Proseguendo nella nostra rassegna della stampa cinese sul tema dell’ “ascesa”
della Cina in campo internazionale1, affrontiamo un nuovo aspetto della
politica americana nei confronti della Repubblica popolare: la cosiddetta
hedge strategy2, la nuova strategia varata dall’amministrazione Bush a febbraio
2006, alla vigilia della imminente visita in aprile negli Stati Uniti del
Presidente Hu Jintao.
Questa è la strategia secondo cui gli USA si preparerebbero all’eventualità di
un possibile conflitto armato con la Cina, una volta che la crescita di questo
paese sia tale da conferirle lo status di nuova superpotenza3. Ricalcando una
terminologia già adoperata in ambito finanziario4, per
hedging si intende un
insieme di strategie di senso inverso e contrario, che mirano a compensarsi
tra loro, finalizzate ad individuare una opzione mediana, per così dire “sul
filo del rasoio”, che eviti di dover effettuare scelte unilaterali e univoche, a
favore di una sola parte e ad ovvie spese delle altre.
Nel caso della Cina, la nuova politica americana è ispirata a scelte prudenti, che mirano a combinare meccanismi di engagement e integrazione con
strategie di bilanciamento indiretto; un bilanciamento attuato sia attraverso
misure deterrenti non specifiche, sia mediante il rafforzamento della difesa
nazionale, sia sotto forma di cooperazione per la sicurezza esterna con altri
paesi asiatici, sia per mezzo dell’intensificazione degli scambi economici
e diplomatici con tali stati. In maniera più specifica, mentre si impegnano
ufficialmente a edificare un rapporto cooperativo e costruttivo con la Cina,
allo stesso tempo gli Stati Uniti rafforzano l’alleanza militare con il Giappone
e consolidano i rapporti con Taiwan per la difesa dell’isola; esercitano,
inoltre, pressioni su Taipei per l’acquisto di armi americane e sull’Unione
Europea, perché non revochi l’embargo sulla vendita di armi alla Cina, che
permane da sedici anni.
E’ quanto viene descritto nell’articolo qui tradotto, che ben evidenzia quanto
alta sia la posta in gioco per la sicurezza nello Stretto di Taiwan, senza
tralasciare l’evoluzione dei rapporti strategici degli Stati Uniti con l’India e il
Giappone. Apprezziamo pertanto la lucidità con cui questo analista taiwanese
riesce a cogliere la complessità della politica americana, della quale ci
fornisce attendibili ed interessanti chiavi di lettura.
M.M.
*******
[Zhang Kezhong, “Hedge Strategy5: Meiguo dui Zhongguo de ‘liangmian xiazhu
celue’”, Zhonggong yanjiu, vol.40, n.5 (473), maggio 2006, pp.28-33.]
È già trascorso un mese dalla visita del Presidente cinese Hu Jintao negli
Stati Uniti6, tuttavia i suoi effetti sono ancora altalenanti. Per gli americani
questa visita non è stata affatto un successo, il colloquio di Bush
con Hu Jintao non ha prodotto risultati significativi; alcune delle grandi
questioni, come la pressione sulla Corea del Nord per la rinuncia alle armi
nucleari, l’invito alla Cina ad affiancare gli Stati Uniti per risolvere il problema
nucleare dell’Iran, non hanno avuto esito positivo. Sul piano economico-
commerciale, il vice Premier cinese Wu Yixian ha effettuato ingenti
commesse negli Stati Uniti, mettendo a repentaglio la bilancia commerciale
dei due paesi, mentre su altre questioni, quali la protezione della proprietà
intellettuale, non ha fornito alcuna concreta misura risolutiva per eliminare
l’insoddisfazione americana.
Anche Pechino ha non poche perplessità. In occasione della prima visita
ufficiale di Hu Jintao in veste di Presidente, Washington è stata inaspettatamente
avara e superficiale nel cerimoniale di accoglienza, rituale che Pechino
tiene in grande considerazione, con grande imbarazzo di Hu Jintao.
Pechino è rimasta fortemente contrariata dalla noncuranza mostrata nei
suoi confronti da parte della Casa Bianca nel rilasciare il pass a un giornalista
di Epoch Times7 e dai disordini che sono stati provocati dai seguaci
del Falun gong.
Riguardo alla questione di Taiwan, la proposta di Bush a Hu Jintao è stata
del tutto superficiale e non è stata fatta alcuna vera concessione; fra Stati
Uniti e Cina esistono ancora molte discriminazioni. Hu Jintao non ha sollevato
la questione dello stretto di Taiwan, consapevole del rifiuto certo che
avrebbe incontrato da parte degli Stati Uniti, i quali non vogliono trasmettere
all’esterno l’impressione di una “gestione comune” della zona. A Pechino non
piace la doppiezza americana: il vero obiettivo degli Stati Uniti è il mantenimento
dello status quo e non l’unificazione tra le due sponde.
