1. Una dimenticanza voluta
“La società reclama un risarcimento per coloro che sono stati
danneggiati durante la Rivoluzione culturale1” , e “Il Partito
comunista proibisce tassativamente di commemorare la
Rivoluzione culturale”2: sono questi, nell’ordine, i titoli dei due articoli
con cui il mensile cinese di Hong Kong, Zhengming, apre il numero di
maggio di quest’anno. Numero che è dedicato in gran parte proprio a
questo difficile tema: forse, ad oggi, ancora il più controverso e scomodo,
perché malgrado l’apparente rimozione che sembra provocata dalla
furiosa rapidità dei cambiamenti di questi anni, ne resta, dolorosa, la
memoria delle ferite, e restano le cicatrici che quegli anni hanno lasciato
nel profondo delle famiglie cinesi.
Apprendiamo così, dal primo testo, che fin dall’inizio di quest’anno
alcuni esponenti dei “partiti democratici, di ogni ambiente sociale, e una
parte dei membri del partito hanno proposto la costituzione di un Fondo
nazionale (guojia jijin) da destinarsi al risarcimento economico delle
vittime, e che successivamente, durante la riunione annuale dell’Assemblea
nazionale del popolo, lo scorso marzo, hanno presentato una proposta
in tre punti: 1) Convocare una Conferenza al alto livello per una nuova
riflessione (fansi) sulla Rivoluzione culturale; 2) Edificare mausolei e
monumenti commemorativi che servano come monito e stimolo per
educare il popolo e riformulare la storia del partito; 3) Costituire un
fondo per il risarcimento economico alle persone o ai familiari di coloro
persero la vita o rimasero mutilati”3. Si tratta di richieste che non suonano
certo nuove. L’idea di costruire un Museo della Rivoluzione culturale,
ad esempio, era stata espressa a più riprese fin dai primi anni ’80 da Ba
Jin4, e di recente anche la stampa occidentale ha riferito dell’esistenza
nel Guangdong di un piccolo edificio commemorativo, costruito con
fondi privati, che raccoglie oggetti, fotografie e testimonianze di quegli
anni5, il tutto senza alcuna autorizzazione da parte del governo centrale.
Riprendendo la lettura dell’articolo cinese leggiamo inoltre che, già dal
1982, al XII Congresso del Pcc, era stato lo stesso Peng Zhen6, una delle
prime “vittime” di quei dieci anni, ad elaborare una proposta per la
costituzione di un “Fondo nazionale per il risarcimento economico alle
vittime della Rivoluzione culturale”, e la proposta - che viene nell’articolo
citato descritta nel dettaglio - era stata allora appoggiata da Chen Yun7
e da altri dirigenti di spicco, ma si era poi arenata proprio per difficoltà
di tipo economico. “Oggi, proprio in occasione del quarantesimo
anniversario dell’inizio della Rivoluzione culturale e del trentesimo della
sua conclusione, si fa pressante da parte della società la richiesta di
risarcire le vittime di quel periodo proprio perché oggi, a distanza di
trent’anni, i tempi, le condizioni e la situazione sono opportuni, al fine
di costruire insieme una ‘società armoniosa’”8. Evidente è il legame che
viene istituito tra la necessità pressante di “fare i conti” - e in senso reale,
economico, al di fuori di ogni metafora - con quel difficile passato e la
“costruzione di una società armoniosa”, una delle formule chiave della
dirigenza di Hu Jintao9. Una richiesta di “fare i conti” nel vero senso
dell’espressione, e non solo di discutere, rivedere, rivalutare (fansi):
mettere mano al portafoglio, oggi che finalmente il denaro circola davvero,
per risarcire tanto i familiari delle vittime che coloro che avevano perso
case, beni e proprietà, e che dopo l’inizio delle riforme erano stati solo
in minima parte risarciti.
