1. La visita di Abe a Pechino
L’8 ottobre 2006 il neo eletto Primo ministro Abe Shinzô si è
recato a Pechino per una visita ufficiale, che ha rappresentato
una novità assoluta nella storia della diplomazia giapponese dal
1945 ad oggi. Infatti, per la prima volta un leader giapponese ha scelto
la Repubblica popolare cinese come destinazione del suo primo viaggio
ufficiale all’estero. Fino a quel momento era tradizione che per il suo
primo viaggio il neo eletto Primo ministro si recasse a Washington,
a rendere omaggio all’alleato americano, garante della sicurezza del
paese. La scelta di Abe è dunque un segnale chiaro ed inequivocabile
che, nonostante le recenti tensioni ed incomprensioni, il rapporto con
la Cina è di fondamentale importanza per il Giappone. Per Abe, politico
conservatore e nazionalista, le differenze ideologiche, la diversità dei
sistemi, il contenzioso territoriale e le diverse interpretazioni della
storia non devono precludere né il dialogo né lo sviluppo delle
relazioni tra due economie sempre più integrate e interdipendenti.
Posizione condivisa, del resto, anche dai dirigenti cinesi, che hanno
mostrato di apprezzare la decisione di Abe. Lo conferma la grande
attenzione dedicata all’ospite giapponese che, nello stesso giorno in
cui si svolgeva a Pechino la sessione plenaria del Comitato Centrale
del Pcc, ha potuto incontrare il Presidente Hu Jintao, il Primo ministro
Wen Jiabao e Wu Bangguo, il Presidente del Comitato permanente
dell’Assemblea nazionale del popolo.
Lo confermano anche il tono e le espressioni usate nei colloqui
e nelle dichiarazioni ufficiali. Per la prima volta le due parti hanno
parlato di “relazione strategica”, accantonando il più generico termine
di “amicizia” sinora usato con riferimento ai rapporti tra i due paesi.
Le due parti hanno inoltre espresso l’intenzione di accelerare i
negoziati sulle modalità di sfruttamento delle risorse naturali nelle
acque contese del Mare della Cina Orientale1, una delle più spinose
ed economicamente rilevanti questioni bilaterali sulla quale da più di
un anno non si registravano progressi.
Dopo il gelo degli anni del governo Koizumi le relazioni politiche
tra i due paesi sono dunque tornate ad essere per lo meno normali.
Siamo però di fronte ad una svolta autentica? E come si può conciliare
il nazionalismo del nuovo Primo ministro con il tentativo di allacciare
più strette relazioni con la Repubblica popolare? A queste domande
si cercherà di dare una risposta analizzando, in primo luogo, l’eredità
lasciata da Koizumi e, nella seconda parte, il retroterra politico
e culturale del nuovo Primo ministro, il suo programma e le sue
idee, esposte tra l’altro in un agile volume pubblicato nel luglio di
quest’anno, poco prima dell’elezione di Abe a Presidente del Partito
liberaldemocratico (PLD) e a capo del governo2.
2. L’eredità di Koizumi Jun’ichirô
Nei cinque anni (2001-2006) dei governi presieduti da Koizumi
le relazioni sino-giapponesi hanno registrato una forte crescita
dell’interscambio commerciale e dei flussi di investimenti, accompagnata
però da un assoluto gelo politico.
Il commercio tra i due paesi è infatti più che raddoppiato, passando
dagli 89 miliardi di dollari del 2001 ai 189 miliardi del 20053. La
Repubblica popolare cinese è così diventata il secondo partner
commerciale del Giappone con transazioni per un ammontare di
poco inferiore a quello con gli Stati Uniti e superiore ai 170 miliardi
dell’interscambio con i venticinque paesi dell’Unione Europea4. La
crescita ha riguardato sia le importazioni giapponesi, aumentate
notevolmente nel corso del quinquennio, sia le esportazioni, passate
da 31 a 80 miliardi di dollari. Si noti che il Giappone registra un
deficit nel commercio con la Rpc. Tuttavia, se si considera anche
l’interscambio commerciale con Hong Kong e Taiwan, territori dal
quale transita una parte considerevole delle esportazioni giapponesi
destinate in Cina, il disavanzo scompare e si trasforma in un surplus
che nel 2005 ha raggiunto i 60 miliardi5. Appare dunque evidente
come lo sviluppo economico della Cina sia di assoluta rilevanza
per l’economia del Giappone, che proprio grazie al traino della
domanda cinese ha potuto superare la lunga stagnazione degli anni
Novanta.
