani, il che suscita non pochi dubbi metodologici.
Ad esempio: lo strumento scelto è in grado di rilevare effettivamente il
concetto in questione? Quanto è corretto il livello di analisi prescelto?
Davvero gli indicatori selezionati catturano le dimensioni culturali?
Farh e colleghi indicano due principali criteri che dovrebbero guidare la
ricerca (sia di tipo quantitativo che qualitativo) dedicata alle specificità
culturali del contesto cinese. Il primo criterio fa riferimento all’originalità
del metodo d’indagine utilizzato. Quest’ultimo può essere del tutto nuovo
(ossia creato appositamente) o, viceversa, derivare da un sistema preesistente.
Il secondo criterio riguarda il grado di specificità del metodo di ricerca. L’ambito
di applicazione di quest’ultimo può riferirsi strettamente alla realtà
indagata (“emico”) oppure aspirare ad essere universale (“etico”).
Ricordiamo che l’orientamento emico valorizza i concetti e le rappresentazioni
della cultura e della società studiata, mentre l’orientamento di tipo etico
punta sulle capacità osservative, astrattive e generalizzanti del soggetto
esterno che osserva, considerandole garanzia di obiettività scientifica8.
La combinazione delle due dimensioni genera, come ovvio, quattro possibili
approcci analitici: il primo, denominato “traduzione”, consiste nell’utilizzare
per il contesto cinese un metodo già utilizzato in ricerche condotte in altri
ambiti (tipicamente occidentali). L’approccio cosiddetto di “adattamento”
si fonda sulla traduzione e successiva rielaborazione di un sistema
preesistente. Il terzo approccio, decontestualizzazione”, prevede l’elaborazione
di un metodo tarato specificamente sul contesto cinese, presupponendo che i
parametri restino invariati anche se applicati altrove. Il quarto e ultimo
approccio, “contestualizzazione”, consiste nello sviluppare un metodo valido
per l’unità d’analisi considerata, assumendo che esso sia specifico della
realtà socioculturale cinese e, in quanto tale, difficilmente “esportabile”.
Va da sé che ciascuna delle quattro possibilità deve essere letta come
costruzione generale e ipotetica, caratterizzata da propri punti di forza e di
debolezza (il lettore interessato ad approfondire questi temi potrà utilmente
riferirsi all’articolo originale qui citato).
Quello che preme sottolineare è che il lavoro condotto da Fahr e colleghi ha
l’indubbio merito di mettere in luce il problema della frammentazione che
caratterizza la ricerca manageriale dedicata alla Cina. Con altrettanta
chiarezza questi studiosi affermano che la diversità culturale deve essere
considerata un elemento irrinunciabile della ricerca in ambito organizzativo. L’articolo,
inoltre, propone un duplice criterio che dovrebbe guidare la scelta dell’approccio
più adatto per affrontare la complessa, e per molti versi unica, realtà
cinese. Tale passo, a propria volta, è un punto di partenza imprescindibile per
elaborare strumenti e leve di sviluppo organizzativo adeguati al contesto. Per
contro, lo sforzo di riflessione dei ricercatori è incompiuto, nel senso che
dal ragionamento manca qualsiasi proposta che faccia riferimento al ruolo dell’ICT
e di Internet, quasi come se la tecnologia e le sue evoluzioni non
contribuissero a creare nuovo potenziale culturale.
4. Conclusioni
L’ascesa della Cina sulla ribalta internazionale si accompagna con l’evoluzione
incessante delle tecnologie e delle loro applicazioni. Internet è il motore che
fornisce la base materiale per lo sviluppo di nuovi modi per comunicare,
produrre e operare, come del resto dimostra l’ultima generazione di sistemi di
collaborazione a distanza basati su protocollo IP.
Non siamo in grado di prevedere come questi fenomeni reciprocamente
intrecciati si rapporteranno con le questioni legate al cultural divide. Manuel
Castells9 ha riassunto quanto sta accadendo, osservando che quando la tecnologia
allarga il campo dell’attività economica, e le imprese interagiscono su scala
globale, le forme organizzative si diffondono, prendono a prestito l’una dall’altra
e creano una miscela che risponde a modelli in larga misura comuni di produzione
e concorrenza, pur adattandosi agli ambienti sociali in cui operano.
