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POLITICA INTERNAZIONALE

La politica della Cina in Africa

di Francesca Cini

1. Introduzione 

La stampa occidentale moltiplica da più di un anno gli articoli sulla presenza cinese in Africa1 insistendo sulle ragioni economiche, in particolare la ricerca di fonti energetiche per alimentare il suo impetuoso sviluppo, come cause principali2.
Quasi in risposta a questo interesse, il governo cinese ha pubblicato il 12 gennaio 2006 in commemorazione del 50° anniversario dell’inizio ufficiale delle relazioni diplomatiche fra la Cina e i Paesi africani, un documento intitolato “La politica della Cina in Africa” con l’esplicito intento di “presentare al mondo gli obiettivi della politica cinese in Africa, i mezzi per raggiungerli e le proposte di cooperazione in vari campi…”3.
Mentre quasi tutti gli osservatori occidentali concordano nello spiegare questo fenomeno come una ulteriore prova dello sviluppo economico cinese e ne analizzano la novità e le implicazioni per le imprese occidentali o per le deboli economie africane, il documento del governo cinese è un vero e proprio manifesto dell’attuale politica della Cina in Africa.
Senza negare l’importanza dell’economia, vorremmo mostrare come, lungi dal considerarsi un nuovo attore internazionale di primo piano, la Cina considera ancora, come nel periodo maoista, la politica estera strumento della politica interna. La priorità data in Africa alla questione taiwanese (dal governo cinese stesso definita questione interna) e alla definizione dei diritti umani basata sulla non-ingerenza (ad uso puramente interno) ne sono solo un’ulteriore dimostrazione.

