1. Come si è giunti alla rivalutazione dello yuan
Il 21 luglio 2005 la Cina ha abbandonatoI la parità fissa di 8,28 yuan per dollaro che
durava da 11 anni. Lo yuan fluttuerà sulla base del valore di alcune divise sul modello già sperimentato da anni dal dollaro di Singapore noto anche come
float band crawl, ovvero, una fluttuazione entro una certa banda con un movimento controllato verso un apprezzamento.
La Malesia ha subito seguito, come era previsto1., l’esempio cinese e altri paesi dell’area si
appresterebbero a farlo soprattutto se, come a tutti sembra, questo fosse solo un primo passo.
Vi erano stati diversi segnali che lasciavano prevedere questa operazione come, ad esempio,
l’espressione: “migliorare il rapporto di cambio della divisa cinese” usato dalla banca centrale cinese fin dalla primavera 2003 e la frase: “ulteriore miglioramento del regime di cambio dello yuan” usata nell’ agosto dello stesso anno in un documento ufficiale della stessa banca2.. Il Credit Suisse3. - come d’altronde gran parte del sistema bancariofin dal febbraio 2005 prevedeva in modo esplicito una
rivalutazione imminente, sottolineando però la scarsa efficacia degli effetti sulla bilancia dei pagamenti Cina-USA per pareggiare la quale entro il 2008 occorrerebbe una rivalutazione dello yuan pari al 50%, un valore assurdo che avrebbe effetti catastrofici a livello mondiale.
Secondo le concezioni comunemente accettate in materia di politiche, tecniche e strumenti di
economia e finanza, da almeno quattro anni il rapporto di cambio tra yuan e dollaro avrebbe dovuto essere modificato. In un regime di cambi liberi (ma la Cina per ora non lo è) il surplus di export della Cina dovrebbe aumentare la richiesta di divisa cinese per pagare i beni importati. Nel mercato valutario
questa richiesta dovrebbe portare ad un apprezzamento della divisa cinese. Questa operazione
dovrebbe indurre a un riequilibrio della bilancia dei pagamenti perché i beni cinesi costerebbero di
più, e quindi sarebbero acquistati in minor misura, mentre sarebbero più convenienti le merci straniere per le quali occorrerebbero meno yuan per acquistarle. Quindi in tempi medio-brevi si dovrebbe assistere a un riequilibrio
della bilancia dei pagamenti.
Inoltre una modifica nel rapporto di cambio nel senso di un apprezzamento dello yuan dovrebbe rallentare la crescita cinese mettendo il sistema al riparo dall’inflazione.
Questo paradigma è stato realizzato molte volte nel corso degli ultimi 150 anni, e in particolare, dalla data degli accordi di Bretton Woods (luglio 1944) è stato ripetuto seguendo percorsi noti e con
conseguenze prevedibili. Come si è detto tali regole valgono in un sistema di cambi liberi, in Cina
attualmente vige un regime di controllo dei cambi, come d’altronde è stato in molti altri paesi, tra cui l’Italia, fino a pochissimi anni fa’. Come è noto il tasso di cambio è sempre stato uno strumento di
politica finanziaria ed economica, un’espressione della sovranità di un paese. Ma il rapporto di
cambio è anche uno strumento di politica interna perché può privilegiare un settore di attività rispetto a un altro: una svalutazione favorisce indubbiamente l’industria di un paese, ma se questo è, ad esempio, un importatore di beni alimentari, il cittadino si troverà di fronte a un rialzo di prezzi. Ebbene, contrariamente a queste considerazioni, la rivalutazione dello yuan si è fatta aspettare al di là di ogni ragionevole attesa. Evidentemente, data la validità del paradigma esposto, confermata da un secolo e mezzo di storia, se questa volta le cose sono state condotte in maniera diversa, deve essersi verificato un insieme di condizioni non riscontrate nei casi precedenti. Quando si parla della Cina e qualche schema di ragionamento, già provato con successo in precedenza, non funziona si cerca
immediatamente una risposta nel campo della politica. Così un’ipotesi ricorrente è quella che il governo abbia voluto mantenere un rapporto di cambio inalterato perché conveniente. Ebbene, oggi nessuno Stato è in grado di imporre, se non per periodi brevissimi un rapporto di cambio in contrasto con il mercato. Il volume di scambi commerciali e di transazioni valutarie è tale che le riserve di qualsiasi paese sarebbero bruciate in breve tempo se utilizzate per difendere un rapporto di cambio insostenibile.