Inoltre, la Cina ha attratto nel corso di questi anni un flusso
costante e crescente di investimenti diretti giapponesi, più che
triplicati tra il 2001 e il 2005, anno in cui il valore degli investimenti
è stato pari a 6,6 miliardi di dollari con un incremento del 12%
rispetto all’anno precedente6. Cina e Giappone sono a tutti gli effetti
due economie integrate e complementari tra loro nell’ambito di
una divisione del lavoro che, in questa fase, assegna al Giappone
il ruolo di produttore di prodotti e componenti tecnologicamente
avanzati, mentre nella Rpc si svolgono prevalentemente attività di
assemblaggio e di produzione di prodotti ad alta intensità di lavoro:
divisione del lavoro e cooperazione industriale di cui beneficiano
ampiamente entrambi i paesi.
Ciò nonostante e in netta controtendenza rispetto ai rapporti
economici, le relazioni politiche negli anni di Koizumi hanno
raggiunto il punto più basso mai toccato sin dal 1978, anno in cui fu
firmato il Trattato di pace e di amicizia bilaterale. In particolare, dal
2002 non hanno avuto luogo incontri al vertice, se non al margine
di riunioni multilaterali, mentre si sono verificati numerosi incidenti
diplomatici, più o meno gravi7, che hanno contribuito ad alimentare
la tensione, sfociata nelle manifestazioni antigiapponesi organizzate
nelle principali città cinesi nella primavera del 2005.
Il peggioramento delle relazioni tra i due governi ha influito
negativamente anche sulla percezione che i giapponesi hanno
della Cina, come risulta da numerose ricerche sull’orientamento
dell’opinione pubblica. Secondo l’indagine dell’Ufficio del Gabinetto,
nell’ottobre 2005 solo il 32,4% degli intervistati “provava simpatia”
(tanoshimi o kanjiru) nei confronti della Repubblica popolare: la
percentuale più bassa dal 1978, quando fu realizzata la prima inchiesta.
E solo il 19,7% definiva buone o accettabili le relazioni con Pechino8.
Un’altra indagine del quotidiano Yomiuri e della Gallup della fine
del 2004 mostra che sette giapponesi su dieci non si fidavano della
Cina9. Risultati che indicano quanto si fossero deteriorate le relazioni
non solo tra i governi, ma purtroppo anche tra i cittadini, visto che
analoga tendenza si stava diffondendo anche tra la popolazione
cinese: una mancanza di fiducia reciproca che contribuiva ad acuire
i conflitti anziché risolverli.
Alle origini delle tensioni vi erano e vi sono una pluralità di fattori,
alcuni contingenti, altri strutturali, che costituiscono un serio ostacolo
alla cooperazione e allo sviluppo di più intense relazioni politiche.
In estrema sintesi, le cause spaziano dal contenzioso territoriale
riguardante le isole Senkaku, in giapponese, o Diaoyu, in cinese10,
alla già ricordata disputa relativa ai diritti di sfruttamento dei ricchi
giacimenti sottomarini di gas naturale che si trovano in una zona
contesa del Mare della Cina Orientale, dalla diversa interpretazione
della storia11 sino al problema dei compensi alle vittime del
militarismo giapponese, dalle questioni strategiche riguardanti Taiwan
e il ruolo del Giappone nell’ambito dell’alleanza con gli Stati Uniti
alle divergenze sulla Corea del nord, dalle diverse posizioni in merito
alla riforma del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite alla rivalità
tra due paesi che ambiscono a guidare il processo di integrazione
regionale in Asia.
