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Economia e diritto

Cultural divide e cultura organizzativa: 
le sfide per la ricerca al tempo di Internet

di Maddalena Sorrentino

1. Premessa

Dieci anni fa un rapporto elaborato dall’Hudson Institute affermava che “il resto del mondo ha per le aziende una rilevanza come mai l’ha avuta prima d’ora”1. Oggi osservazioni come questa non stupiscono nessuno. L’aspetto sorprendente è che l’attenzione nei confronti di un dato ambiente non si limita agli aspetti di competizione e di mercato, ma tocca altresì le culture organizzative. Lo sviluppo impetuoso dei processi di espansione oltre confine – attuati grazie anche al supporto offerto dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT), da Internet e dal Web - comporta vere e proprie sfide per i manager e per i ricercatori che si trovano, nei rispettivi ruoli e competenze, ad affrontare il tema del cambiamento organizzativo.

La comprensione dei valori culturali - ossia il sistema di assunti di base che orientano le scelte di un gruppo2 - è cruciale in tutti i discorsi che fanno riferimento alla gestione delle risorse umane, ai comportamenti individuali, all’interpretazione delle scelte e delle condotte degli attori economici. Le diverse concezioni permeano gli stili di leadership e di management, la struttura organizzativa e i sistemi di coordinamento e controllo. I valori dominanti di provenienza influiscono sulle decisioni delle aziende che decidono di varcare le frontiere nazionali.

Esiste una vasta letteratura che mostra come tra Europa e Stati Uniti le iniziative di accordo, alleanza, acquisizione possano fallire per ragioni legate alle incompatibilità tra i soggetti coinvolti. Tali problematiche, già complesse in presenza di contesti e pratiche manageriali relativamente simili, si complicano vieppiù quando si attraversano i confini culturali.

Da quando la Cina è diventata una protagonista dello scenario mondiale (non soltanto per la presenza crescente di imprese straniere, ma anche perché dal 2000 al 2005 il valore delle operazioni di acquisizione all’estero promosse dalle aziende cinesi è cresciuto di quasi 13 volte)3 il tema del “cultural divide” è balzato in primo piano. Si pensi soltanto al problema di come assicurare un’efficace comunicazione tra gruppi di lavoro i cui membri operano da sedi geograficamente molto distanti; o all’esigenza di garantire ’accettazione e l’utilizzo del medesimo programma informatico da parte di tutte le unità organizzative cui è destinato. O, ancora, al problema – diventato molto comune tra le multinazionali del software che hanno costituito proprie unità di ricerca e sviluppo sull’altra sponda del Pacifico – di affidare la progettazione di soluzioni applicative a gruppi di lavoro nei quali i decisori aziendali, il personale tecnico (programmatori, sistemisti, analisti di processo), gli utilizzatori finali (partner d’affari, clienti, collaboratori aziendali, consumatori ecc.), siano portatori di culture differenti.

Questioni di tale rilevanza sono inevitabilmente destinate a caratterizzare lo scenario futuro, soprattutto in conseguenza della diffusione di modelli gestionali e stili organizzativi sempre più all’insegna di gruppi di lavoro dispersi, mobili e multiculturali. La prima buona notizia è che esistono casi di successo che dimostrano come le diversità culturali non vanno lette sempre e necessariamente come vincoli, ma possono invece costituire dei veri e propri asset (invisibili, ma non per questo meno preziosi), capaci di influire concretamente sulle prospettive di sviluppo. Ad esempio Lenovo, il gigante cinese dei personal computer, ha dichiarato recentemente che nelle sue strategie globali rientra a pieno titolo la valorizzazione delle identità culturali del top management (il presidente Yang è definito un Bill Gates con caratteristiche cinesi, mentre l’amministratore delegato William Amelio è statunitense ma abita a Singapore, ossia a metà strada tra i principali mercati di sbocco dell’azienda)4. La seconda notizia confortante è che oggi, a differenza di uanto avveniva fino al recente passato, molti ostacoli all’efficace comunicazione possono trovare una risposta coerente nelle opportunità offerte dalle tecnologie, segnatamente Internet e il Web. Vediamo come.