Evidentemente deve esserci qualche altra ragione per la quale il rapporto di cambio si sia mantenuto costante pur in presenza di una situazione oggettiva che, secondo vecchi criteri e paradigmi, avrebbe dovuto portare già da tempo a una rivalutazione dello yuan, certamente in un sistema di cambi flessibile, ma se pur con ritardo, anche in un regime di cambi controllati.
Ed è proprio su questo che vale la pena di soffermarsi. Per quale ragione, nonostante questo squilibrio duraturo, tanto da potersi definire strutturale della bilancia dei pagamenti, lo yuan abbia continuato ad avere un rapporto invariato rispetto al dollaro pari a 8.28.
Nell’ultimo anno vi sono stati numerosi studi in cui si sono sostenute le ragioni a favore di una
rivalutazione dello yuan, ma vi sono state anche valide obiezioni contro. Una sintesi di questi argomenti è stata fatta dalla BMO (Bank of Montreal Financial Group)4.. Il primo è l’attivo della bilancia commerciale cinese che nel 2004 è stato pari a 33 miliardi di dollari. Si può obiettare a questo fatto evidenziando che tale attivo è inferiore a quello degli anni ‘90, che in fondo questa cifra non è eccezionale rispetto al deficit commerciale degli USA che è stato di oltre 665 miliardi di dollari nel 2004 (cfr. ibidem). E’ vero che permane un’eccedenza commerciale elevata con gli USA,
ma parte di questo attivo è bilanciato dal passivo degli scambi con altri paesi asiatici; inoltre, osservando gli interessi della Cina, l’obiettivo deve essere l’equilibrio dei conti con l’estero in generale e non solo di quelli con gli
USA.
Si aggiunga che, se gli USA abolissero i divieti di esportazione per alcune tecnologie vi sarebbe un netto miglioramento della loro bilancia commerciale. Un altro fatto che viene ricordato a favore della rivalutazione è la grande massa di riserve valutarie calcolate oggi in 615 miliardi di dollari. Anche a questo si può dare una risposta: una parte di queste riserve sono capitali speculativi a breve.
Altro elemento che veniva a volte sollevato era che il rapporto fisso con un dollaro in ribasso ha di fatto svalutato lo yuan del 13% e che alla fine ciò avrebbe imposto una rivalutazione. Si può rispondere che tra il 1991 e il 2001 lo yuan, a causa del suo aggancio con il dollaro, è stato rivalutato del 30%5..
E infine il problema del surplus della Cina rispetto agli USA va anche collocato nella sua vera dimensione: la Cina rappresenta il 10% del volume totale degli scambi degli USA6., per cui qualsiasi rivalutazione ragionevole (10% o 15%) avrà sempre un peso modesto sul valore globale del deficit americano (1-1,5%) ancora meno secondo l’Asian Development Bank7. che ha valutato nell’1% la riduzione del deficit americano a fronte di una rivalutazione dello yuan del 22%, lungi quindi dall’essere la soluzione del problema. Inoltre va considerato che molti prodotti esportati sono costituiti da parti importate in Cina e poi assemblate in loco. Secondo il Financial Times8. il valore aggiunto in Cina spesso è modesto, anche solo il 15%. Quindi la rivalutazione dovrebbe rendere più economico l’acquisto dei componenti che vengono assemblati in Cina. Questo significa che chi si attende che grazie alla rivalutazione dello yuan le esportazioni cinesi diventeranno più care sarà deluso, secondo il Financial Times occorrerebbe un 25% di rivalutazione per aumentare il prezzo all’esportazione dei prodotti cinesi del 4%. In altra data, sullo stesso quotidiano9., il premio Nobel Joseph Stiglitz sostiene che il deficit commerciale degli USA, pari a 700 miliardi di dollari, è di nove volte superiore a quello tra USA e Cina e che quindi anche rivalutazioni più radicali servirebbero a ben poco.