2. Un po’ di storia 

La penetrazione economica e politica del governo e del Partito comunista cinese in Africa non è una novità. La conferenza di Bandung del 19554 segna l’inizio di un movimento dei paesi in via di sviluppo in contrapposizione ai blocchi USA e URSS, nati alla fine della Seconda guerra mondiale. Il viaggio di Zhou Enlai in Africa nel 1963-645, primo leader cinese a metter piede sul suolo africano dopo il 1949, aveva come scopo principale il sostegno dei movimenti rivoluzionari di liberazione nazionale e dei giovani governi socialisti usciti dalla decolonizzazione, nella ricerca di alleati del Terzo Mondo per rompere l’isolamento diplomatico della Cina.
Queste alleanze hanno portato negli anni ’60 e ’70 a numerosi riconoscimenti della Cina popolare da parte di governi africani. Tra gli altri, Togo, Benin, Guinea Equatoriale, Guinea, Sierra Leone e Mauritania possono oggi vantare più di 30 anni di fedeltà alla Cina e alla sua politica di “un solo paese” contro la rivale Taiwan che ha avuto successi alterni in altri paesi africani.
Queste alleanze politiche, fondate anche allora sul principio della coesistenza pacifica, sono sempre state accompagnate da finanziamenti economici simbolici quali stadi, palazzi presidenziali e di governo e di infrastrutture (ferrovia Tanzania/Zambia per evitare il Sudafrica allora nemico), oppure socialmente utili, come ospedali forniti di competente personale medico, oltre che ideologicamente utili come le borse di studio offerte a studenti africani ora membri influenti delle classi politiche locali.
Dopo un periodo di rallentamento negli anni ’80 e ‘90 in cui il governo (ed il Partito comunista) cinese hanno avuto priorità interne, le relazioni con l’Africa sono state rilanciate con il primo Forum Cina/Africa tenutosi a Pechino dal 10 al 12 ottobre 2000, a cui hanno partecipato rappresentanti di 45 paesi africani6.
Proposto congiuntamente dalla Cina e da alcuni paesi africani il Forum aveva come scopi tra gli altri di adattare le relazioni sino-africane ai cambiamenti intervenuti sulla scena internazionale e di conformarsi ai requisiti della globalizzazione economica.
La dichiarazione pubblicata alla fine del Forum7, pur mantenendo il rispetto per il principio di coesistenza pacifica stabilito a Bandung, cambia profondamente il contenuto ideologico basato sul sostegno ai movimenti per la liberazione nazionale di stampo socialista e stabilisce nuovi paradigmi ideologici il cui solo legame con gli anni di Bandung è l’opposizione ai valori occidentali (il crollo dell’URSS ha auto-eliminato il secondo avversario dei paesi non allineati)8. La dichiarazione precisa infatti che l’attuale mancato sviluppo è dovuto al “pesante fardello rappresentato dal debito che rende inutili gli sforzi dei paesi africani e impoverisce le loro economie”9.
Una storia comune (vittoriose lotte di liberazione nazionale) e un comune presente (la Cina è il più grande paese in via di sviluppo e la maggior parte dei paesi in via di sviluppo si trova in Africa) sono alla base dei 10 punti che regolano le relazioni sino-africane del terzo millennio. Sorvolando sui più generici di mutuo aiuto e cooperazione, ci interessa qui soffermarci su due punti in particolare.
Nel terzo punto riconoscendo il ruolo del Consiglio di Sicurezza dell’ONU come principale garante della pace internazionale, i paesi africani ottengono dalla Cina il sostegno alla loro richiesta di entrare a farne parte10 e la Cina alleati sicuri in questa sede. Questa ricerca di alleati all’ONU può essere letta in due modi: continuità con la politica di Bandung e quindi a uso interno (rafforzare i partiti fratelli), ma anche tentativo di impostare una nuova politica estera cinese, mirante a prendere il posto delle ex-potenze coloniali in declino.
Ma il punto più importante è indubbiamente il quarto in cui la Cina, con l’appoggio entusiasta dei regimi africani più autoritari, afferma in un trattato internazionale la “sua” definizione dei diritti umani.
In questo punto si riconosce che “l’universalità dei diritti umani e delle libertà fondamentali deve essere rispettata” ma, si specifica, “portando avanti e sostenendo la diversità nel mondo…”. La rottura con la vecchia ideologia maoista è poi enunciata: “Ogni paese ha diritto di scegliere, nel corso del suo sviluppo, il suo sistema sociale, modello di sviluppo e modo di vivere secondo le proprie condizioni nazionali.” Per chi non avesse ancora capito la spiegazione è chiara e dettagliata: “Paesi con diversi sistemi sociali, livelli di sviluppo, valori e contesti storico-culturali diversi hanno diritto di scegliere ciascuno il proprio approccio e modello di promozione e protezione dei diritti umani. La politicizzazione dei diritti umani e l’imposizione di condizioni legate al rispetto dei diritti umani all’aiuto economico devono essere combattute vigorosamente giacchè costituiscono esse stesse una violazione dei diritti umani”11.
Ci permettiamo di insistere su questo punto che costituisce la base dell’attuale politica cinese in Africa e che, a nostro parere, è la principale ragione del suo successo.
Da allora l’attività di espansione cinese in Africa ha conosciuto una crescita notevole, di cui sono testimoni le cifre del commercio estero sino/africano, l’ammontare degli investimenti (reali e promessi) cinesi in Africa e i numerosi articoli dedicati a questo argomento12.
La necessità di rompere l’isolamento mondiale e la volontà di costruire una linea alternativa alla politica isolazionista di Mao, spinsero Zhou Enlai a visitare l’Africa più di 40 anni fa. Oggi, grazie anche a quel viaggio e a quella impostazione politica il vecchio sogno di riportare la Cina “al centro del mondo” (con termini moderni, a farne una superpotenza) e a riunificarla, è più vicino. Questa è la ragione che ha spinto gli odierni dirigenti del Pcc a rilanciare una “nuova” politica africana, le cui ripercussioni economiche, se sono proporzionalmente più importanti che al tempo di Zhou Enlai, non ne sono per questo meno strumentali.