Che i tempi, invece, non siano ancora affatto maturi in tal senso appare
evidente dall’articolo successivo, sempre a firma del medesimo autore,
quel Luo Bing che da anni costituisce una delle colonne del mensile
Zhengming, e sulla cui autorevolezza e affidabilità delle fonti citate pochi
dubitano. Il tassativo divieto di qualunque commemorazione ufficiale,
malgrado le “più di tremila petizioni presentate da diverse personalità
del partito, della politica, dell’esercito e dell’accademia”10, come recita
l’occhiello del titolo, sembra sia maturato in questi ultimi mesi. Il progetto
che dopo il 5° Comitato centrale del XVI Congresso del Pcc dello scorso
autunno alcuni dei “veterani” della dirigenza, tra cui Wang Li e Wang
Guangmei, avevano formulato poteva infatti costituire un pericolo:
oltre alla organizzazione di attività commemorative come Conferenze e
convegni sponsorizzati dal governo e dal partito, e oltre alla costruzione
di Mausolei e monumenti commemorativi in varie zone del paese, il
progetto prevedeva infatti anche la pubblicazione di una nuova storia
della Rivoluzione culturale e una “nuova valutazione critica” (chongxing
pingjia) di tutta la vita politica di Mao Zedong.
All’inizio di quest’anno un’altra proposta era stata formulata da altri
autorevoli veterani, come Peng Chong e il generale Yang Baibing: le
attività commemorative dovevano prevedere anche la produzione di un
documentario e la costruzione di Mausolei e monumenti commemorativi
in tutte le principali città del Paese in cui la Rivoluzione culturale si era
sviluppata con maggiore violenza.
A Zeng Qinghong, in qualità di membro dell’Ufficio di segreteria
del Comitato centrale del Pcc, era toccato il compito, nel febbraio di
quest’anno di rispondere: “Attualmente dobbiamo stare ben attenti a
non essere parziali e influenzare in tal modo la situazione generale. E
c’è ancora un altro problema scottante, la valutazione della posizione
storica di Mao Zedong. Perciò l’opinione del Comitato centrale è quella
di non organizzare alcuna attività di riflessione critica (fansi) e di
commemorazione (jinian)”11.
Per le medesime motivazioni, anche a successive petizioni presentate
in occasione della annuale sessione plenaria dell’Assemblea del popolo
e della Conferenza politica consultiva e firmate da intellettuali di spicco
quali lo scrittore Zhang Xianliang, aveva risposto Jia Qinglin, il Presidente
della Conferenza politica consultiva, confermando il medesimo, tassativo
divieto. Divieto che era poi stato ulteriormente ribadito da circolari interne,
assolutamente unanimi, da parte dell’Ufficio stampa del Consiglio di
stato, del Dipartimento Propaganda, del Ministero per la sicurezza, e che
quindi non lasciava il minimo spiraglio per qualunque attività ufficiale
sia a livello centrale che locale.
2. Attività “popolari”
Se la voce dell’ufficialità sembra quindi ancora oggi su questo argomento
tuonare in maniera assolutamente univoca, notizie di attività di tipo non
ufficiale (minjian, letter. “popolare” è il termine che identifica tutto
quello che non ha il crisma dell’autorizzazione governativa, antonimo di
guanfang “di parte governativa”) vengono registrate anche dal Notiziario
interno (Nei can) dell’agenzia di stampa Xinhua, che conferma anche
che “presso le Scuole di partito l’argomento desta un profondo interesse,
e sono stati costituiti dei gruppi di ricerca e documentazione”12.
Com’è noto, più che tollerato, anzi quasi incoraggiato è da tempo
lo sviluppo di attività “popolari” redditizie, come il gran commercio di
oggettistica, manifesti e memorabilia di diverso tipo, che contribuiscono
alla costituzione di un immaginario colorato e naif, nostalgico e tutto
sommato non pericoloso13 dove le memorie del passato giungono ormai
stemperate attraverso i colori del ricordo personale, o iniziative come
la recentissima (agosto 2006) mostra fotografica “Images of the Cultural
Revolution”, che Chen Guanjun ha organizzato nella “798 Photo Gallery”,
mostrando per la prima volta in pubblico a Pechino testimonianze
fotografiche non vistate dalla propaganda ufficiale sugli anni 1966-6714.
