La settima edizione del Far East Film Festival (tenutosi a Udine dal
22 al 29 aprile), confermandosi la più importante vetrina europea
sulle cinematografie asiatiche, testimonia la crescente importanza
della Cina popolare nel mondo culturale. È significativo infatti che il
festival apra con l’ultima opera di Feng Xiaogang, celeberrimo attore e
regista dei più grandi successi commerciali degli ultimi anni. A World
Without Thieves (Tianxia wuzei, 2004) è stata la pellicola più vista in
Cina, battendo record di botteghino e soprattutto superando la concorrenza
hollywoodiana. Il film racconta di un lungo viaggio in treno
che parte dal Tibet: sui vagoni affollati due bande di ladri si contendono
la borsa di un innocente e giovane lavoratore che torna a casa per
sposarsi e porta con sé anni di stipendio. Si alternano sequenze d’azione
di matrice hongkonghese, avventura di classica influenza americana
e melodramma – drammi morali, redenzione, sacrificio, spiritualità
e morte. Questa mescolanza di generi è coerente con l’ibridazione a
livello produttivo e ideologico: gli attori rappresentano un’utopia
“transnazionale” in cui le tre Cine si uniscono armoniosamente per
creare uno spettacolo a grande budget, previsto per una diffusione
capillare. Si incontrano infatti i corpi carismatici di Ge You, monumento
del cinema cinese; Andy Lau, stella hongkonghese sdoganato da
tempo ormai in madrepatria; René Liu, taiwanese – che non per niente
nel film si redime e porta in grembo il figlio di una nuova Cina moderna,
commerciale, iperdinamica, e ormai concorrente di spicco anche
nel mondo della cultura popolare di intrattenimento. La dinamicità del
cinema della Cina popolare è testimoniata anche dal fiorire dei generi
e sottogeneri: il festival ha presentato il primo “horror” cinese, nonché
melodrammi storici, commedie e film d’autore. Per quanto riguarda il
primo genere (Suffucation/Zhixi, Zhang Bingjian, 2005), si tratta d’una
pellicola illuminata – ancora una volta – dalla imprescindibile presenza
di Ge You; il suo personaggio è un fotografo che ha ucciso la moglie ed
è tormentato dal fantasma di lei; si tratta, in realtà, della sua coscienza
che lo tormenta con un atroce senso di colpa. Lo stile fiammeggiante, fatto di montaggio rapido e ritmico, colori saturi e immagini deformate,
giochi di rumori e suoni veicola un profondo malessere e descrive
l’inesorabile discesa nella follia del protagonista, sulla falsariga di
classici come Repulsion (Polanski, 1965) oppure Spider (Cronenberg,
2002). Con il ripescaggio di teorie freudiane – invero, all’occhio occidentale,
abusate – un tempo espulse dal panorama dell’ermeneutica
cinese in quanto sintomo di decadenza borghese, il regista (che ha
studiato con tutta evidenza negli Stati Uniti ove ha appreso le più
moderne tecniche alla MTV) riesce a ovviare al divieto che ancora vige
in Cina di rappresentare storie di fantasmi, in quanto “superstiziose”: i
fantasmi altro non sono che proiezioni dell’inconscio. La scomparsa
dei fantasmi nella recente produzione hongkonghese deriva dallo stesso
motivo: il divieto cinese di mostrare il soprannaturale, e la necessità
da parte dei registi hongkonghesi di entrare nel mercato della
madrepatria; è interessante notare gli abili stratagemmi grazie ai quali
si aggira la censura, ed infine anche come quest’ultima si stia rilassando
e chiuda gli occhi di fronte all’imperativo commerciale. Il melodramma
è stato rappresentato da due pellicole dirette da registe: White
Gardenia (Bai zhizi, Jiang Lifen, 2005) e Letter From an Unknown Woman
(Yi ge mosheng de nuren lai xin, Xu Jinglei, 2004). Il secondo è interessante
esempio di dialogo culturale, e dimostra come le teorie psicanalitiche,
più o meno direttamente, entrino nella cultura popolare: il film
della celeberrima attrice Xu Jinglei infatti è una trasposizione nella
Cina degli anni ‘30 di una novella di Stephen Zweig, impregnata di
decadente atmosfera viennese. Una donna, interpretata dalla stessa
Xu, in punto di morte scrive una lettera all’uomo (un sornione Jiang
Wen) di cui è sempre stata innamorata, che le ha pure dato un figlio,
ma che, dongiovanni impenitente, non si ricorda nemmeno del volto di