Tuttavia, la causa determinante, l’elemento catalizzatore delle
tensioni è stata la scelta di Koizumi di recarsi più volte nel corso
del suo mandato al sacrario di Yasukuni, il luogo di culto scintoista
dove sono onorati i caduti giapponesi, nonché, dal 1978, 14 militari
e uomini politici condannati come criminali di guerra di classe A dal
Tribunale Internazionale Militare per l’Estremo Oriente (noto anche
come “Tribunale di Tokyo”). Le visite del Primo ministro ad un luogo
simbolo del militarismo giapponese hanno puntualmente provocato
le reazioni indignate della Cina e della Corea del sud. Per i dirigenti
cinesi e coreani è inaccettabile che il Primo ministro di un paese,
che ha formalmente riconosciuto e accettato il verdetto del Tribunale
Internazionale, possa recarsi a pregare ad un sacrario shintoista che
accoglie criminali di guerra di prima classe. Poi, ovviamente, subentra
anche il calcolo politico. Le visite al sacrario offrono infatti un’altra
occasione, un altro pretesto per criticare il governo giapponese
e indebolirne la posizione negoziale nell’ambito della complessa
partita a scacchi che si sta giocando in Asia orientale. Sta di fatto
che le proteste cinesi e coreane sono rimaste inascoltate. Koizumi
ha continuato imperterrito12, anno dopo anno, a recarsi a Yasukuni,
nonostante i danni provocati dalla sua decisione e nonostante che
importanti settori dell’establishment politico e finanziario, e quasi tutti
i principali quotidiani lo sconsigliavano dal farlo. Non ha fermato il
Primo ministro nemmeno il non proprio casuale ritrovamento, a luglio
del 2006, degli appunti di un alto funzionario della casa imperiale,
da cui risulta che l’imperatore Hirohito aveva interrotto le visite al
sacrario dopo il 1978, poiché riteneva che le autorità religiose avessero
commesso un errore includendo i criminali di guerra nell’elenco delle
persone onorate a Yasukuni13 . Ciò nonostante, pochi mesi dopo
la clamorosa rivelazione, Koizumi ha deciso di recarsi al sacrario
proprio in occasione dell’anniversario della fine del conflitto, il 15
agosto 2006, e ad un mese dalla fine del suo mandato. Quest’ultima
volta, però, senza suscitare reazioni particolarmente aspre da parte
del governo cinese, che evidentemente non ha voluto attribuire
troppa importanza al gesto del Primo ministro uscente, preferendo
concentrare l’attenzione sulle decisioni del suo successore.
3. L’ingresso in scena di Abe Shinzô
Con questa difficile eredità, si è dovuto e si deve confrontare il
nuovo premier, Abe Shinzô, che il 26 settembre ha sostituito Koizumi.
Convinto nazionalista, Abe condivide molte delle idee di Koizumi, di
cui è stato portavoce fino al recente passaggio di consegne. Tuttavia,
Abe sembra aver ereditato dal padre, ministro degli Esteri negli anni
Ottanta, non solo la determinazione a difendere gli interessi nazionali,
ma anche la sensibilità e la duttilità del diplomatico. Politico di
terza generazione, Abe è del resto l’erede di una delle più potenti e
influenti dinastie di politici conservatori. Il nonno, Nobusuke Kishi, fu
ministro del Commercio nel governo di Tôjô Hideki, il generale che
lanciò l’attacco a Pearl Harbor14, e dal 1957 al 1960 Primo ministro.
Ultraconservatore, anticomunista e fervente nazionalista, Kishi riuscì
a far approvare la revisione di alcune delle riforme democratiche
introdotte durante l’occupazione, ma non riuscì a realizzare il suo
progetto più ambizioso: la revisione della Costituzione.
Il padre dell’attuale premier, Abe Shintarô, è stato invece
ministro degli Esteri nel governo di Nakasone dal 1982 al 1986.
Molto probabilmente sarebbe diventato Primo ministro se non
fosse prematuramente scomparso nel 1991, lasciando, come spesso
accade in Giappone, il suo collegio elettorale “in eredità” al figlio. Il
giovane Abe entrò in politica nel 1982 a fianco del padre. Nel 1993
fu eletto per la prima volta alla Camera bassa come rappresentante
della regione di Yamaguchi, dove si trova il collegio “di famiglia”.
Seguirono altri importanti incarichi, tra cui quello di segretario
generale del PLD e, nell’ottobre 2005, quello di capo di Gabinetto
e portavoce del governo Koizumi, posizione che gli ha dato grande
visibilità e notorietà.
