Nei prossimi mesi uscirà in Italia la traduzione di Lang Tuteng,
(Il Totem del lupo), di Jiang Rong, in leggero anticipo rispetto ai paesi
di lingua anglosassone che lo pubblicheranno nel 2007. Si tratta di
un’operazione colossale, un fenomeno interessante e nuovo che vede la Cina
finalmente protagonista di un progetto editoriale e non solo commerciale.
Pubblicato nell’aprile 2004 dalla Changjiang Wenyi Chubanshe (Fiume
Azzurro Edizioni d’Arte e Letteratura) di Wuhan, Lang Tuteng conosce uno
strepitoso (e duraturo: sedici settimane in testa alle classifiche) successo
di vendite: un milione di copie ufficiali e tra i quattro e i sei di edizioni
pirata. Radio Pechino (Beijing Renmin Guangbo Diantai) ne trasmette la
lettura radiofonica in cento puntate, tra il maggio e il settembre 2004, con
un’audience media di quasi un milione di persone. Nel gennaio 2005 il
libro si aggiudica l’Outstanding Experts and Readers Award 2004, un premio
indetto da Sina.com, la Renmin Chubanshe e la rivista Dangdai, decretato
anche dalla massiccia partecipazione dei lettori chiamati a esprimere online
la loro preferenza.
Nel settembre 2005 la casa editrice cinese vende al gruppo Penguin i
diritti planetari (100.000 dollari e il 10% sulle vendite) per la traduzione
inglese, Wolf Totem. A sua volta Penguin vende i diritti alle singole case
editrici straniere che se li contendono a suono di consistenti offerte: questa
prepotente entrata nel mercato letterario mondiale segna una svolta nella
diffusione e commercializzazione della letteratura cinese contemporanea.
Svolta accolta con entusiasmo anche dall’Agenzia Xinhua, che sottolinea
come la cessione di questi diritti contribuisca a colmare almeno in parte
quel deficit culturale con l’estero che vede la Cina, nel 2004, esportare solo
1.314 diritti contro i 10.040 che acquista, secondo i dati forniti dallo State
Administration of Press and Publications. Nel frattempo un editore di Tokio
compra per 300.000 dollari i diritti per creare un fumetto ispirato al libro.
Altra osservazione che è utile tener presente è che questa volta non si tratta
di un libro che viene venduto all’estero sulla scorta del fatto che sia stato
censurato in Cina per motivi politici o moralistici, fattore che spesso aiuta
l’editore straniero a piazzare opere che altrimenti faticherebbero a imporsi
sul mercato: nessun anatema ufficiale ha perseguitato in patria Il Totem del
Lupo che, quanto poi a contenuti scabrosi, è paragonabile al nostro Cuore
deamicisiano.
Vediamo ora di capire il messaggio contenuto nel libro, e il perché del
suo forte impatto in Cina. Benché tecnicamente si possa senz’altro definire
un romanzo, il libro ha più l’andamento del saggio a tema, nel senso che
ogni pagina, ogni aneddoto, ogni riflessione esternata dai personaggi
ribadiscono incessantemente la stessa tesi: la superiorità del lupo, animale
dotato di forza morale, lungimiranza, capacità di coesione sociale, giusta
dose di aggressività, coraggio, capace di un comportamento assolutamente
rispettoso dell’equilibrio naturale, ma soprattutto di una fierezza tale da
renderne impossibile l’addomesticamento, tanto che la trama stessa del
libro, di per sé assai semplice e lineare, si costruisce attorno al tentativo
del protagonista di allevare un cucciolo di lupo, tentativo destinato a fallire
miseramente perché, come ribadito in uno degli ultimi capitoli, “puoi mettere
al guinzaglio un cane, un orso, una tigre e persino un leone, ma un lupo
no, mai”. Si intuisce subito che la metafora è quella che vede contrapposto
un popolo di allevatori nomadi liberi, selvaggi, indomabili (i mongoli) a
uno contadino, incapace di alzare la testa, stanziale, erbivoro, timoroso,
facilmente soggiogabile (gli han). Su questa dialettica se ne innestano altre
ancor più sfaccettate, non ultima la tematica ecologica che affronta il problema
della desertificazione della prateria mongola, causata, secondo l’autore, dal
progressivo abbandono della pastorizia nomade in favore di un inesorabile
avanzamento dello sfruttamento agricolo. O le successive speculazioni sorte
in ambito economico su quanto sia importante essere aggressivi, dunque
affini al lupo, per competere ed emergere sul piano commerciale tanto in
Cina che sul mercato internazionale.