L’insuccesso dell’offensiva pacifica
Similmente, anche Pechino ritiene che la visita di Hu Jintao negli Stati Uniti
sia stata un fallimento. Il Presidente cinese ha incontrato Bush e le alte cariche
dello stato americano, ha preso parte a discussioni informali con i think tank,
ha tenuto discorsi agli organismi governativi, al mondo imprenditoriale e agli
intellettuali. I media hanno diffuso l’importante notizia secondo cui l’obiettivo
della Cina sarebbe solamente lo sviluppo della pace, per eliminare qualunque
dubbio o incertezza, da parte americana, in merito all’ascesa della Cina.
Washington non ha accettato passivamente questa “offensiva della pace e
dello charme” da parte di Hu Jintao. Benché la Cina non costituisca attualmente una minaccia imminente e la sua forza militare non sia ancora pari
a quella dell’Unione Sovietica ai tempi della guerra fredda, il suo processo di
modernizzazione degli armamenti, tuttavia, a partire dagli anni ’90 si è notevolmente
intensificato e ha mancato oltretutto di trasparenza, sollevando i
sospetti degli Stati Uniti.
La modernizzazione dell’esercito cinese e la corsa al riarmo non è rivolto
solo a Taiwan. La Cina continua a effettuare ingenti investimenti per migliorare
la portata dei propri armamenti al di fuori dei confini nazionali; a partire dal
1996 per una cifra a molti zeri ha acquistato da Russia e Ucraina armi avanzate
tali da compromettere l’equilibrio delle forze militari della zona.
Secondo i dati ufficiali cinesi il budget per la difesa nazionale del 2006 ammonta
solamente a 35 miliardi di dollari, inferiore a un decimo del budget degli
Stati Uniti, ma gli esperti americani ritengono che la cifra sia almeno il triplo. Il
Pentagono teme che la Cina continui a effettuare massicci investimenti in alta
tecnologia, sproporzionati rispetto alla propria effettiva potenza militare e che
in futuro possa puntare sulla guerra elettronica e telematica, su missili guidati
e missili da crociera, su sistemi di difesa aerea avanzati, torpedo dell’ultima generazione,
armi atomiche strategiche telecomandabili da terra o da mare, aerei
senza pilota, sottomarini con pilota automatico importati dall’estero. Secondo
una stima dell’intelligence del Ministero della difesa americano, attualmente
nell’area asiatica del Pacifico sono operativi 85 sottomarini cinesi, molti più di
quelli americani. Entro il 2025 il rapporto fra sottomarini cinesi e americani
sarà di cinque a uno, una proporzione estremamente sbilanciata.
La doppia via dell’engagement e del containment
Per questa ragione gli Stati Uniti mettono in atto una strategia del “gioco
su due fronti”: da un lato premono affinché la Cina diventi uno stakeholder
forte e responsabile, che all’interno della società internazionale interpreti il
ruolo di protettore della pace del mondo; dall’altro si muovono biecamente
con un nuovo dispiegamento militare, aumentano le forze militari nel Pacifico,
effettuano misure di containment, stabilendo alleanze e intraprendendo
tattiche comuni con Giappone, India, Australia e altri paesi. Tengono quindi
d’occhio la Cina per impedire che diventi una potenza in grado di compromettere
la pace nel Pacifico asiatico e l’ordine internazionale.
La tattica americana nei confronti della Cina è fondamentalmente un’azione di engagement, containment e contesa. Lo scorso settembre 2005 il vice Segretario
di Stato americano Robert B. Zoellick, in un discorso tenuto all’Asia
Society, ha reso palese il concetto di “gioco su due fronti”: ha espresso la sua
fiducia nella possibilità che la Cina diventi uno stakeholder forte e responsabile;
[si è augurato inoltre che] tale formulazione risulti nuova e originale
e raccolga ovunque rispetto e considerazione.
Da quel momento gli intellettuali, i mass media e i circoli accademici
hanno iniziato ad analizzare accuratamente la linea politica verso la Cina
formulata da Washington. Secondo Zoellick, inoltre, non sarà certo l’ascesa
pacifica della Cina quella che gli Stati Uniti, come tutti gli altri paesi, debbono
prevenire, poiché sono molte le nazioni che contano su un’ascesa pacifica
della Cina; ma nessuno stato può davvero puntare tutto su questo, al contrario,
ciascuno dovrà premunirsi contro la minaccia cinese.