3. Un Convegno clandestino in Cina
Tra le attività non solo “popolari”, ma decisamente “clandestine”
(dixia, “sotterranee”) invece, la rivista Zhengming colloca un convegno
commemorativo che, malgrado il citato divieto ufficiale, si è tenuto dal 24
al 26 marzo non lontano da Pechino, nella città di Mingyun, convegno al
quale hanno partecipato almeno 16 studiosi e accademici provenienti non
solo dalla capitale ma anche da Shanghai, dal Guangdong, dal Sichuan
dallo Shanxi, e alcuni studiosi stranieri. “Condurre ricerche e riflettere
nuovamente sulla Rivoluzione culturale costituisce oggi una necessità
storica, e anche se l’ufficialità blocca e impedisce tale processo la gente
vuole far sentire oggi la propria voce, e il partito non riesce più né a tenere
in pugno la situazione nè a intercettare quanto accade. La gente oggi è ben
consapevole di questo, e sia quadri in pensione, intellettuali, e persone
che hanno partecipato alla Rivoluzione culturale non possono dimenticare
quella catastrofe (haojie) che ha portato a tutto il popolo della Cina, oltre
che ai singoli, gravissime calamità (shenzhong zainan), e chiedono che la
dirigenza abbia una corretta visione di questa tragedia storica”15. In questo
spirito, alcuni studiosi pechinesi si sono fatti promotori del “Convegno di
studio sulla Rivoluzione culturale - Pechino 2006”, di cui la citata rivista di
Hong Kong fornisce un breve resoconto: “Il tema cruciale che ha animato
tutto il convegno è stato l’esistenza o meno di due Rivoluzioni culturali.
Oltre a quella lanciata da Mao Zedong per abbattere Liu Shaoqi servendosi
delle masse - la Rivoluzione culturale ‘ufficiale’ (guanfang), è esistita
anche una Rivoluzione culturale in cui le masse, approfittando del caos,
hanno conquistato propri vantaggi, il potere democratico, arrivando fino a
trasformare il sistema vigente - la Rivoluzione culturale del popolo (renmin).
Secondo le ricerche di Xu Youyu16, colui che per primo aveva proposto la
tesi delle Due rivoluzioni culturali era stato Wang Xizhe17, il quale fin dal
1981, nel saggio ‘Mao Zedong e la Rivoluzione culturale’ aveva indicato
che a fronte di una Rivoluzione culturale di Mao ne esisteva un’altra, ad
essa contrapposta (xiangduilide), che nasceva dalla ‘teoria dei conflitti
sociali’; tesi questa che era stata ben presto sostenuta da studiosi come Yang
Xiaogai, Zheng Yi, Wang Shaoguang. Nel primo numero di quest’anno [2006]
della rivista Primavera di Pechino (Beijing zhi chun) è comparso anche
un articolo a firma di Liu Guokai, intitolato ‘La Rivoluzione culturale del
popolo’18, nel quale l’autore afferma che questa si basa su documentazione
storica autentica, pubblicata nella Collana sulla Rivoluzione culturale del
popolo di cui egli stesso è responsabile”19.
Una tesi, questa, che pur non essendo condivisa dalla maggioranza dei
partecipanti al convegno citato, appare come uno dei temi fondamentali
in quell’opera di collettivo “ripensamento” (fansi) su tale controverso
periodo storico, che pur se ancora oggi non autorizzato, come abbiamo
visto, a livello ufficiale, viene ormai da anni ampiamente condotta, almeno
fuori della Cina, grazie alla straordinaria mole di materiali che continuano
a venire alla luce20.
