1. Caratteristiche generali
Il 1° marzo 2005 sono entrate in vigore, nella Repubblica Popolare Cinese, le "Norme relative
agli affari religiosi" ("Zongjiao shiwu tiaoli"). Il 30 novembre 2004 Wen Jiabao aveva firmato il decreto n. 426 del Consiglio degli Affari di Stato, dando il definitivo suggello al documento che, già in cantiere dalla fine del 2001, era stato approvato il 7 luglio 2004.1
I commenti ufficiali hanno subito sottolineato che le nuove norme sono frutto di un approfondito lavoro di studio e ricerca che è durato diversi anni ed ha coinvolto direttamente le organizzazioni religiose nonché esperti in campo giuridico, religioso e dei diritti umani.2
Si tratta della prima normativa del genere a livello nazionale: essa impone alle amministrazioni locali di aggiornare la propria politica religiosa in conformità alle nuove disposizioni. Inoltre, per la prima volta, tali norme si presentano con un carattere complessivo, ovvero abbracciano tutti i settori della vita religiosa del paese, con lo scopo di uniformare molteplici aspetti, in precedenza affidati a regolamenti locali. Questi ultimi, moltiplicatisi nel corso degli ultimi anni, potranno restare in vigore solo se non in contrasto con le nuove disposizioni.
Il decreto in esame riguarda un ambito molto ampio: composto da 48 articoli e suddiviso in 7 sezioni, esso affronta temi che spaziano dalla gestione e registrazione dei luoghi per le attività religiose alle nomine del personale religioso, dalle proprietà immobiliari alla responsabilità legale delle organizzazioni religiose ed altro ancora.
Le "Norme relative agli affari religiosi" sono però disposizioni regolamentari: non si tratta
dunque
di una legge, discussa e approvata dall'Assemblea nazionale del popolo. Come ha notato
Anthony Lam, attento osservatore ed esperto di problemi religiosi della Cina contemporanea, vi
è una sostanziale differenza tra le due tipologie.3
Infatti l'interpretazione di simili norme non è soggetta al controllo dell'Assemblea nazionale del popolo. Ciò significa che l'attuazione concreta delle "Norme relative agli affari religiosi" dipenderà unicamente dal Dipartimento per gli affari religiosi del Consiglio degli Affari di Stato, il quale resta l'arbitro in tutte le questioni riguardanti le organizzazioni religiose. Addirittura, in base ad una normativa anch'essa promulgata dal
Consiglio degli Affari di Stato, il 16 novembre 2001, l'interpretazione delle disposizioni regolamentari ha il medesimo valore delle norme stesse. In tal modo, gli organi governativi
hanno di fatto il potere di modificare le norme, senza essere sottoposti ad alcun controllo. Da più parti si auspicava la promulgazione di una vera e propria legge sulle religioni - della quale per altro si discute già da almeno dieci anni - tuttavia, dopo questo decreto, appare fortemente
improbabile che una simile legge venga introdotta in Cina in un futuro prossimo.
A conferma di quanto finora detto, vi è un elemento interessante nel testo dell'articolo 3 del decreto. Insieme all'articolo 4, esso costituisce in un certo senso il cuore delle "Norme relative agli affari religiosi", tanto che viene citato in più punti all'interno di altri articoli. Esso afferma che lo Stato protegge le "normali" attività religiose
(zhengchangde zongjiao huodong) e salvaguarda i diritti e gli interessi delle organizzazioni religiose e dei cittadini credenti, in conformità alle leggi. Non viene però specificato cosa sia da intendersi per "normale". Ne consegue la possibilità di interpretazioni diverse che dipendono unicamente, come si è detto, dal governo e dai suoi funzionari. Questo elemento, di fatto già presente nella politica religiosa attuata in Cina dal 1949 in poi, segna una continuità di fondo: la supervisione ed il controllo del partito su qualsiasi attività religiosa.
E' da notare inoltre che nel testo dell'intera normativa in esame non vengono mai citate quelle che, fin dai primi anni del regime maoista, rimangono a tutt'oggi le cinque religioni ufficialmente riconosciute in Cina (buddismo, taoismo, Islam, cattolicesimo e protestantesimo), ovvero non sono esplicitamente elencati i gruppi religiosi destinatari del decreto stesso. Ciò ha fatto pensare alla possibilità di un prossimo riconoscimento di altre comunità religiose come la Chiesa ortodossa, che già ne ha fatto domanda, o la comunità ebraica. Si tratterebbe comunque di una decisione estremamente delicata: il riconoscimento ufficiale di una religione aprirebbe la strada ad altre analoghe richieste e solleverebbe il problema dei criteri in base ai quali stabilire un confine tra religioni vere e proprie e sette religiose.