3. Dalla dichiarazione del Forum dell’ottobre 2000 al documento del 12 gennaio 2006 

In questi cinque anni politica ed economia cinese hanno viaggiato mano nella mano attraverso tutto il continente africano. Impossibile elencare o contabilizzare le visite ufficiali e i contratti firmati o promessi ai vari capi di stato africani e viceversa le visite di questi ultimi in Cina. Jiang Zemin recandosi tre volte in Africa durante il suo mandato ha ripreso la tradizione di Zhou Enlai che Deng Xiaoping aveva interrotto. Nel gennaio 2004 Hu Jintao, che cumula da 9 mesi la doppia carica di Segretario del Partito e Presidente della Repubblica popolare, combina un periplo africano e una visita in Francia dove è ricevuto con grandi onori.
Da allora la politica africana è strettamente collegata a quella della Francia (visita del Ministro degli Esteri cinese a Parigi e in Africa nel febbraio 2006) dal cui indebolimento in alcuni paesi africani la Cina cerca di trarre vantaggio13.
Negli ultimi due anni, sei dei nove principali dirigenti cinesi hanno visitato l’Africa e più di 20 capi di stato o di governo africani si sono recati in Cina14.
Da parte sua il Partito comunista cinese organizza viaggi di studio per delegazioni di alti dirigenti africani. Nel giugno 2005, 20 esponenti di 9 paesi africani sono stati invitati dal dipartimento internazionale del Comitato centrale del Pcc a effettuare un viaggio di studio in Cina. Secondo il dipartimento, 104 rappresentanti di partiti al potere, venuti da 24 paesi africani, hanno partecipato a questo genere di seminari dal 1998 a oggi15.
La presenza ufficiale cinese in Africa consiste in 800 addetti militari, 78000 lavoratori (impiegati sui cantieri cinesi e isolati dal resto della popolazione), e sono stati creati centri di promozione del commercio estero cinese in 11 paesi16.
Se insistiamo sull’aspetto politico degli scambi sino-africani è anche perchè nonostante l’aumento innegabile delle cifre del commercio estero e degli investimenti, le transazioni commerciali con l’Africa (la cui maggior parte avviene tra l’altro con il solo Sud Africa) rappresentano solo il 3% del totale del commercio estero cinese e rimane estremamente difficile ottenere cifre realistiche sugli investimenti cinesi nel continente africano17. Significativa per i conoscitori della cultura cinese, la costruzione di faraoniche ambasciate in molti paesi africani18 nonchè di palazzi per i governi locali accanto a più utili aereoporti, ferrovie e ospedali19.
Senza dilungarci sulla natura degli scambi sino-africani, indichiamo qui l’importanza analizzata in dettaglio da numerosi osservatori occidentali, dell’importazione e dell’investimento cinese nel settore energetico e in particolare in quello petrolifero di cui parleremo più in dettaglio20.
Politicamente importante per conquistarsi l’alleanza dei governi africani è la decisione di annullare tutto o parte del debito di 31 paesi africani21 sui 47 con cui la Cina ha relazioni diplomatiche, per un totale di 1,3 miliardi di dollari, cifra di per sè poco rilevante e ampiamente compensata dall’aumento del commercio estero. La Cina ha inoltre accordato a 28 paesi africani l’abolizione delle tasse all’importazione per 190 articoli, per promuovere l’export africano in Cina.
Infine con il “sorpasso” della Gran Bretagna avvenuto l’anno scorso, la Cina è ora terzo partner commerciale dell’Africa dopo gli Stati Uniti e la Francia e il secondo dietro la Francia nell’Africa centrale e occidentale22.