L’autore, un maturo professore che si nasconde dietro un anonimato
facilmente smascherabile (ma prudenzialmente scelto per non dare risalto ai
due anni passati in galera per il coinvolgimento nei fatti di piazza Tian’anmen),
ha trascorso nella Mongolia Interna, in qualità di “giovane istruito”, gli anni
della Rivoluzione Culturale che racconta nelle oltre 400 pagine del libro.
La scrittura è piuttosto semplice e la narrazione è spesso avvincente, ma qua e là francamente ripetitiva; interessante come spaccato antropologico
nella descrizione di usi e costumi di vita delle praterie mongole che, se sono
assolutamente lontani dal modo di vita cinese, a noi occidentali suonano a
volte addirittura extraplanetari.
Ma la vera forza del romanzo sta, come abbiamo già accennato, nella
capacità di sollevare, o riaccendere, un vivace dibattito culturale sulle radici
storiche e le conseguenze etico-politiche di certe caratteristiche etniche
che possono aver contribuito a forgiare la fisionomia della nazione cinese.
Attraverso una serie di accurate citazioni storiche che Jiang Rong pone in
exergo ai vari capitoli o che non esita a mettere in bocca al protagonista Chen
Zhen, alter ego dell’autore per sua stessa ammissione, il lettore viene condotto
per mano a rivivere i fasti dell’epopea mongola, a ritrovare il Totem del
Lupo nelle origini del popolo cinese e in tante popolazioni che coi mongoli
hanno comunque affinità (dai turchi ai sarbi agli xiongnu), ad ammirare i
successi tattici e le conquiste del clan di Gengis Khan e ad apprezzare, di
quei popoli, il carattere fiero, l’indole combattiva, l’aggressività che permette
loro di estendere il dominio anche sull’impero cinese. Per contrasto gli han
vengono identificati come il popolo perdente per antonomasia, che ha visto
via via annacquare la componente di “lupicità” (langxing) che gli derivava
dal fatto di discendere da un antenato comune ai barbari (è questa la tesi
continuamente sostenuta a ogni piè sospinto dall’autore) per trasformarsi in
un gregge di pecore, anche se nel libro alla fine l’ultima parola, quella che
porterà distruzione e morte nella prateria, spetta ai cinesi che lentamente
ma inesorabilmente “invadono” la prateria soffocando con l’agricoltura la
millenaria pratica del nomadismo.
Ovviamente questa tesi del dualismo lupo/pecora non è passata inosservata
in Cina, dove i lettori sembrano essersi più o meno divisi tra coloro che
auspicherebbero una maggior “lupicità” tra i cinesi e chi invece demolisce
la tesi della presunta superiorità mongola, mettendo oltretutto in evidenza
il potenziale pericolo rappresentato da un popolo che nel feroce lupo per
l’appunto s’identifica. Se è vero, d’altro canto, che il cosiddetto Totem del
Drago, in contrapposizione a quello del Lupo, ha sempre imposto in Cina
una visione passiva, statica, sedentaria, in balìa delle bizze imprevedibili
dell’odiato/amato Fiume Giallo (evidenti i richiami all’Elegia del Fiume
Giallo, la serie televisiva dell’ 88), prigioniera di quel simbolo di chiusura e
conservatorismo che è sempre stata la Grande Muraglia, è anche vero che la realtà è ben più complessa di quanto non la dipinga questa semplificazione.
Tra i detrattori della tesi di Rong Jiang si schiera il noto critico Liu Xiaobo,
che nel suo bell’articolo, dal titolo “Lang tuteng qudai long tuteng” (“Il totem
del lupo sostituisce quello del drago”) apparso nel numero del marzo di
quest’anno della rivista Zhengming (Dibattiti) traccia una sorta di disamina del
mito mongolo e osserva semplicemente che, per quante fruttuose scorribande
Gengis Khan abbia compiuto durante il suo regno, non è poi stato in grado
di dar vita a un impero stabile nei territori conquistati in occidente. Del resto
la dinastia Yuan ha mantenuto il potere in Cina per non più di un’ottantina
d’anni, e dei mongoli e dei loro progressi la storia non ha più avuto occasione
di occuparsi, mentre non si può certo dire lo stesso della civiltà cinese.