Negli ultimi anni la tattica del “gioco su due fronti” è stata un pilastro
della politica americana verso la Cina. Inizialmente gli opinionisti ne hanno
enfatizzato eccessivamente la parte debole, pochi hanno fatto attenzione alla
parte forte. In questi anni la Cina ha assunto un atteggiamento che non faceva
sperare in uno sviluppo pacifico, ma che lasciava intravedere piuttosto
l’emergere di una potenza militare. In molte zone è entrata in competizione
con gli Stati Uniti danneggiandone gli interessi, ha messo alla prova l’ordine
internazionale diffondendo armi messe al bando e sostenendo l’Iran, la
Corea del Nord e altri paesi di dubbia condotta. Nel momento in cui la Cina
ha minacciato gli alleati democratici dell’America, gli Stati Uniti hanno intrapreso
in maniera manifesta nei suoi confronti la politica del containment,
dell’intimidazione e dell’ostruzionismo.
Il Quadriennal Defense Review, rapporto quadriennale sulla difesa nazionale
(QDR), pubblicato all’inizio di febbraio dal Ministero della difesa
americano, ne è una chiara prova. Il documento evidenzia che la Cina è
un paese che si trova a un punto di svolta: se gli Stati Uniti non adotteranno
misure adeguate, essa diventerà una potenza minacciosa e competitiva,
in grado di sviluppare una tecnologia militare distruttiva e di cancellare la
tradizionale superiorità militare americana.
Il dispiegamento degli eserciti e l’ascesa della Cina
Nel QDR dello scorso anno, che ha superato le cento facciate, è presente un
dibattito di tre pagine sullo sviluppo della forza militare della Cina e sulla risposta
degli Stati Uniti. La misura americana prevede:
1. che si combatta la crescita della forza strategica della Cina, facendo in
modo che l’Unione Europea non le revochi l’embargo militare e impedendone
il rifornimento di armi avanzate e congegni militari da parte di Israele e
Ucraina;
2. che ci si adoperi perché nessuna potenza domini la sicurezza mondiale
o di una singola zona. Coerentemente con questo piano gli Stati Uniti hanno
iniziato a dispiegare forze militari nell’Oceano Pacifico: di undici portaerei in
servizio attivo, almeno sei sono situate nell’area del Pacifico; entro il 2012 gli
Stati Uniti produrranno ogni anno due sottomarini a energia nucleare e 150
missili cruise dall’impressionante capacità di attacco. Negli ultimi anni sull’isola
di Guam, base militare americana nel Pacifico asiatico, per far fronte
alla crisi di Taiwan e della Corea del Nord, sono stati collocati aerei B-1 e B-2,
sottomarini a energia nucleare e navi da guerra. I cacciabombardieri del tipo
B-1 e B-2 sono in grado di attaccare qualunque punto del Pacifico asiatico
nel giro di tre ore.
Nell’estate di quest’anno, quattro portaerei americane hanno effettuato una
massiccia esercitazione militare nell’area del Pacifico asiatico. Il comandante
in capo del Pacifico, l’ammiraglio William J. Fallon, durante la sua visita in
Cina dal 9 al 15 settembre, ha dichiarato che gli Stati Uniti sperano che l’esercito
di liberazione cinese aumenti la sua trasparenza per fugare i sospetti del
resto del mondo. Ha inoltre proposto un meccanismo di trasparenza congiunto
per discutere delle questioni strategiche importanti di ambo le parti, per una
maggiore fiducia reciproca in ambito militare. Fallon ha quindi invitato gli
alti ufficiali dell’esercito cinese ad assistere all’esercitazione che si terrà nella
zona del Pacifico durante l’estate di quest’anno, insieme agli eserciti di Giappone,
Australia, Corea del Sud e altri paesi. L’obiettivo degli Stati Uniti è quello
di accrescere la fiducia e la trasparenza reciproca, ma ancor più importante è
quello di fare in modo che i militari cinesi constatino di persona l’entità della
forza militare americana. Una “guerra psicologica” all’americana, insomma,
per evitare che i capi dell’esercito cinese intraprendano un’azione sconsiderata
e sbagliata, come conseguenza di un giudizio erroneo.