4. Il documento sulla politica cinese in Africa, politica estera o politica interna? 

Pechino ha quindi ottenuto notevoli successi in terra africana. Il Forum del 2000 prevedeva già una serie di scadenze, quali la riunione ad alto livello tenutasi nel 2005 ad Addis Abeba con la partecipazione di 46 paesi africani e il prossimo secondo Forum che sarà organizzato a Pechino nel 2006.
Perchè dunque pubblicare un documento ufficiale unilaterale per definire la propria politica africana?
Melange di linguaggio socialista e diplomatico, il testo è più pragmatico della dichiarazione del 2000 e, dopo tre parti generiche (La posizione e il ruolo dell’Africa; Le relazioni tra la Cina e l’Africa; La politica cinese in Africa), consiste in un elenco dei diversi campi in cui realizzare la cooperazione sino-africana.
La presentazione del documento del portavoce del Ministero degli Esteri e della China International Radio (che ha inaugurato il 27 gennaio 2006 la sua prima antenna estera a Nairobi)23 ne sottolineano i due punti realmente importanti, senza dilungarsi su quelli più pragmatici. Mentre il testo originale annuncia solo nella seconda pagina la condizione imposta ai partner africani, unico punto che non compare nella dichiarazione congiunta del 2000, la CRI lo presenta all’inizio poichè si tratta in effetti della condizione senza la quale il resto decade. “Il principio di una sola Cina costituisce la base politica per stabilire e sviluppare le relazioni fra la Cina e i Paesi africani. Il documento ha indicato che la Cina, sul principio di una sola Cina, vuole stabilire e sviluppare rapporti con tutti i paesi che ancora non li hanno”24.
Questa condizione (rompere con Taiwan) è il principale nodo di politica interna dell’attuale dirigenza cinese che si è prefissa di risolverlo prima dei giochi olimpici del 2008 25.
L’Africa è un terreno di scontro con Taiwan da lungo tempo e l’esempio del Sud Africa mostra a che punto la posizione della Cina sia irriducibile. Uno degli ardui compiti di Nelson Mandela è stato quello di tentare, invano, di convincere i cinesi al “doppio riconoscimento”. Vicino a Pechino dal punto di vista ideologico e quindi più che disponibile a riconoscere la Cina popolare, Mandela avrebbe preferito mantenere le relazioni diplomatiche con Taiwan, allora settimo partner commerciale dell’Africa del Sud. Nonostante sei anni di viaggi e negoziati, Pechino è rimasta inflessibile e nel 1997 ha minacciato Pretoria di chiudere il consolato di Hong Kong se non rompeva con Taiwan26.
Più di recente il Senegal ha ceduto alle stesse pressioni27 e il Chad rimane l’ultimo grande stato africano a resistere a Pechino28.
Secondo punto importante, già annunciato chiaramente nella dichiarazione del 2000 e ribadito dal portavoce del Ministero degli esteri è “prima di tutto pensiamo alle necessità degli africani, stabiliamo i progetti di aiuto secondo le loro necessità; secondo non aggiungiamo nessuna condizione politica, non pesiamo su di loro attraverso gli aiuti economici”29.
Entrambi questi punti, la pratica e l’esigenza che sia praticata una politica di “non ingerenza” e l’impegno a sostenere la Cina popolare nel suo progetto di recupero di Taiwan sono i pilastri dell’attuale politica cinese, necessari a mantenere la stabilità interna e la supremazia del Partito comunista. Come nel passato, la politica interna cinese detta e condiziona quella estera che a sua volta permette ai dirigenti al potere di rafforzare la propria posizione interna.

5. Gli investimenti economici, la ricerca di nuove fonti energetiche e i diritti dell’uomo 

Abbiamo già accennato ai numerosi contratti firmati dal governo cinese e dalle principali imprese statali nel campo dello sfruttamento petrolifero e minerario.
Sudan, Angola e Congo sono i fornitori da cui la Cina importa la maggior parte del 28% del petrolio in provenienza dall’Africa. A questi si aggiungono nuovi contratti con Gabon, Nigeria e Guinea Equatoriale e nel futuro Costa d’Avorio, Mauritania e Niger in cui i cinesi si lanciano nel campo dell’esplorazione di nuovi probabili giacimenti30.
Il caso del Sudan è il più noto ed emblematico ma purtroppo non il solo esempio della tendenza cinese a inserirsi nei mercati africani a seguito di una crisi legata alla violazione dei diritti umani, a un livello di corruzione intollerabile per gli standard occidentali o alla fine di guerre rovinose.
La Cina si è inserita in Angola e in Sierra Leone, condannate dalla comunità internazionale per corruzione. Ha ottenuto le concessioni petrolifere in Sudan nonostante le sanzioni ONU (a cui si era dapprima opposta) e approfittando del fatto che le compagnie occidentali non potevano partecipare agli appalti ed è il principale alleato dello Zimbabwe31.
Meno conosciuta è la partecipazione cinese alla costruzione della diga Merowe/Hamadab sempre in Sudan, che prevede il displacement di 50.000 persone in terre aride e desertiche. Violenze sono in corso tra i lavoratori cinesi, “importati” dalla Cina e assunti per la durata del progetto e la popolazione locale, a cui è impedito l’accesso ai pozzi.
Violenze fra “coloni” cinesi e abitanti locali sono anche avvenute nello Zimbabwe, altro paese condannato dalla comunità internazionale, sottoposto a sanzioni ONU che la Cina ha violato concludendo accordi e firmando numerosi contratti con il governo di Mugabe.
La Cina non ha dichiarato alcuna vendita d’armi al registro ONU dal 1996, ma rimane comunque il quinto fornitore d’armi mondiale e non nasconde di volerne diventare il primo nel 2020. Benchè questo passi relativamente inosservato, alcuni osservatori denunciano vendite d’armi cinesi a Etiopia ed Eritrea durante il conflitto, allo Zimbabwe e al Sudan come pure in Namibia, Sierra Leone, Angola, Nigeria, Mali e probabilmente in Costa d’Avorio32.