2. Le tecnologie ICT per colmare il divario

Da molti anni il telefono (fisso e mobile), il fax, la teleconferenza, la posta elettronica, gli sms, costituiscono i mezzi di comunicazione più diffusi e conosciuti in assoluto. L’aspetto interessante, legato direttamente ai recenti sviluppi in campo tecnologico, è che questi strumenti - da sempre considerati soluzioni distinte e separate, sia dal punto di vista dell’infrastruttura tecnologica, sia dal punto di vista delle apparecchiature e delle logiche di utilizzo - stanno entrando in una nuova fase contrassegnata dal binomio “convergenza e integrazione”.

Significa che, grazie alla crescente disponibilità di reti ad alta capacità (cosiddette “a banda larga” o broadband) che stanno conoscendo un vero e proprio boom in tutto il mondo, è diventato possibile usare la medesima infrastruttura per veicolare, in aggiunta alle chiamate telefoniche, svariati servizi di omunicazione (cablata, senza fili e mobile) dei dati, delle immagini, dei suoni e così via. La convergenza poggia su un protocollo di comunicazione unico (IP, Internet Protocol), lo stesso che consente a Internet di funzionare come sappiamo. Ma vi è di più. La rete ad alta capacità e le sue applicazioni iventano disponibili mediante qualunque tipo di dispositivo: dal personal computer, al cellulare, al computer palmare ed altri ancora. Con quali implicazioni?

Un ambiente di comunicazione integrata come quello descritto è utile soprattutto per il lavoro di gruppo, ambito nel quale i dati, le comunicazioni informali e le relazioni interpersonali sono strettamente legati. Meeting telematici, attività formative (e-learning), condivisione di file, di messaggi e documenti vari possono contribuire a ridurre le distanze spazio temporali. Ciò vale per chi lavora abitualmente dalla propria scrivania, per le figure professionali “mobili” o per chi invece opera stando a casa. Ad esempio, un unico numero di telefono consente al dipendente di essere rintracciato ovunque, anche fuori dalle sedi dell’azienda, e di avere nel contempo tutte le applicazioni e i dati a portata mano. La gestione delle strutture commerciali risulta semplificata e inoltre si possono ottenere interessanti risparmi sui costi telefonici.

I software per comunicare via chat e instant messaging sono apprezzati da chi, come le imprese operanti nei settori delle spedizioni, della logistica, del trading, lavora massicciamente con i numeri (sotto forma di quantità e date) in diverse lingue. Scrivere e condividere brevi messaggi mentre si è collegati in adioconferenza permette di evitare gli errori e gli equivoci che possono insorgere col telefono, mantenendo di questo mezzo il feedback immediato. L’instant messaging aiuta poi a superare le incertezze di chi deve esprimersi in una lingua che non è la propria, ed evita che la poca dimestichezza linguistica sia scambiata per incompetenza o scarso entusiasmo.

Tra le aziende presenti in Cina è diffuso l’utilizzo della videoconferenza per riunioni di coordinamento con la casa madre. L’italiana Univels5 si è inserita in questo segmento di offerta specializzandosi nella fornitura di strumenti per la comunicazione e la formazione anche in outsourcing, attraverso collegamenti permanenti via videoconferenza e tramite portale per i propri clienti (soprattutto PMI). Di sicuro all’orizzonte si profilano sviluppi promettenti: una nuova famiglia di applicazioni software, appositamente studiate per creare un ambiente di collaborazione virtuale “ricco”, fruibile mediante vari dispositivi d’uso comune, sono diventate accessibili e convenienti grazie alla diffusione delle reti ad alte prestazioni. Esse possono offrire un contributo concreto alla comunicazione, anche nell’ambito di contesti multiculturali. In quest’ottica Internet tende a diventare un vero e proprio canale polifunzionale di relazione con l’esterno.

La direzione di marcia verso cui si stanno orientando tutti i protagonisti del settore ICT (da Ibm a Cisco a Microsoft, per limitarsi ai nomi più noti) è ormai tracciata; tuttavia sarebbe un errore pensare che Internet e gli strumenti di collaborazione unificata di nuova generazione possano, di per sé, annullare le differenze tra le culture (e le eventuali subculture gerarchiche, professionali e così via) delle organizzazioni.

Studi recenti indicano che negli ambienti “virtuali” le distanze non scompaiono d’incanto. Anzi, la tecnologia può addirittura rafforzare le differenze, agendo come una sorta di “amplificatore culturale”6.