E neppure sappiamo se e in quale misura l’intensificarsi dei contatti con
realtà organizzative transnazionali contribuirà a modellare i caratteri di
quell’enorme laboratorio che è la Cina di oggi. Esiste una “via cinese”
alla diffusione delle tecnologie dell’informazione nelle imprese e nella
società? Quali modelli di progettazione, adozione e utilizzo dell’ICT
tipicamente occidentali sono diventati patrimonio comune delle imprese cinesi, e
quali invece non sono percorribili? In che misura Internet e il Web attuano una
rottura rispetto ai valori dominanti nelle routines e nelle prassi lavorative?
Si dischiudono scenari di ricerca ricchi e promettenti che attendono solo di
essere esplorati e valorizzati.
5. Appendice - Gli studi organizzativi in Cina
In Cina la ricerca accademica sui temi dell’organizzazione può vantare una
storia alquanto breve, comunque non superiore a 2 anni. Secondo un’analisi
pubblicata nel 2004 dall’autorevole Organization Science 10, nell’ultimo
ventennio il numero di articoli focalizzati esclusivamente su imprese della
Repubblica popolare cinese (escludendo quindi Taiwan e Hong Kong) è triplicato.
Gli studi descrivono soprattutto esperienze empiriche, mentre in due soli casi
gli autori propongono nuove teorie. Considerata la specificità della Cina dal
punto di vista culturale, sociale, storico e politico, moltissimo ancora resta
da fare. Non esistono equivalenti cinesi di riviste scientifiche del calibro di Academy
of Management Journal, Administrative Science Quarterly, Academy
of Management Review e Organization Science. In parallelo, su queste
stesse testate è progressivamente cresciuta la presenza di articoli e ricerche
dedicati al gigante asiatico.
Il risveglio della ricerca cinese in campo organizzativo va attribuito a un
rinnovato impegno sui terreni dell’informatica e della bioingegneria,
accompagnato con un ridimensionamento del ruolo regolatore dello Stato. Secondo
James March, professore emerito di Stanford, questi fattori di contesto fanno
prevedere per la Cina una traiettoria di sviluppo degli studi organizzativi che
si differenzierà dall’esperienza sia europea che nordamericana.
Come in ogni disciplina, l’evoluzione effettiva dipenderà dal trade-off
tra continuità e cambiamento. Finora ha prevalso l’impiego di schemi
teorici non originali, eventualmente corretti o adattati. Le apparenti
somiglianze col mondo occidentale, che pure si possono riscontrare nello
scenario cinese, hanno indotto i più a non allontanarsi dalle strade
conosciute. Vi è il rischio concreto che anche in futuro i ricercatori cinesi
più promettenti, desiderosi di pubblicare i propri lavori sulle riviste
accademiche internazionali, siano attratti dalle scorciatoie anziché cimentarsi
nella difficile sfida di riuscire a confutare gli schemi analitici presenti
nella letteratura mainstream.
Lo sforzo di comprensione di qualsiasi realtà (e la Cina non fa eccezione)
non può prescindere dall’osservazione diretta, ossia condotta sul campo. A
questo scopo, la collaborazione con accademici locali favorisce i processi di
trasmissione della conoscenza cosiddetta “profonda”. Altresì utile è il
ruolo che, in questa direzione, possono rivestire i mediatori
linguistico-culturali, figure alla cui formazione le università (come ad
esempio quella di Milano) dedicano corsi di laurea specifici.
In sintesi, occorre un orientamento capace di miscelare, usando le parole di
March11 , lo sfruttamento (exploitation) con l’esplorazione (exploration).
Il ricercatore che usa abitualmente schemi teorici consolidati, sviluppati in
contesti occidentali, può, in tempi abbastanza brevi, riuscire a pubblicare i
risultati dei suoi studi sulle riviste internazionali. Ma basta tutto ciò per
far avanzare la conoscenza che dovrà sperabilmente tradursi in modelli che
tengano conto di quella peculiare “interazione tra cultura, storia e
istituzioni” 12 alla base delle imprese cinesi? La risposta non può che essere
negativa.
La strada dell’esplorazione è rischiosa, difficile e incerta. Tuttavia è
altrettanto vero che la pura replica di percorsi noti rischia di non aggiungere
nulla a quanto già si conosce. Per riuscire a trarre dalla ricerca spunti
fruttuosi e originali (possibilmente dissonanti rispetto al mainstream), capaci
poi di trovare applicazione pratica, occorre affrontare in modo creativo il
dilemma di March. Un famoso libro del 2002 13 con una frase a effetto esortava i
ricercatori ad impegnarsi per contestualizzare la conoscenza generale e per
generalizzare la conoscenza di contesto.
MONDO CINESE N. 130,
GENNAIO-MARZO 2007