4. Un Convegno pubblico negli Stati Uniti
In questa prospettiva si inquadra il Convegno intitolato “Quarant’anni
dalla Rivoluzione culturale. Verità storica e memoria collettiva” che è stato
organizzato, tra il 22 e il 24 maggio, presso la City University di New
York da un gruppo di studiosi di origine cinese, guidati dal Prof. Song
Yongyi21 e al quale, puntualmente, Zhengming dedica ampio spazio,
contribuendo ancora una volta a far conoscere al pubblico sinofono -
di Hong Kong beninteso ma anche del “continente”, dove sappiamo il
mensile ha ampia diffusione tra l’élite del partito - quali siano le tematiche
che stanno maggiormente a cuore alla sempre più attenta e influente
comunità cinese internazionale22. Ed è proprio Song Yongyi a raccontarci
il Convegno, nel saggio “Il senso di sfida, il valore costruttivo e l’attualità
degli studi sulla Rivoluzione culturale - Riflessioni sul Convegno di
New York”23. Egli esordisce: “Poiché il Partito comunista cinese vuole
cancellare qualunque memoria della Rivoluzione culturale e soffocare
qualunque ricerca su questo tema, questo genere di attività si può oggi
svolgere soltanto all’estero”. Un fenomeno che egli così sintetizza: “fervore
all’estero, gelo in Cina” (haiwai re guonei leng). Così lo studioso descrive
il Convegno: “ha avuto un importante valore di sfida (tiaozhanxing), di
denuncia di verità storiche che anche la dirigenza attuale del partito vuole
continuare a nascondere, e di smascheramento nei confronti della teoria
‘ufficiale’ del partito sull’argomento, ed ha rimesso in discussione, proprio
attraverso l’evidenza della documentazione storica, la stessa legittimità
della dirigenza attuale. Ad esempio, da tempo tra le principali vittime
della Rivoluzione culturale figurano Liu Shaoqi, Deng Xiaoping e Ye
Jianying - grazie alla cui collaborazione Hua Guofeng riuscì a sconfiggere
la ‘Banda dei quattro’ -, tutti personaggi fino ad oggi ritenuti soltanto
vittime, obbiettivi del movimento. Una gran parte di documentazione
storica presentata durante il Convegno ha invece dimostrato che dopo la
Rivoluzione culturale l’ufficialità del partito ha volutamente amplificato le
divergenze tra costoro e Mao, nascondendo il fatto che invece anche loro
avevano attivamente sostenuto e partecipato alla Rivoluzione culturale”24 .
L’intervento presentato dallo stesso Song Yongyi, “Lo speciale contributo
di Liu Shaoqi alla Rivoluzione culturale: la storia che non sapete” era
teso, secondo quanto lo stesso autore ci racconta nell’articolo citato, a
dimostrare che non solo Liu Shaoqi, ma anche Deng Xiaoping, Zhou Enlai
e lo stesso Peng Zhen avevano giocato un ruolo ben preciso almeno nelle
prime fasi del movimento, e quindi “la Rivoluzione culturale è stato un
crimine collettivo del Partito”25.
Il “valore costruttivo” (jianshexing) cui viene fatto riferimento nel titolo
dell’articolo citato risiede “nell’aver fornito molto materiale inedito su
diverse realtà ancora poco studiate”: l’autore elenca qui alcune tematiche
trattate negli interventi, come le condizioni delle minoranze etniche in
Tibet e in Mongolia, le ripercussioni nell’ambito della sinistra americana,
i rapporti sino-sovietici, ecc.