Numerosi sono i commentatori convinti che il problema non sia in Cina ma negli USA. S. Venkitaramanan scrive che gli USA “abbaiano all’albero sbagliato se pensano che la rivalutazione cinese possa
avere qualche effetto benefico su di loro”10.. Si noti che l’Hindu Business Line è un quotidiano molto attento a quanto succede in Cina e ha sempre smentito le ipotesi che la rivalutazione cinese fosse la cura per i mali americani. In un numero precedente dello stesso quotidiano economico11., quando ancora si parlava di rivalutazione, ma non si sapeva ancora quando e quanto, viene presentata una semplice analisi da
cui emerge soprattutto che il primo partner economico della Cina l’UE, seguita da Giappone e USA, e cerca di rimuovere alcuni miti quali:
-La Cina ha aumentato i propri posti di lavoro nell’industria manifatturiera a spese di altri paesi. In realtà anche in Cina l’occupazione nell’industria è diminuita, anche se non come da altre parti.
-Il settore privato cinese sta conoscendo grandi profitti grazie al cambio vantaggioso. Bisogna tenere presente che vi sono colossali perdite nel settore pubblico.
-Un’operazione sui cambi rimuoverebbe gli squilibri delle bilance commerciali. Anche questo non è
provato. Nel corso della crisi del 1997 la Cina ha dimostrato che anche in presenza di modifiche della parità ha saputo rimanere competitiva. Un altro aspetto che viene messo in risalto è quello politico: la visita negli USA di Wen Jiabao prevista originariamente a settembre di quest’anno andava preparata con un gesto distensivo di fronte a una campagna che da tre anni si è fatta sempre più insistente per modificare i rapporti di cambio. Scriveva infatti il
China Business Time già il 12 febbraio 2003: “la domanda di una rivalutazione dello yuan è la più forte pressione che sta subendo la Cina dal 2003”. Non si dimentichi che lo scorso aprile 67 senatori americani avevano approvato una mozione di Schumer e Graham12. chiedendo dazi del 27,50% sulle importazioni cinesi se la Cina non avesse rivalutato. Va detto, tuttavia, che non tutta la classe politica americana è su questo punto della stessa opinione: vi sono parlamentari che ritengono che le importazioni dalla Cina e dall’Asia in generale contribuiscano a tenere bassi i prezzi americani e quindi garantiscano il potere di acquisto dei cittadini più poveri. Questa opinione è condivisa anche da centri di ricerca13. che sostengono che il consumatore americano, famiglie e aziende, hanno beneficiato dei bassi prezzi delle importazioni cinesi e che ora la produzione della Cina è bene integrata nella catena del valore delle imprese americane. Nello stesso studio si dice chiaramente: “se la Cina non avesse a disposizione un’eccedenza di dollari con cui acquistare i buoni del tesoro americano, il dollaro si deprezzerebbe, l’inflazione crescerebbe negli USA e così farebbero anche i tassi di interesse. Il costo in termini di posti di lavoro americani persi sarebbe molto più grande”.