La popolarità di Abe risale comunque al 2002, quando sostenne,
con grande determinazione, la linea intransigente nell’ambito
dei negoziati con la Corea del nord per il rilascio dei cittadini
giapponesi rapiti negli anni Settanta e Ottanta dalla polizia segreta
nordcoreana. La risolutezza e l’impegno mostrati in quel frangente
gli valsero l’appoggio non solo dell’ala conservatrice del partito ma
anche di larga parte dell’opinione pubblica, scossa dalle clamorose
rivelazioni sui rapimenti organizzati dal regime della Corea del
nord e, va aggiunto, abilmente manipolata dal governo. Grazie al
consenso popolare Abe si è affermato come il candidato più forte
alla successione di Koizumi e, come da programma, il 20 settembre
è stato eletto con un’ampia maggioranza alla carica di Presidente del
PLD e successivamente, il 26 settembre, a quella di Primo ministro.
Il nuovo governo ha adottato un programma riformatore di stampo
conservatore e liberista con l’aggiunta di un generico richiamo
alla giustizia sociale. In questa prima fase, gli obiettivi principali,
perseguiti con determinazione, sono stati la revisione delle politiche
dell’istruzione e il riordino dell’assetto istituzionale concernente la
politica di sicurezza. Relativamente al primo punto, il 15 dicembre la
Dieta, il parlamento giapponese, ha emendato la Legge Fondamentale
sull’Istruzione (Kyôiku kihonhô). La revisione mira a trasferire il
potere di controllo e indirizzo dalle strutture periferiche a quelle del
governo centrale, nonché a promuovere l’adozione di programmi
che rafforzino l’identità nazionale e lo spirito patriottico. Per quanto
riguarda invece gli assetti istituzionali della difesa, la Dieta ha
recentemente approvato la trasformazione e l’upgrading dell’Agenzia
per la difesa (Bôeichô) in Ministero della difesa (Bôeishô).
Abe, che evidentemente ritiene di poter rimanere a lungo alla
guida del paese, si propone però di raggiungere un obiettivo ben più
ambizioso: quella revisione della Costituzione che non riuscì a suo
nonno. In particolare, intende modificare quella parte dell’articolo
9, la cosiddetta clausola pacifista, che in teoria dovrebbe impedire
al Giappone di disporre di forze armate, anche se, com’è noto, i
funambolismi interpretativi del dettato costituzionale hanno permesso
al Giappone di dotarsi di un esercito, le Forze di Autodifesa (Jieitai),
che dispone di quasi 240.000 effettivi.
Il programma governativo, le scelte sinora compiute e la
composizione stessa della compagine ministeriale (molti ministri e
consiglieri del Primo ministro sono membri della Nippon Kaigi, la
più importante organizzazione della destra nazionalista giapponese)
hanno portato alcuni osservatori a denunciare la possibilità di un
ritorno al passato, di una deriva nazionalista e per alcuni addirittura
militarista, che porterebbe all’isolamento del Giappone in Asia e non
solo in Asia15. In realtà, sui temi più delicati e controversi dell’agenda
di politica estera Abe ha adottato fino a questo momento una linea
pragmatica e realista, che in alcuni casi lo ha portato a rivedere le sue
posizioni, e per questo è stato criticato dai suoi sostenitori. Questo
approccio, orientato alla cautela e al dialogo, è particolarmente
evidente nelle dichiarazioni e nelle prese di posizioni riguardanti i
rapporti con la Cina.
4. Le posizioni di Abe
Per l’Abe nazionalista non deve essere stato facile, ma
recentemente ha modificato la sua posizione in merito a due
questioni particolarmente controverse: la dichiarazione di Kôno
Yôhei, leader liberaldemocratico che nel 1993, quando era capo di
Gabinetto, espresse scuse ufficiali per il reclutamento forzoso da
parte dell’esercito imperiale giapponese delle comfort women, donne
cinesi e coreane costrette a prostituirsi, e le scuse che nel 1995
l’allora Primo ministro Murayama rivolse alle popolazioni dei paesi
vittime della colonizzazione e dell’aggressione militare giapponese.