Gli assunti che orientano le scelte e i comportamenti delle persone - in sede di presa di decisioni, di pianificazione del lavoro, di gestione delle riunioni, di formazione del consenso ecc. - sono invisibili, ma non per questo meno forti e persistenti. Così, è tutt’altro che raro che il sistema software di supporto decisionale progettato in Europa per garantire una partecipazione democratica e paritaria possa disorientare chi opera abitualmente in contesti ove domina la gerarchia.

L’audioconferenza induce all’essenzialità (che qualcuno potrebbe scambiare per scortesia) e inoltre rende invisibili i gesti e le espressioni dell’interlocutore; mentre un messaggio di posta elettronica spedito a una lista di distribuzione non consente di distinguere il peso dei destinatari inclusi nell’elenco. Anche nei meeting telematici le riunioni possono essere indette per ratificare decisioni già prese altrove. Infine anche lo stress, il fuso orario, il giorno scelto per l’incontro a distanza possono essere causa di isallineamenti o tensioni tra i partecipanti. L’unico auspicio ragionevole è che la sensibilità culturale cresca e si diffonda sempre più, per consentire alle organizzazioni di porre in essere strategie di cambiamento e scelte tecnologiche coerenti con gli obiettivi da raggiungere.

3. Sempre più Cina nella ricerca manageriale

La velocità di diffusione di Internet e l’enfasi che caratterizza il dibattito sul cambiamento organizzativo richiedono un impegno adeguato sul fronte della ricerca. Come sottolineato da un recente saggio di Farh e colleghi7, la produzione scientifica di matrice organizzativa e manageriale dedicata alla realtà della Cina è frammentaria e incompleta. Non è raro imbattersi in risultati contrastanti. Spesso, poi, gli indicatori impiegati dai ricercatori (ancorché “tradotti” o “adattati”) originano in contesti culturali europei o nordamericani, il che suscita non pochi dubbi metodologici. Ad esempio: lo strumento scelto è in grado di rilevare effettivamente il concetto in questione? Quanto è corretto il livello di analisi prescelto? Davvero gli indicatori selezionati catturano le dimensioni culturali?

Farh e colleghi indicano due principali criteri che dovrebbero guidare la ricerca (sia di tipo quantitativo che qualitativo) dedicata alle specificità culturali del contesto cinese. Il primo criterio fa riferimento all’originalità del metodo d’indagine utilizzato. Quest’ultimo può essere del tutto nuovo (ossia creato appositamente) o, viceversa, derivare da un sistema preesistente. Il secondo criterio riguarda il grado di specificità del metodo di ricerca. L’ambito di applicazione di quest’ultimo può riferirsi strettamente alla realtà indagata (“emico”) oppure aspirare ad essere universale (“etico”). Ricordiamo che l’orientamento emico valorizza i concetti e le rappresentazioni della cultura e della società studiata, mentre l’orientamento di tipo etico punta sulle capacità osservative, astrattive e generalizzanti del soggetto esterno che osserva, considerandole garanzia di obiettività scientifica8.

La combinazione delle due dimensioni genera, come ovvio, quattro possibili approcci analitici: il primo, denominato “traduzione”, consiste nell’utilizzare per il contesto cinese un metodo già utilizzato in ricerche condotte in altri ambiti (tipicamente occidentali). L’approccio cosiddetto di “adattamento” si fonda sulla traduzione e successiva rielaborazione di un sistema preesistente. Il terzo approccio, decontestualizzazione”, prevede l’elaborazione di un metodo tarato specificamente sul contesto cinese, presupponendo che i parametri restino invariati anche se applicati altrove. Il quarto e ultimo approccio, “contestualizzazione”, consiste nello sviluppare un metodo valido per l’unità d’analisi considerata, assumendo che esso sia specifico della realtà socioculturale cinese e, in quanto tale, difficilmente “esportabile”. Va da sé che ciascuna delle quattro possibilità deve essere letta come costruzione generale e ipotetica, caratterizzata da propri punti di forza e di debolezza (il lettore interessato ad approfondire questi temi potrà utilmente riferirsi all’articolo originale qui citato).