Sempre Liu sostiene che sia stata proprio l’invasione mongola a ostacolare,
con la propria indole barbara, la modernità insita nel seme capitalistico
della società Song, portando solo guerra e distruzione senza dimostrare la
minima capacità di instaurare nelle popolazioni conquistate un processo di
duratura civilizzazione. Resta poi da dimostrare se siano state le “infusioni di
sangue barbaro” nei cinesi, sulle quali spesso insiste l’autore, a garantire la
continuità di questi ultimi o se, al contrario, non siano stati proprio i cinesi
a sinizzare i nomadi. Parrebbe insomma esagerato, e autolesionista, eleggere
a eroe nazionale un Gengis Khan che umiliò e schiacciò il popolo cinese.
Mentre d’altro canto l’esaltazione di questa discutibile estetica della “lupicità”
farebbe buon gioco a certo nazionalismo autocratico risvegliatosi intorno agli
anni ’90, che invita la Cina ad alzare la testa davanti al Giappone, a Taiwan
e all’America, quasi a riprendere l’appello maoista a “superare l’Inghilterra
e l’America”.
Su un piano affatto diverso leggiamo anche l’approccio naturalistico,
forse meno sensazionalistico ma non meno interessante. E’ un dato di fatto
che la morfologia delle zone steppiche a nord di Pechino è andata e va
progressivamente mutando, con le conseguenze, in termini di desertificazione
e tempeste di sabbia che arrivano a lambire la capitale, evidenziate anche
nelle recenti cronache da Pechino. Ma, ancora, è forse più corretto porsi il
problema in altri termini: è proprio l’arrivo dei cinesi nella prateria a causarne
la desertificazione o non è piuttosto la civiltà industriale nata proprio in
quell’occidente che Jiang Rong vede come erede fisico e spirituale del popolo
dei lupi? Certo è che le parti in cui il testo si sofferma a descrivere la natura,
le abitudini di certe specie animali, i rapporti che ne stabiliscono equilibri e gerarchie sono quelle più felici e coinvolgenti e che non mancheranno di
fare presa sul pubblico occidentale, probabilmente più sensibile a queste
tematiche che non alle diatribe psicologiche tra mongoli e cinesi.
Un ultimo aspetto che non va tralasciato è quello, prima appena
accennato, del forte richiamo, molto probabilmente del tutto involontario,
esercitato da Lang Tuteng sull’ambiente del business, tanto che qualcuno ha
voluto interpretare il libro come un prontuario di linee guida per le tattiche
commerciali. Una voce su tante, quella di Zhang Ruimin, CEO del colosso
Haier, esalta le tecniche adottate dal lupo per conseguire l’immancabile
successo: accurata preparazione della battaglia, tempestività nel cogliere
il momento più adatto per agire, pazienza, lavoro di squadra. Dopo la
pubblicazione del libro escono subito quattro manuali che insegnano a
sbaragliare la concorrenza commerciale seguendo proprio le strategie del
lupo.
Tra i vari saggi, commentari e libri che esaltano il comportamento
aggressivo del lupo, fioriti dopo la pubblicazione di Lang Tuteng, un po’
come avviene in tutto il mondo, per intenderci, sul filone di successi come
Harry Potter (e questo fenomeno già da solo dà un’idea della risonanza che
avuto in Cina Il Totem del Lupo) è certamente interessante Tibetan Mastiff,
(“Zang ao”, Beijing Renmin wenxue chubanshe) di Yang Zhijun, uscito nel
2005, che sembra proporre un’alternativa forse un po’ polemica rispetto
all’esaltazione del lupo: il mastino tibetano, infatti, pur nella sua indiscutibile
possanza fisica è comunque una sorta di gigante buono, che mette la sua
docile collaborazione e la sua lealtà al servizio all’uomo.
Non mancano anche i progetti cinematografici per portare Lang Tuteng
anche sul grande schermo, anche se l’altalena di conferme e smentite (si
parlava di un colossal per la regia di Peter Jackson, però mai confermato)
non permette ancora di dare notizie attendibili.
Certo quest’opera, abile mescolanza di fiction e saggio antropologico, ha
toccato un nervo scoperto nella cultura cinese, quello dell’identità culturale,
della definizione del carattere di un popolo. Quanto questo possa affascinare
il lettore occidentale è una scommessa ancora tutta da giocare.
MONDO CINESE N. 127,
APRILE-GIUGNO 2006