In passato, Abe aveva criticato le dichiarazioni di Kôno e Murayama,
considerate due esempi di una lettura della storia “autolesionista e
masochista” (in giapponese jikyaku shikan). Nel corso del dibattito
parlamentare che ha preceduto il suo storico viaggio a Pechino ha
invece dichiarato di ritenerle tuttora valide, suscitando sorpresa e
sconcerto tra i suoi stessi collaboratori16. Questa posizione Abe l’ha
ribadita nei colloqui con Hu Jintao, citando parte della dichiarazione
Murayama17.
Sulla cruciale questione di Yasukuni Abe ha preferito mantenere
invece una posizione ambigua, dichiarando al Presidente cinese che
“intende agire in modo opportuno”, formula che lascia spazio alle più
svariate interpretazioni e ha permesso ad Abe di “salvare la faccia”. Si
è trattato comunque di un passo indietro per Abe, che in passato si è
spesso recato al sacrario; l’ultima volta, in forma semiclandestina, il
15 aprile 2006. Inoltre, nel suo libro sostiene la tesi che la scelta del
Primo ministro di come onorare i caduti è un problema di politica
interna sul quale gli altri paesi non hanno diritto di interferire. E
con una complessa disquisizione storica e giuridica, che evidenzia le
contraddizioni della politica giapponese, Abe difende anche il diritto
di onorare la memoria dei criminali di guerra, affermando, tra l’altro,
che in base alla legge giapponese non si possono considerare come
tali18. Tuttavia, nelle conferenze stampa dopo la sua nomina a Primo
ministro ha preferito glissare sull’argomento, rifiutandosi di dare una
risposta precisa ai giornalisti che lo incalzavano a proposito della sua
intenzione di visitare o meno il sacrario19. E si è guardato bene anche
dall’impegnarsi pubblicamente, come invece aveva fatto Koizumi.
È evidente che Abe non vuole che l’annosa questione interferisca
nelle relazioni con i paesi vicini. Abe potrebbe riservarsi il diritto di
visitare il sacrario, ma poi nei fatti evitare di esercitarlo. In ogni caso
è assai improbabile che visiti Yasukuni prima delle elezioni parziali
della Camera alta, previste per il mese di luglio del 2007: elezioni
decisive per consolidare il suo potere. Per vincerle Abe ha bisogno
del sostegno del mondo economico, che giustamente attribuisce
primaria importanza al mantenimento di buone relazioni con la Cina
e gli altri paesi della regione. Lo richiede anche il Kômeitô il partito
di ispirazione buddhista e vagamente pacifista, che con il PLD ha
contribuito alla formazione del governo: un partito relativamente
piccolo ma essenziale per la maggioranza alla Camera alta. Infine,
sulla scelta di Abe di non assumere una posizione precisa avrebbe
influito anche l’atteggiamento critico di parte del Congresso e
dell’establishment americani. Decisivi sarebbero stati i commenti di
Richard Armitage, già vice segretario di Stato e principale artefice
del rafforzamento dei rapporti bilaterali, che nel luglio 2006 ha
espresso le sue critiche nei confronti del materiale sulla seconda
guerra mondiale esposto al museo annesso a Yasukuni20. Del resto
gli americani non solo non possono accettare una lettura della
storia che giustifichi l’aggressione giapponese a Pearl Harbor, ma
ritengono anche che l’alleanza con un Giappone isolato, incapace di
dialogare con i paesi della regione non sia nell’interesse nazionale
degli Stati Uniti.
Le relazioni con Pechino sono in ogni caso troppo importanti
per Abe e per il suo governo. Lo sostiene anche nel suo libro.
Pur criticando il nazionalismo cinese e in particolare la politica
dell’istruzione che diffonde tra i giovani sentimenti antigiapponesi,
Abe afferma che “per il Giappone mantenere relazioni d’amicizia
con la Cina è estremamente importante non solo dal punto di vista
economico, ma anche dal punto di vista della sicurezza”21. Certo, i
problemi sul tappeto sono molti e di non facile soluzione ma Abe
cercherà di far leva sugli ingenti interessi economici che inducono
a rinsaldare i rapporti e a trovare una soluzione anche alle più
delicate questioni politiche. In ciò dovrebbe poter contare anche
sulla leadership cinese e in particolare su Hu Jintao, che, secondo
fonti giapponesi, auspicherebbe un miglioramento dei rapporti
bilaterali ora che ha consolidato il suo potere22.