Quello che preme sottolineare è che il lavoro condotto da Fahr e colleghi ha l’indubbio merito di mettere in luce il problema della frammentazione che caratterizza la ricerca manageriale dedicata alla Cina. Con altrettanta chiarezza questi studiosi affermano che la diversità culturale deve essere considerata un elemento irrinunciabile della ricerca in ambito organizzativo. L’articolo, inoltre, propone un duplice criterio che dovrebbe guidare la scelta dell’approccio più adatto per affrontare la complessa, e per molti versi unica, realtà cinese. Tale passo, a propria volta, è un punto di partenza imprescindibile per elaborare strumenti e leve di sviluppo organizzativo adeguati al contesto. Per contro, lo sforzo di riflessione dei ricercatori è incompiuto, nel senso che dal ragionamento manca qualsiasi proposta che faccia riferimento al ruolo dell’ICT e di Internet, quasi come se la tecnologia e le sue evoluzioni non contribuissero a creare nuovo potenziale culturale.

4. Conclusioni

L’ascesa della Cina sulla ribalta internazionale si accompagna con l’evoluzione incessante delle tecnologie e delle loro applicazioni. Internet è il motore che fornisce la base materiale per lo sviluppo di nuovi modi per comunicare, produrre e operare, come del resto dimostra l’ultima generazione di sistemi di collaborazione a distanza basati su protocollo IP.

Non siamo in grado di prevedere come questi fenomeni reciprocamente intrecciati si rapporteranno con le questioni legate al cultural divide. Manuel Castells9 ha riassunto quanto sta accadendo, osservando che quando la tecnologia allarga il campo dell’attività economica, e le imprese interagiscono su scala globale, le forme organizzative si diffondono, prendono a prestito l’una dall’altra e creano una miscela che risponde a modelli in larga misura comuni di produzione e concorrenza, pur adattandosi agli ambienti sociali in cui operano.

E neppure sappiamo se e in quale misura l’intensificarsi dei contatti con realtà organizzative transnazionali contribuirà a modellare i caratteri di quell’enorme laboratorio che è la Cina di oggi. Esiste una “via cinese” alla diffusione delle tecnologie dell’informazione nelle imprese e nella società? Quali modelli di progettazione, adozione e utilizzo dell’ICT tipicamente occidentali sono diventati patrimonio comune delle imprese cinesi, e quali invece non sono percorribili? In che misura Internet e il Web attuano una rottura rispetto ai valori dominanti nelle routines e nelle prassi lavorative? Si dischiudono scenari di ricerca ricchi e promettenti che attendono solo di essere esplorati e valorizzati.

5. Appendice - Gli studi organizzativi in Cina

In Cina la ricerca accademica sui temi dell’organizzazione può vantare una storia alquanto breve, comunque non superiore a 2 anni. Secondo un’analisi pubblicata nel 2004 dall’autorevole Organization Science 10, nell’ultimo ventennio il numero di articoli focalizzati esclusivamente su imprese della Repubblica popolare cinese (escludendo quindi Taiwan e Hong Kong) è triplicato. Gli studi descrivono soprattutto esperienze empiriche, mentre in due soli casi gli autori propongono nuove teorie. Considerata la specificità della Cina dal punto di vista culturale, sociale, storico e politico, moltissimo ancora resta da fare. Non esistono equivalenti cinesi di riviste scientifiche del calibro di Academy of Management Journal, Administrative Science Quarterly, Academy of Management Review e Organization Science. In parallelo, su queste stesse testate è progressivamente cresciuta la presenza di articoli e ricerche dedicati al gigante asiatico.

Il risveglio della ricerca cinese in campo organizzativo va attribuito a un rinnovato impegno sui terreni dell’informatica e della bioingegneria, accompagnato con un ridimensionamento del ruolo regolatore dello Stato. Secondo James March, professore emerito di Stanford, questi fattori di contesto fanno prevedere per la Cina una traiettoria di sviluppo degli studi organizzativi che si differenzierà dall’esperienza sia europea che nordamericana.

Come in ogni disciplina, l’evoluzione effettiva dipenderà dal trade-off tra continuità e cambiamento. Finora ha prevalso l’impiego di schemi teorici non originali, eventualmente corretti o adattati. Le apparenti somiglianze col mondo occidentale, che pure si possono riscontrare nello scenario cinese, hanno indotto i più a non allontanarsi dalle strade conosciute. Vi è il rischio concreto che anche in futuro i ricercatori cinesi più promettenti, desiderosi di pubblicare i propri lavori sulle riviste accademiche internazionali, siano attratti dalle scorciatoie anziché cimentarsi nella difficile sfida di riuscire a confutare gli schemi analitici presenti nella letteratura mainstream.