6. Conclusioni 

La presenza economica del governo cinese in Africa è molto simile a quella delle potenze occidentali. Lo sfruttamento delle materie prime africane è sempre stato uno, se non il principale motore della conquista coloniale dei secoli scorsi, quando il bisogno di materie prime era necessario al loro sviluppo. La Cina non è che l’ultima arrivata. Senza illudersi (come sembrano fare invece alcuni governi africani) che la Cina si comporti meglio dei suoi predecessori, questo paese ha peraltro diritto a investire in Africa a pari condizioni dei suoi concorrenti.
La novità non risiede in questo ma nel fatto che la Cina, arrivata allo sviluppo tecnologico ed economico nel terzo millennio, agisce in una situazione mondiale molto diversa.
Da circa 50 anni i governi occidentali e le multinazionali sono soggette a pressioni da parte dell’opinione pubblica e delle organizzazioni non governative che li hanno gradualmente costretti a limitare i danni ecologici e a rispettare i diritti umani nei paesi in cui investono. Tutto questo è ben lontano dalle preoccupazioni del governo cinese.
Sempre più richieste come forza d’interposizione nei numerosi conflitti interafricani, le ex potenze coloniali hanno (direttamente o attraverso i Caschi Blu dell’ONU) un doppio ruolo di aggressore e pacificatore che crea politiche complicate ma almeno contradditorie nei confronti dei paesi africani. Attaccati all’interno dai loro stessi media, e dall’una o dall’altra parte in conflitto, se non da entrambe, obbligati a mostrarsi al di sopra delle parti anche quando ciò non corrisponde ai loro interessi, i governi europei e americano cominciano a perdere terreno.
Le multinazionali sono anch’esse sempre più criticate e controllate dalle ONG e obbligate a rispettare i trattati internazionali in materia di ecologia e di diritti umani, nonchè a rispettare le sanzioni imposte ad alcuni stati dall’ONU.
Tutto questo non è valido per il governo cinese e per le sue imprese. Privi di libertà di stampa e d’espressione i cittadini cinesi non sono in grado di contestare alcuna scelta del governo. Proibite sul suolo cinese le maggiori ONG internazionali da parte loro perdonano alla Cina atteggiamenti che condannano con vigore quando sono assunti da governi occidentali. Una sorta di immunità permette alla Cina di violare le sanzioni contro lo Zimbabwe nel 2002 e quelle contro il Sudan nel 2005 e di assicurarsi contratti fruttuosi in appalti senza concorrenti passando del tutto inosservata33.
Come analizzato in questo articolo, da parte sua il governo cinese, appoggiato da molti governi africani, non nasconde un diverso approccio morale ai principi dei diritti umani rispetto alla concezione occidentale e ne rivendica anzi una contrapposizione.
La sfida cinese alle ex-potenze coloniali non è quindi solo sul piano economico, nè unicamente motivata dalla legittima necessità di sviluppo economico del paese, ma per lo meno altrettanto sul piano politico, motivata, a nostro parere, da meno legittime preoccupazioni di politica interna.