Il riavvicinamento alla Cina non implica però una modifica e
tanto meno un declassamento dei rapporti con gli Stati Uniti. Al
contrario. Abe è un convinto sostenitore dell’alleanza, da lui definita
“indispensabile” (fukaketsu) e “la migliore opzione” (besuto no
sentaku)23. Per il suo governo, il legame con Washington rappresenta
un solido contrappeso, una polizza assicurativa che consente al
Giappone di dialogare e negoziare da posizioni di relativa forza
in un contesto come quello dell’Asia orientale, dove – non si deve
dimenticare – la guerra fredda non è ancora terminata. A questa
copertura Abe non intende rinunciare. In altre parole, mentre
sviluppa i rapporti economici con Pechino e l’Asia, il governo intende
mantenere ben saldo il legame con il tradizionale alleato.
5. Conclusioni
Riuscirà Abe a realizzare il suo progetto e a ristabilire buone
relazioni con la Repubblica popolare? Innanzi tutto bisogna vedere se
Abe riuscirà a rimanere in sella. Negli ultimi tempi Abe è apparso in
difficoltà su diversi fronti e la sua popolarità è diminuita sensibilmente24.
In particolare, il realismo in politica estera dell’Abe Primo ministro
rischia di fargli perdere il sostegno delle organizzazioni della destra
nazionalista che l’hanno sin qui appoggiato. Alcuni critici mettono
poi in dubbio la sua capacità di esercitare una reale leadership. La
sua giovane età (Abe ha cinquantadue anni) e la relativa mancanza di
esperienza - elementi ancora importanti in un paese e in un mondo
politico permeati da idee e valori confuciani – stanno diventando un
problema25. In alcuni momenti Abe è sembrato debole e incapace di
controllare i suoi stessi ministri. Abe ha inoltre commesso dei gravi
errori nella selezione di alcuni collaboratori. Il ministro per le riforme
amministrative ha dovuto dare le dimissioni per uso improprio di fondi,
mentre un economista personalmente scelto da Abe per presiedere
la cruciale Commissione Fiscale si è dimesso per comportamenti
eticamente censurabili. Paradossalmente ancora una volta il paese che
più disprezza, la Corea del nord, lo sta aiutando. Con la sua retorica e
le sue azioni, che minacciano la sicurezza del Giappone, la Corea di
Kim Jong-il ha infatti offerto ad Abe la possibilità di assumere il ruolo
a lui più consono: quello del leader determinato, pronto a difendere
l’interesse nazionale.
Come s’è già accennato, per continuare a governare Abe deve
comunque vincere le prossime elezioni per il rinnovo di metà dei
seggi della Camera alta, che avranno luogo nel luglio 2007. Nella
precedente elezione il PLD aveva ottenuto un notevole successo di voti
e di seggi grazie alla popolarità di Koizumi. Ora il partito punta su Abe
per mantenere e possibilmente incrementare il vantaggio, cruciale in
quanto alla Camera alta il governo dispone di una risicata maggioranza.
Se non dovesse riuscire a conseguire l’obiettivo è pressoché certo che
le correnti rivali addosseranno la responsabilità al Primo ministro e
ne chiederanno la testa.
Tuttavia, la politica di dialogo con la Cina non finirà con l’eventuale
cambio di governo. Gli ingenti interessi in gioco e il grado di
interdipendenza economica sono tali che i due paesi finirebbero col
pagare un prezzo molto, troppo alto se scegliessero la via del confronto.
E, come sanno bene gli imprenditori giapponesi, il prezzo più alto
quasi certamente lo pagherebbe il Giappone.
MONDO CINESE N. 129,
OTTOBRE-DICEMBRE 2006
Note
1 The Nikkei Weekly, 16 ottobre 2006, p. 1
2 Abe Shinzô, Utsukushii kuni e (Verso una bella nazione), Bungei Shunjô,
Tokyo,
2006.
3 I dati sul commercio estero sono tratti da:
http://www.jetro.go.jp/jpn/stats/data/
pdf/trade2005.pdf; i dati sugli investimenti diretti all’estero da:
http://www.jetro.
go.jp/en/stats/statistics/bpfdi_01_e.xls.
4 La Rpc diventa il primo partner commerciale del Giappone se si include
l’interscambio
con la Regione Amministrativa Speciale di Hong Kong.