Lo sforzo di comprensione di qualsiasi realtà (e la Cina non fa eccezione) non può prescindere dall’osservazione diretta, ossia condotta sul campo. A questo scopo, la collaborazione con accademici locali favorisce i processi di trasmissione della conoscenza cosiddetta “profonda”. Altresì utile è il ruolo che, in questa direzione, possono rivestire i mediatori linguistico-culturali, figure alla cui formazione le università (come ad esempio quella di Milano) dedicano corsi di laurea specifici.

In sintesi, occorre un orientamento capace di miscelare, usando le parole di March11 , lo sfruttamento (exploitation) con l’esplorazione (exploration). Il ricercatore che usa abitualmente schemi teorici consolidati, sviluppati in contesti occidentali, può, in tempi abbastanza brevi, riuscire a pubblicare i risultati dei suoi studi sulle riviste internazionali. Ma basta tutto ciò per far avanzare la conoscenza che dovrà sperabilmente tradursi in modelli che tengano conto di quella peculiare “interazione tra cultura, storia e istituzioni” 12 alla base delle imprese cinesi? La risposta non può che essere negativa.

La strada dell’esplorazione è rischiosa, difficile e incerta. Tuttavia è altrettanto vero che la pura replica di percorsi noti rischia di non aggiungere nulla a quanto già si conosce. Per riuscire a trarre dalla ricerca spunti fruttuosi e originali (possibilmente dissonanti rispetto al mainstream), capaci poi di trovare applicazione pratica, occorre affrontare in modo creativo il dilemma di March. Un famoso libro del 2002 13 con una frase a effetto esortava i ricercatori ad impegnarsi per contestualizzare la conoscenza generale e per generalizzare la conoscenza di contesto.

MONDO CINESE N. 130, GENNAIO-MARZO 2007

Note

1 Citato in Richard L. Daft, Organizzazione aziendale (ed. italiana a cura di R.C.D. Nacamulli e D. Boldizzoni), Apogeo, Milano, 200 , p.360.
2 Pasquale Gagliardi, “Sviluppo organizzativo, cambiamento organizzativo e cambiamento culturale”, in C. Piccardo (a cura di) Sviluppo organizzativo. Stato dell’arte e nuove prospettive, Guerini e Associati, Milano, 99 , p. 9
3 Olivia Chung, “China’s overseas M&A challenge”, Asia Times Online, 2.3.07
4 “Bold fusion”, The Economist, febbraio 2007. L’occhiello dell’articolo recita: “William Amelio believes that cross-cultural thinking will turn Lenovo into China’s first successful global brand”.
A5 Citata da: www.zerounoweb.it
6 Kumiyo Nakakoji, “Beyond language translation: crossing the cultural divide”, IEEE Software, novembre 996, pp.42-46.
7 Jiing-Lih Fahr, Albert A. Cannella, Jr e Cynthia Lee, “Approaches to Scale Development in Chinese Management Research”, Management and Organization Review, vol.2, n.3, 2006, pp.30 -3 8.
8 I due termini vennero coniati negli anni ’ 50 dal linguista statunitense K. Pike, per analogia con fonemico e fonetico. La fonemica è lo studio dei rapporti strutturali tra i suoni di una lingua, mentre la fonetica è lo studio delle differenze formali (Sadi Marhaba, Enciclopedia di Filosofia, Garzanti, Milano, 2002, p.306).
9 Manuel Castells, La nascita della società in rete, Egea, Milano, 2002, p.204
10 A. S. Tsui, Claudia Bird Schoonhoven, Marshall W. Meyer, Chung-Ming Lau, George T. Milkovich, “Organization and Management in the Midst of Societal Transformation: The People’s Republic of China”, Organization Science, vol15. , n.2, 2004,
pp. 133- 144
11 James G. March, “Parochialism in the Evolution of a Research Community: The Case of Organization Studies”, Management and Organization Review, vol1. , n.1 , 2004, pp. -522.
12 Manuel Castells, La nascita della società in rete, Egea, Milano, 2002, p.205 .
13 A.S. Tsui, C. M. Lau, The management of enterprises in the People’s Republic of China, Kluwer Academic Publisher, Boston, 2002

 

 

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