 

MONDO CINESE N. 126, GENNAIO-MARZO 2006

Note

1 Quando parliamo di Cina intendiamo unicamente il governo (e/o Partito comunista) cinese (dalla cui politica derivano anche gli investimenti delle grosse compagnie statali cinesi) mentre, senza negarne interconnessioni e influenze reciproche, consideriamo una questione ben distinta, forse la vera novità in questo processo, l’aumento del la presenza dei cinesi, in quanto privati cittadini e imprenditori, in Africa. 
2 Dal punto di vista accademico, segnaliamo due articoli di F. Lafargue, uno più generico, “La Chine, une puissance africaine”, in Perspectives chinoises, n. 90, luglio/agosto 2005, pp. 2-10 e uno più in particolare sul petrolio, “Etats-Unis, Inde, Chine: la compétition pour le pétrole africain”, in Monde Chinois, n. 6, inverno 2005-2006, pp. 19-31.
3 China’s African Policy” in english.peopledaily.com.cn, gennaio 2006, per la presentazione ufficiale si veda anche “Cina: il primo documento sulla politica cinese nei confronti dell’Africa”, it.chinabroadcast.cn (Radio Cina Internazionale), 12 gennaio 2006. 
4 18-24 aprile 1955. Organizzata da Birmania, Ceylon, India, Indonesia e Pakistan con la partecipazione di 29 paesi asiatici e africani. Al centro degli incontri nella città indonesiana le questioni politiche della decolonizzazione in Asia e in Africa, ma anche il contenzioso tra Stati uniti e Repubblica popolare cinese, presente ai lavori con una delegazione guidata da Zhou Enlai. I lavori si conclusero con la condanna di tutte le forme di oppressione di tipo coloniale, inclusa quella della supremazia sovietica in Europa orientale. I dieci punti della Dichiarazione finale, sulla pace e la cooperazione tra i popoli, ispirati dall’indiano Nehru, sono alla base del movimento dei paesi . (Dizionario di storia, www.pbmstoria.it) 
5 “In un viaggio afro-asiatico - fra il 13 dicembre 1963 e il 29 febbraio 1964 (Repubblica Araba Unita [Egitto], Algeria, Marocco, Tunisia, Mali, Guinea, Sudan, Etiopia, Somalia, Albania, Birmania, Pakistan e Ceylon) Zhou Enlai incoraggiò le dirigenze degli Stati visitati nello sviluppare i processi rivoluzionari, sfidando a) il prestigio dell’Unione Sovietica nel Terzo Mondo; b) la NATO, attraverso lo stabilimento di ottimi rapporti con la Francia; c) il Patto di Varsavia, con un’alleanza politico-economica con l’Albania, che ancora formalmente ne faceva parte”, G. Armillotta, “La Grande Rivoluzione Culturale Proletaria e le necessità della politica mondiale”, in Linea Tempo, n. 3, dicembre 1999, p. 112.  
6 Si veda “Creation of the Forum”, nella rubrica International di China.org.cn, 10 dicembre 2003, www.china.org.cn/english/features/China-Africa/82047.htm  
7Beijing Declaration of the Forum on China-Africa co-operation”, ottobre 2000, testo integrale su www.focac.org/eng/zyzl/hywj/t157833.htm
8 “All’alba del nuovo secolo, ci sono ancora seri fattori di destabilizzazione nel mondo e un grosso gap tra il ricco Nord e il povero Sud…”, “riaffermiamo che l’ingiustizia e l’ineguaglianza che caratterizzano l’attuale sistema internazionale … impediscono lo sviluppo dei paesi del Sud…”. “Notiamo che la globalizzazione … avvantaggia i paesi sviluppati mentre pone la maggior parte dei paesi in via di sviluppo, specialmente le piccole e vulnerabili economie … in Africa, in svantaggio…”, in “Beijing Declaration of the Forum on China-Africa co-operation”, op.cit. 
9  Idem.
10 Argomento che la Cina utilizzerà magistralmente 5 anni dopo per ottenere il riconoscimento diplomatico da parte del Senegal e il conseguente sostegno alla sua politica di “un solo paese”. Manovra che non le impedisce di sostenere anche la candidatura della Nigeria al Consiglio di Sicurezza. 