2. Le reazioni del mondo economico e finanziario
Di questa rivalutazione vengono date letture economiche, ma anche politiche ed è ovvio perché la modestia del ritocco della parità con il dollaro è chiaramente un segno di buona volontà più che di sostanza. Il 26 giugno di quest’anno il premier Wen14. ha tenuto un discorso in occasione della sesta conferenza Asia Europa dei Ministri delle Finanze e ha delineato, a meno di un mese dall’annuncio della rivalutazione, le linee della politica valutaria cinese. Wen, dopo aver puntualizzato l’indipendenza e l’autonomia del paese a operare sui tassi di cambio,
ricorda come, nel corso della crisi del Sud est asiatico del 1997, la stabilità dello yuan abbia concorso alla ripresa delle economie di quei paesi. Poi usa la formula “iniziativa indipendente” per indicare che il contenuto, i tempi, le modalità di eventuali operazioni sulla divisa dovranno tener conto dei bisogni della Cina e dei possibili impatti sul quadro macroeconomico, la crescita economica, il mercato del lavoro, lo stato dal sistema finanziario, il livello di regolamentazione dei mercati finanziari, la resilienza delle imprese e gli effetti sul commercio con l’estero, e tutto questo tenendo d’occhio la situazione della bilancia commerciale e l’andamento dell’economia dei paesi vicini. Un quadro completamente diverso da quello che troviamo sui giornali occidentali in cui l’argomento principale sembra il deficit della bilancia commerciale degli USA, e la rivalutazione cinese spesso viene vista solo in quest’ottica.
Nello stesso discorso Wen, pur auspicando un sistema dei cambi più orientato al mercato e più flessibile, espone la necessità di effettuare cambiamenti con prudenza e gradualità, e lascia intendere che il controllo dei movimenti di capitali è destinato a restare a lungo.
E’ chiaro che una mossa come l’abbandono della parità sostenuta così a lungo, anche in presenza di un quadro che agli occhi occidentali non lo giustificava, ha ispirato una serie di commenti che vanno oltre il fatto specifico nella stampa occidentale più autorevole.
L’Economist15. esprime un forte apprezzamento per come le autorità cinesi hanno saputo gestire questa operazione riconoscendo che hanno agito meglio e più rapidamente di come usavano fare negli anni ‘90. L’Economist vede lo scopo della manovra non tanto nell’equilibrio della bilancia commerciale, ma nel raffreddamento pilotato dell’economia in una fase di surriscaldamento.
Un’altra visione interessante è quella del New York Times16. in cui si ricorda che negli anni ‘80 vi fu negli USA una campagna antigiapponese molto simile a quella cui assistiamo oggi nei confronti della Cina. Si sosteneva che il Giappone teneva artificialmente basso il valore dello yen. Il Giappone cedette e lasciò fluttuare lo yen cosicché il cambio da 259 yen per un dollaro del 1985 passò a 121 alla fine del 1987.
Secondo alcuni questa è stata la causa della fine del boom giapponese e dell’inizio dei problemi
economici di quel paese. Secondo il New York Times se le premesse sono le stesse, non lo sarà
altrettanto la conclusione: la Cina ha una crescita e un modello di sviluppo molto più orientati all’esterno di quanto non abbia il Giappone. La Cina si è dimostrata molto più aperta agli investimenti stranieri e soprattutto non è disposta a subire pressioni politiche dall’estero.
3. Conclusioni
E’ difficile formulare giudizi sui movimenti nei rapporti di cambio, in quanto essi hanno effetti molteplici e a volte contrastanti sia all’esterno che all’interno, e non sempre facilmente misurabili.
Dai commenti citati si possono trarre alcune considerazioni:
-L’entità della rivalutazione dello yuan è ininfluente sulla bilancia commerciale con gli USA. Il problema del deficit americano richiede altre analisi e altri interventi. Per cui la chiave di lettura della pressione americana per riequilibrare gli scambi non è convincente. Esiste invece una campagna di natura politica: ci si
propone a difensori di determinate categorie americane e si pretendono modifiche nei rapporti di
cambio a livelli assurdi che, qualora fossero attuate, arrecherebbero danni incalcolabili proprio agli USA.