L’alleanza strategica americano-giapponese
La tattica americana di containment nei confronti della Cina si avvale
dell’alleanza di altre nazioni democratiche, la più importante delle quali è
quella con il Giappone. Dopo gli incontri susseguitisi a partire da febbraio
2005, le due parti hanno pubblicamente dichiarato che la sicurezza e la pace
nello stretto di Taiwan sono un obiettivo comune. […] L’alleanza Giappone-
Stati Uniti in difesa di Taiwan ha provocato chiaramente l’ira dei leader di
Pechino. Nel 1972 il Presidente americano Nixon visitò la Cina e firmò con
il Premier Zhou Enlai il Comunicato di Shanghai estromettendo, su richiesta
di Zhou Enlai e degli altri leader cinesi, l’intervento del Giappone dalla difesa
di Taiwan. Nel 1977 Carter ribadì tale promessa. Nel marzo del 1996,
però, Pechino lanciava delle bombe su Taiwan e l’atteggiamento americano
mutava radicalmente: nell’aprile del 1996 il Presidente Clinton visitava il
Giappone e firmava con il Premier giapponese Ryutaro Hashimoto le Nuove
linee guida per la difesa, con cui la politica americana nell’Asia Orientale ha
maturato un nuovo orientamento sull’apporto giapponese nella comune difesa
di Taiwan. A partire dall’estate del 1996 la Dieta giapponese ha varato una
serie di provvedimenti, tra cui a Legge sulle questioni delle aree periferiche,
con la quale il Giappone ha fornito basi logistiche di supporto e un fondamento
giuridico per la difesa di Taiwan da parte dell’esercito americano. Il
dispiegamento di forze dell’esercito americano a Okinawa e il trasferimento
di comparti dell’esercito giapponese sull’isola sono tutte misure congiunte fra
Stati Uniti e Giappone, volte alla protezione della pace nell’Asia orientale.
Nonostante Taiwan non sia un argomento di dibattito importante fra
Cina e Giappone, l’alleanza di quest’ultimo con gli Stati Uniti si ripercuote
anche sulla sua relazione con Taiwan e con la Cina. Il governo giapponese
si è dichiarato più volte profondamente preoccupato per l’ascesa militare
della Cina, per la mancanza di trasparenza della sua politica militare, per
la perdita di equilibrio della forza militare fra le due sponde e per la precaria
sicurezza di Taiwan. Per Tokyo l’ascesa cinese minaccia punti vitali del
suo territorio: se la Cina attaccasse e controllasse Taiwan, finirebbe per controllare
anche il versante occidentale del Pacifico: aumenterebbe così la sua
possibilità di risolvere con azioni militari le dispute nel Mar Cinese Orientale
e di rivendicare le isole Diaoyutai8 e le isole Ryukyu9. Come soluzione al problema
di Taiwan, il Giappone, oltre all’allineamento con la politica militare
americana sullo stretto, è sul punto di scendere in campo e predisporre una
base militare sull’isola. Nel frattempo rinforza anche l’esercito sulle Ryukyu
e su altre isole a sudovest. Il Giappone attualmente non sembra volere cambiamenti
nei meccanismi della sicurezza sullo stretto di Taiwan, ma se vi
scoppiasse una crisi, si schiererebbe con l’esercito americano; anche se la
Corea del Sud e l’Australia non volessero seguire gli Stati Uniti nel medesimo
conflitto, questo paese è comunque diventato un sussidio importante nell’intervento
americano nello stretto.
Gli Stati Uniti si alleano all’India
per contenere la Cina
Dopo il Giappone, gli Stati Uniti si stanno impegnando per tirare l’India
dalla loro parte, perché diventi un alleato nascosto nel contenimento della
Cina. La visita dello scorso febbraio di Bush in India aveva un forte odore
strategico; era volta, cioè, a rafforzare la cooperazione dei due paesi nella
sicurezza militare con un nuovo accordo di collaborazione in materia di
difesa ed esercitazioni militari congiunte. Gli Stati Uniti venderanno a breve
all’India armi avanzate, come aerei F-16, F-18, per rafforzare la cooperazione
nell’alta tecnologia aerospaziale. L’accordo sancisce inoltre l’uso civile
dell’energia nucleare, ma in realtà riconosce l’India come potenza nucleare.
Gli Stati Uniti si adoperano per fare dell’India un esempio di democrazia
a livello mondiale: la lodano come la più grande nazione democratica del
mondo e premono perché essa promuova il processo di democratizzazione
di altri paesi.
Accelerare la democratizzazione della Cina
Agli inizi di maggio Michael Green, Direttore degli Affari per la sicurezza
dell’Asia Orientale della Casa Bianca, in un discorso tenuto a Taibei ha effettuato
un’analisi molto chiara della politica degli Stati Uniti nei confronti
della Cina. Oltre ai due assi portanti della politica di engagement e di containment,
ne esiste un terzo, cioè l’accelerazione dell’evoluzione pacifica della
Cina e la riforma democratica della sua politica interna. Green ha ricordato
come il Presidente Bush a metà novembre del 2005 abbia evidenziato a Tokyo
i risultati della politica di democratizzazione nei paesi asiatici. La Cina deve
intraprendere una riforma democratica prendendo esempio da Taiwan, dal
Giappone e dalla Corea del Sud. Da molti anni il governo americano lamenta
la violazione da parte della Cina dei diritti fondamentali dei cittadini, quali la
libertà di espressione, la libertà di religione etc. e chiede che essa intraprenda
riforme politiche e [avvii] un effettivo processo di democratizzazione.
(traduzione dal cinese e note di Ilenia Parnanzone)
MONDO CINESE N. 128, LUGLIO-SETTEMBRE 2006