11Beijing Declaration of the Forum on China-Africa co-operation”, op.cit
12 “La Chine, une puissance africaine”, op.cit.; D. Thompson, “China’s soft Power in Africa: From the ‘Beijing Consensus’ to Health Diplomacy”, in China Brief, vol. V, n.21, 13 ottobre 2005, pp. 1-4, J.P. Tuquoi, “La Chine pousse ses pions en Afrique”, Le Monde, 11 gennaio 2006, “China-Africa trade jumps by 39%”, BBC, 6 gennaio 2006, F. Londei, Africa, un grande supermarket cinese, Libreria Editrice Goriziana, 16 gennaio 2006 in www.paginedidifesa.it/2006/londei_060116.html, conferenza di R. Dowden, direttore, alla Royal African Society, “China comes to Africa”, settembre 2005. 
13 La situazione in Costa d’Avorio, dove la Cina ha appena costruito un’ambasciata supermoderna e gigantesca, viene utilizzata dalla Cina per far pressione sulla Francia, principale alleato cinese nell’Unione Europea sulla questione della soppressione dell’embargo sulle armi. La Cina ha minacciato in febbraio 2006 di opporsi alle sanzioni contro la Costa d’Avorio volute dalla Francia e ha inoltre intenzione di investire nella ricerca del petrolio in questo paese. Da parte sua la Francia è inquieta dell’influenza cinese e le ambasciate francesi in Africa stanno compilando uno studio dettagliato, ancora non disponibile. J.P. Tuquoi, op.cit.
14Senior Chinese leaders plan simoultaneous visits to Africa in November”, BBC News, 10 novembre 2005.  
15Début du voyage d’études en Chine d’une délégation de partis africains”, Xinhuanet, 20 giugno 2005, in www.africatime.com/Senegal 
16 Tutte queste cifre sono dati ufficiali cinesi (“China fact and figures”, china.org.cn) e non riguardano i cittadini cinesi, imprenditori, medici, individualmente presenti nel continente. 
17 Commercio estero: le cifre ufficiali cinesi danno 18,48 miliardi di dollari nel 2003 (F. Lafargue, op.cit.) e 37 miliardi di dollari nel 2005 (“Friend or forager? How China is winning resources and the loyalties of Africa”, Financial Times, 23 febbraio 2006) mentre altre fonti riducono a “più di 20 miliardi di dollari dal 2000 a oggi” (The Guardian, 22 aprile 2005). Sugli investimenti è ancora più difficile fornire una stima. Lafargue sostiene che la Cina è oggi il quinto investitore al mondo e che nel 2002 l’8,7% dei suoi investimenti era destinato all’Africa (per un totale di investimenti cumulati dal 1979 di 444 miliardi di dollari) mentre la rivista Conjoncture, pubblicata dalla BNP Paribas (n. 10, dicembre 2005, pp. 21-40), analizza diversamente gli stessi dati della CNUCED e nota una diminuzione degli investimenti cinesi all’estero nel 2002, diminuzione accentuatasi nel 2003 e nel 2004. Le cifre disponibili per il 2005 sono di 175 milioni di dollari in investimenti diretti nei primi dieci mesi (IRIN 20 gennaio 2006). Poco significative sono le altre cifre spesso citate di 30 miliardi di dollari investiti nelle infrastrutture o i contratti firmati dalle 700 compagnie cinesi in Africa per un totale di 750 milioni di dollari visto che non si precisa il periodo a cui queste somme corrispondono (BBC, 10 novembre 2005, ripreso dall’agenzia Xinhua). 
18 Addis Abeba, Abidjan. 
19 J.P. Tuquoi, op.cit.  
20 Oltre al già citato “Etats-Unis, Inde, Chine : la compétition pour le pétrole africani”, op.cit., pp.19-31, vedi anche P. Sabatier, “Energie: l obsession qui fait courir Pékin”, Libération, 5 dicembre 2005, p. 4, P. Airault, “Les enchères montent”, Jeune Afrique L’Intelligent, n. 2346-47, 25 dicembre-7 gennaio 2005, pp. 80-81, e dello stesso autore “Du pétrole au gaz”, Jeune Afrique L’Intelligent, n. 2353, 12-18 febbraio 2006, pp. 60-61. 