5 Nel 2005 il disavanzo con la Rpc è stato di 29 miliardi di dollari, ma il
surplus con
Taiwan fu pari a 26 miliardi e nel caso di Hong Kong fu di addirittura 34
miliardi.
6
Gli ultimi dati disponibili indicano, però, un calo degli investimenti nei
primi dieci
mesi del 2006 in parte dovuto alle politiche più selettive adottate dal governo
cinese (si veda The Nikkei Weekly, 11 dicembre 2006, p. 33).
7 Uno degli episodi più eclatanti nella guerra dei nervi sino-giapponese fu l’improvvisa
cancellazione dell’incontro con Koizumi da parte del Vice premier cinese
Wu Yi, programmato per il 23 maggio 2005 a Tokyo (The Nikkei Weekly, 30
maggio 2005, p. 2).
8 I risultati dell’indagine sono disponibili su: http://www8.cao.go.jp/survey/h17/
h17-gaikou/3.html
9 The Nikkei Weekly, 17 gennaio 2005, p. 29.
10 Le isole Senkaku sono cinque piccole isole disabitate, che coprono un’area complessiva
di circa 7 km2. Sono separate dall’arcipelago giapponese delle Ryôkyô
da un profondo canale che, secondo la Cina, segnerebbe il vero confine.
11 Nel 2005 Pechino ha criticato l’approvazione da parte del Ministero della Pubblica
Istruzione giapponese di alcuni libri di testo per la scuola media, sostenendo
che presentavano una versione incompleta e distorta dell’ultimo conflitto e, in
particolare, del massacro di Nanchino. In verità, anche il libro più controverso ne
parla, ricordando che “un gran numero di soldati e civili cinesi furono uccisi e
feriti dall’esercito imperiale giapponese”. Atarashii rekishi kyôkasho, Tokyo,
2001, pp. 270 e 295. Il testo non parla però di massacro (gyakusatsu), ma usa il
termine ambiguo di incidente (jiken), senza fare nessun riferimento specifico al
numero delle vittime. Tale versione ha provocato le proteste ufficiali del governo
cinese e per due settimane, tra il 9 e il 17 aprile, le già ricordate manifestazioni
da parte di migliaia di cinesi nelle strade di Pechino e di altre città.
12 Un giornalista del Nikkei ha scritto che Koizumi è rimasto fermo sulle sue posizioni
“con l’ostinazione di un mulo”. The Nikkei Weekly, 16 gennaio 2006, p. 30.
13 The Nikkei Weekly, 24 luglio 2006, p. 7.
14 Per le sue attività come ministro del Gabinetto Tôjô, Kishi fu arrestato nell’immediato
dopoguerra con l’accusa di essere un criminale di classe A, ma non fu mai
incriminato.
15 Si veda, per esempio, l’articolo d Ignacio Ramonet su Le Monde Diplomatique di
novembre 2006.
16 Sentaku, novembre 2006, p. 54.
17 Foreign Press Center, Japan Brief, n.0674, 9 ottobre 2006.
18 Abe Shinzô, op. cit., pp. 66-74.
19 Sentaku, settembre 2006, p. 46
20 Si veda Sentaku, novembre 2006, p. 55.
21 Abe Shinzô, op. cit., p. 151.
22
The Nikkei Weekly, 28 agosto 2006.
23 Abe Shinzô, op. cit., p. 129.
24 Secondo un sondaggio dell’Asahi Shinbun, il principale quotidiano giapponese,
la percentuale di coloro che appoggiano Abe è scesa al 47%, un livello ancora
molto alto, ma decisamente inferiore rispetto al 63% registrato a fine settembre.
(Dati disponibili su: http://www.asahi.com/english/Herald-asahi/TKY200612120159.html).
25 Per alcuni la giovane età di Abe rappresenta un elemento nuovo e positivo in un
sistema politico ancora oggi dominato da leader anziani. Per altri, però, costituisce
un fattore di debolezza, che sommato alla relativa inesperienza – Abe non è
mai stato a capo di un dicastero – lo rendono poco adatto a governare il paese.
Si veda per esempio l’opinione di Iwami Tako, influente commentatore politico
in Sentaku, ottobre 2006, p. 3.
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