lei. Il film, esteticamente impeccabile, fonde la struttura psicoanalitica,
che mette in scena lapsus e dimenticanze, vuoti di memoria e compulsioni
a ripetere, ad una estetica strettamennte locale, che ricostruisce la
mitica epoca repubblicana con ampie citazioni della cinematografia
del periodo – più volte il trucco e i costumi di Xu ricordano la diva Ruan
Lingyu. La presenza di una vasta paletta di generi favorisce anche le
sperimentazioni più “autoriali”, di cui il festival mostra i due aspetti più
rilevanti: il film indipendente girato con pochi mezzi che fotografa
idiosincrasie della Cina urbana contemporanea (The Last Level/Shangdian, Wang Jing) e la saga familiare nella Cina rurale
(Peackcock/ Kongque, 2005), che ha ottenuto il premio del pubblico. Quest’ultimo,
premiato a Berlino, segna il debutto alla regia di Gu Changwei, storico
direttore della fotografia di classici quali Sorgo rosso (Hong
gaoliang,
Zhang Yimou, 1987) e Addio mia concubina (Bawang bieji, Chen Kaige,
1993). Peakcock, con uno stile fatto di ellissi temporali, lunghi piani
sequenza, immagini poetiche e allegoriche, racconta la storia di tre
fratelli alla fine degli anni ‘70. Gu descrive, con sguardo apparentemente
freddo, la crudeltà dei rapporti umani, l’oppressione della famiglia,
il rinnovarsi quasi autonomo di un sistema repressivo, tanto sociale
quanto psicologico. Bisogna infine ricordare l’importante mattinata
dedicata ai classici ritrovati del cinema cinese: Marco Müller presenta,
dal suo archivio personale, due film supercensurati e di conseguenza
quasi invisibili, entrati nondimeno nella storia del cinema cinese: il
primo film della quinta generazione (Uno e otto/Yi ge he ba ge, Zhang
Junzhao, 1983) e l’unico film girato da Wang Shuo, altrimenti noto
come romanziere e sceneggiatore (Padre/Baba, 2000). Per quanto riguarda
Hong Kong, si è già segnalato il livellarsi di alcuni dei suoi
caratteri precipui, su tutti la massiccia iniezione di elementi sovrannaturali
e la mescolanza caotica dei generi. In parte per questioni legate
alla necessità di ottenere una distribuzione anche in Cina popolare, e
in parte per più complessi movimenti artistici di ibridazione culturale
che portano le cinematografie (ivi comprese quella giapponese e
sudcoreana) ad assomigliarsi sempre più per competere con Hollywood
sul suo stesso terreno, anche la un tempo sovversiva e vulcanica produzione
hongkonghese addolcisce i toni e uniforma il linguaggio per
favorire una comprensione globale. Ciò non toglie che, tra le pellicole
presentate a Udine, non mancassero opere di rilievo. Segnaliamo qui
innanzi tutto due commedie del giovane e promettente Pang Ho-cheung:
AV (id., 2005) e Beyond Our Ken (Gongzhu fuchou ji, 2004). La prima
racconta la storia di un gruppo di sfaccendati giovanotti che chiamano
ad Hong Kong una giovanissima attrice di porno (Adult Video) giapponese,
fingendo di essere importanti produttori. Nonostante il tema leggero
il film è innervato da una leggera malinconia, sottolineata dai
frequenti rimandi alla storia dell’isola, e ai confronti con la gioventù
ribelle e engagé degli anni ‘70, paragonata a quella contemporanea
priva di valori, il cui unico ideale è realizzare una fantasia erotica
adolescenziale. Beyond Our Ken è interessante, al di là di una trama
ben oliata sulla gelosia, poiché contrappone due attrici, Gillian Cheung
e Tao Hong. La prima, hongkonghese, parla in cantonese; la seconda,
cinese, parla in mandarino: lo scambio di maestranze, registi e volti
non avviene solo nell’ambito del cinema della Cina popolare ma anche
nell’ex-colonia britannica. Il protagonista maschile di Beyond Our Ken,
Daniel Wu, è protagonista anche della pellicola honkonghese più interessante
del festival: One Nite in Mongkok (Wangjiao heiye, Derek Yee,
2004). Tesissimo racconto morale, si svolge tutto in una notte nella
zona più popolosa del mondo e descrive un intreccio di destini – poliziotti,
assassini potenziali e innocenti, prostitute da redimere – con
precisa cronometria di tempi e dialoghi, suspense ottenuta grazie a
silenzi e sguardi, ed infine scoppi di violenza improvvisi e impressionanti
proprio perché inscritti in un contesto estremamente realista.
MONDO CINESE N. 123, APRILE-GIUGNO
2005