Il terzo aspetto rilevante del Convegno è stato l’“attualità” (dangdaixing):
“La Rivoluzione culturale ha senza dubbio trasformato radicalmente il
panorama politico ed economico di tutta la Cina continentale. Dal punto
di vista economico, se non ci fosse stato, subito dopo la Rivoluzione
culturale, il pericolo di un tracollo economico, Deng Xiaoping e i suoi
non avrebbero potuto dare inizio alla ‘riforma e apertura’. Dal punto di
vista della struttura del potere va rilevato anche che la maggior parte
della dirigenza attuale del partito fa parte della ‘generazione delle guardie
rosse’, e quindi la Rivoluzione culturale ha segnato i loro corpi con un
marchio indelebile. Perciò appare oggi ancora tutta da esaminare in
modo sistematico l’effettiva influenza esercitata dalla Rivoluzione culturale
sulla cultura politica attuale, anche sull’attuale leadership di Hu Jintao
e del suo gruppo”26. Influenza che, secondo alcuni autori presenti al
Convegno, potrebbe in certo senso giustificare la “rapida ascesa” al potere
della “quarta generazione”, e proprio grazie all’appoggio importante del
cosiddetto “partito dei prìncipi” (taizi dang), la potente lobby costituita
da figli ed eredi di quell’aristocrazia “rossa” che proprio sui privilegi della
rivoluzione ha costruito imponenti fortune27. Scrive ancora Song Yongyi: “Il
pensiero politico e lo stile di lavoro di Hu Jintao si erano essenzialmente
formati proprio in quegli anni, nei quali presso l’Università Qinghua
egli faceva parte di una delle fazioni che appoggiavano Liu e Deng: era
quindi il classico tecnico-burocrate che si rifaceva alla linea politica di Liu
e Deng”28. Appare evidente, secondo l’autore, il legame tra quegli anni
formativi e gli aspetti più dispotici dell’attuale dirigenza politica. E’ infatti
questo il senso che si trae dalla lettura del ricco materiale documentario,
ma soprattutto dai commenti che sembrano emergere, unanimi, dai
contributi raccolti: quegli anni tormentati sono visti esclusivamente nella
loro negativa drammaticità: sarebbe stato il partito stesso, responsabile
collettivo della “catastrofe” a voler occultare prove e testimonianze,
in modo tale che ancor oggi, proprio per non dover vedere messo in
discussione dalle radici il proprio mandato al governo, da rendere ancora
possibile nella Cina di l’imperversare di quel Mao Zedong re, quella “febbre
di Mao Zedong” che continua a raccogliere milioni di fedeli seguaci.
5. Una responsabilità collettiva
Se il giudizio sulla Rivoluzione culturale va rivisto e ripensato, l’opera
di fansi che viene condotta sulle pagine di Zhengming costituisce
sicuramente un aspetto meritevole, anche se decisamente orientata nel
mettere in evidenza tutti i lati oscuri e drammatici del periodo. Citiamo, a
titolo di esempio, un’altra voce di implacabile condanna: “La Rivoluzione
culturale è il risultato di crimini collettivi del Comitato centrale”29, saggio
nel quale si afferma senza mezzi termini che non è stato Mao l’unico
responsabile di tale crimine (zui’e), ma che almeno nella fase iniziale,
gli stessi Liu Shaoqi e Deng Xiaoping erano completamente d’accordo e
che solo in seguito ne sono diventati vittime: “la Rivoluzione culturale è
stata il frutto (jiejing) della intelligenza (zhihui) collettiva del partito, e
aveva il fine di seppellire definitivamente un’epoca oscura, fino ad oggi
ancora non sepolta”30.
Per concludere, varrà la pena segnalare altri contributi di indubbio
interesse pubblicati in questi mesi sulla medesima rivista, come “La
diabolica astuzia della circolare del 16 maggio”31, dove si ricostruiscono gli
eventi che diedero origine alla prima Circolare del movimento. “Ricompare
la folle storia della Rivoluzione culturale a Shanghai”, tratta invece di
un romanzo di Yu Zhiguan pubblicato a Hong Kong, Il condominio dei
ricchi32, ed ambientato proprio nella turbolenta Shanghai degli anni ’60.
Recentissima, infine, la pubblicazione di alcuni passi di un inedito
“Diario di Lin Biao”33, che metterebbe in evidenza la stretta collaborazione
tra Lin Biao e Mao nella elaborazione della strategia complessiva della
prima fase della Rivoluzione culturale, attraverso la costruzione di una
fitta rete di connivenze e di alleanze della quale anche Jiang Qing faceva
parte. Argomento ghiottissimo anche questo, per una pubblicistica che
continua a proporre nuovi documenti e nuove testimonianze inedite,
peraltro ancora tutti da sottoporre ad attente verifiche.
mi ha raccontato che avrebbe voluto fare l’attore. “Non intendo dire l’attore professionista, ai miei tempi, soltanto i bambini delle famiglie più povere entravano nelle compagnie professionali di opera di Pechino1.
MONDO CINESE N. 128, LUGLIO-SETTEMBRE 2006