-Molti hanno rivolto l’attenzione alla modifica del rapporto di cambio, ma forse andrebbero studiate con maggior attenzione le azioni di accompagnamento in termini di modernizzazione del mercato dei cambi che la Cina vuol mettere in atto.
-La Cina presta una grande attenzione ai paesi dell’Asia con cui ha la parte principale del proprio
commercio estero (Giappone 18%, Hong Kong 11.2%, Corea 9.5%, Taiwan 8.4 cui vanno aggiunti i paesi dell’ASEAN - Brunei, Cambogia, Indonesia, Laos, Malesia, Filippine, Singapore, Tailandia, Vietnam - con 11%).
-La classe dirigente cinese sta dimostrando di saper condurre queste operazioni di ammodernamento con competenza riconosciuta da un settimanale come l’Economist molto severo in questi giudizi (cfr. nota 14).
-Vi sono ragionevoli previsioni di una crescita in tempi lunghi del valore della divisa cinese. Questo fatto potrebbe un giorno incoraggiare paesi stranieri a inserire lo yuan nelle proprie riserve valutarie. Ovviamente ciò potrà avvenire soltanto una volta ottenuta la piena convertibilità dello yuan.
Ma questa sola ipotesi è lo stesso affascinante e assolutamente impensabile solo pochi anni fa.
In conclusione, le dimensioni della Cina, e il suo coinvolgimento nell’economia mondiale, sono tali che forse i paradigmi che si sono dimostrati validi in passato
vanno riesaminati. E’ quindi necessario valutare i dati e le tendenze economiche che provengono dalla Cina con uno spirito nuovo se si vogliono costruire scenari credibili e di conseguenza trarne previsioni attendibili.
MONDO CINESE N. 124, LUGLIO-SETTEMBRE
2005
Note
1 Arnold Wayne, “With Eye to China
Malasyans Ponder Revaluation”, New York Times, 8 luglio 2005.
2 Monetary Policy Analysis Group of the
People’s Bank of China, China Monetary
report. agosto 2003. www.pbc.gov.cn/
english/detail.asp?col=6620&ID=12
3 AA.VV., “Waiting on the yuan: the
China revaluation debate goes on”,
pubblicazione del Credit Suisse Asset
Management, febbraio 2005.
4 Si veda la presentazione di A. Neil Tait
della BMO (Bank of Montreal) Financial
Group all’83° meeting annuale della
Bankers’ Association for Finance and
Trade. Aprile 2005. Vedisito
www.wolpertinger. bangor.ac.uk/
papers/F9_Paper
_van%20der%20Linden.pdf
5 Elaborazione effettuata su dati della
Federal reserve, www.federalreserve.gov
6 Nomura Economic Research, rapporto del 15 dicembre 2004.
www.nri.co.jp/english/
7 Asian Development Bank, ADB’s
Annual Report 2004. www.adb.org
8 Geoff Dyer, “Revaluation an ‘initial
adjustment’ says central bank chief
china’s currency”, The Financial Times,
25 luglio 2005.
9 Joseph Stiglitz, “America has little to
teach China about steady economy”,
The Financial Time, 27 luglio 2005.
10 S. Venkitaramanan, “Yuan
revaluation-How much is it really worth
for US?”, The Hindu Business Line, 1
agosto 2005.
11 Ajay Jaiswal, “Yuan revaluation no
cure for US ills”, The Hindu Business
Line, 7 febbraio 2005.
12 www.senate.gov e www.schumer.
senate.gov
13 Linda Lim, “Why China Should not
Revalue Its Currency”, YaleGlobal, 12
settembre 2003.
14 AA.VV., “News and analysis of the
US traded Chinese and China related
stock”, The China Stock Blog, 28 giugno 2005.
15 “How far will it go”, The Economist
, 21 luglio 2005.
16 Associated Press, “China Today
differs from Japan in 1980s”, The New
York Times, 19 agosto 2005.
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