21 Un’altra delle ragioni che ha convinto il Senegal a riconoscere la Cina al posto di Taiwan. 
22 “Friend or forager? How China is winning resources and the loyalties of Africa”, op.cit. e J.P. Tuquoi, op.cit.
23 Notizia d’agenzia, AFP, 27 gennaio 2006.
24 Idem. Nel testo ufficiale: “The one-China principle is the political foundation for the esta blishment and development of China’s relations with African countries and regional or ganizations. The Chinese Government appreciates the fact that the overwhelming majority of African countries abide by the one-China principle, refuse to have official relations and contacts with Taiwan and support China’s great cause of reunification. China stands ready to establish and develop state-to-state relations with countries that have not yet established diplomatic ties with China on the basis of the one-China principle.” (“China’s African Policy”, People’s daily online, 12 gennaio 2006, http://english.people.com.cn).
25 Ipotesi dell’autore, corroborata da varie misure prese dal governo cinese negli ultimi due anni, anche in vista delle elezioni taiwanesi del 2008. Questo scopo viene anche perseguito in Africa dove il Senegal ha riconosciuto la Cina rompendo con Taiwan il 25 ottobre 2005, mentre il Chad è ancora terreno di scontro. 
26L’Afrique du Sud entre le ‘choix moral’ de Taïpeh et le rapprochement avec Pékin”, Marchè tropicaux, n. 2652, 6 settembre 1996, p. 1937 e Frank Ching, “China Marks its own rules”, Far Eastern Economic Review, vol. 159, n. 38, 19 settembre 1998, p. 874.
27 Il Senegal ha riconosciuto la Repubblica popolare cinese il 25 ottobre 2005 nell’illusione di un appoggio della Cina alla domanda di un seggio al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Si veda anche la nota 10.
28 Gambia, Sao Tome & Principe, Burkina Faso, Chad, Malawi e Swaziland sono gli Stati africani che riconoscono ancora Taiwan.
29 Idem, nel testo ufficiale la non interferenza è dichiarata in due punti, uno che riguar da le relazioni del Pcc, “The Communist Party of China (CPC) develops exchanges of various forms with friendly political parties and organizations of African countries on the basis of the principles of independence, equality, mutual respect and non-interfe rence in each other’s internal affairs.” E il secondo più generico che riguarda lo Stato cinese, “In light of its own financial capacity and economic situation, China will do its best to provide and gradually increase assistance to African nations with no politi cal strings attached.” (“China’s African Policy”, op.cit.)
30Etats-Unis, Inde, Chine: la compétition pour le pétrole africain”, op.cit.
31 S. Marks, “China in Africa - the new imperialism?”, http://www.pambazuka.org/en/category/features/32432, 2 marzo 2006.
32 In China Brief, op.cit., si leggono quattro articoli che documentano le attività cinesi in campo militare in Sudan e nel Corno d’Africa: D. Thompson, op.cit., pp. 1-4, I. Taylor, “Beijing’s Arms and oil Interests in Africa”, pp. 4-6, D. Shinn e J. Eisenman, “Dueling Priorities for Beijing in the Horn of Africa”, pp. 6-9 e Y. Shichor, “Sudan: China’s Ou tpost in Africa”, pp. 9-11.
33 Alcune piccole ONG cominciano a reagire, la Sudan Organisation Against Torture ha accusato Cina, Russia e Algeria di non preoccuparsi troppo della situazione umanitaria nel Darfur, ma nè Amnesty International, nè Human Rights Watch hanno condannato questi paesi per aver bloccato l’applicazione delle sanzioni al Sudan. Cfr. J. Spurzem, “Rights groups urge U.N. Action on Sudan”, IPS (Inter Press Service News Agency), 30 novembre 2005.

 

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