Per inciso va segnalato anche il contenuto dell'articolo 1, nel quale si dichiara che, in accordo con
la Costituzione e le leggi del paese, le "Norme relative agli affari religiosi" sono state formulate per
garantire la libertà di credo religioso dei cittadini e per salvaguardare l'armonia religiosa e sociale
(zongjiao hemu yu shehui hexie).4 Ricorrono più volte, nel testo del documento, analoghi richiami
al rispetto della legge e alla costruzione di una società armoniosa, due obiettivi indicati dagli attuali vertici politici cinesi e divenuti ormai slogan correnti.
2. Le principali novità
Una delle novità più significative introdotte dalle "Norme relative agli affari religiosi" è rappresentata dal fatto che vengono definiti chiari limiti al potere dei funzionari pubblici, per prevenire abusi e stabilire un controllo maggiore sull'operato di chi, a livello locale, è preposto all'attuazione della politica religiosa del governo. Gli articoli 38 e 39 del decreto infatti fissano i termini di punibilità di coloro che, per corruzione o per interessi personali, abusino del proprio potere nella gestione degli affari religiosi. Si aggiunge inoltre che chiunque violi i diritti e gli interessi legittimi delle organizzazioni religiose e dei cittadini credenti sarà perseguito in base alle norme stabilite dal
codice civile o, qualora abbia commesso un reato contro i diritti e gli interessi delle organizzazioni
religiose, sarà perseguito penalmente. Per la prima volta in assoluto viene così stabilito di esercitare un controllo sui pubblici funzionari che si occupano degli affari religiosi. Naturalmente
la reale efficacia di queste disposizioni per la difesa dei diritti delle organizzazioni religiose dipenderà dalla loro effettiva applicazione a livello locale ma, come diversi osservatori hanno
rilevato, ci sono buone ragioni per credere che esse produrranno un tangibile miglioramento,
anche alla luce dell'attuale tensione del governo e del partito verso la capacità di "governare in
base alla legge".5
Una seconda importante novità riguarda la possibilità per le organizzazioni religiose di possedere terreni e beni immobili. Una intera sezione del documento è dedicata alla regolamentazione del
possesso e della tutela da parte dello Stato dei beni posseduti dalle organizzazioni religiose
(zongjiao caichan). In precedenza, a queste ultime non era riconosciuta la personalità giuridica
ed era lo Stato a concedere ad esse i terreni sui quali edificare i luoghi di culto o le sedi per le attività religiose. Oggi è invece riconosciuto alle diverse organizzazioni religiose il diritto legale di
possedere edifici e terreni. Per quanto riguarda il caso della Chiesa cattolica, che ho potuto studiare più approfonditamente, ciò pone il problema dei numerosi terreni ed edifici acquistati dai
missionari a partire dal XIX secolo ed in seguito espropriati dopo la rivoluzione, nel corso degli anni Cinquanta. Alcuni di questi terreni infatti sono ora in possesso di altri proprietari o hanno assunto, soprattutto nelle principali metropoli, un grande valore commerciale. Se le Chiese locali riusciranno a dimostrare la proprietà di questi terreni, potranno forse appellarsi al governo e non è
escluso che possano ottenerne un compenso.6 Tuttavia, a questo proposito, è da segnalare un problema che risiede nella genericità dei termini utilizzati nel testo delle "Norme relative agli affari religiosi": si parla sempre, in modo generale, di organizzazioni religiose
(zongjiao tuanti) e questa
espressione, nel caso della Chiesa cattolica, indica sia la diocesi, cioè la Chiesa locale, sia l'Associazione patriottica cattolica nazionale, la quale potrebbe di conseguenza rivendicare diritti su tutte le proprietà della Chiesa nelle varie aree del paese.
In materia di gestione e amministrazione delle sedi per attività religiose, come esplicitamente indicato nell'ultimo articolo del decreto in esame (art. 48), esso sostituisce, includendola e completandola, una precedente normativa, approvata dal Consiglio degli Affari di Stato nel gennaio del 1994.7
Nei contenuti non si registrano grandi cambiamenti, tuttavia va segnalata una maggiore chiarezza per quanto riguarda gli obblighi, non solo delle organizzazioni religiose, ma anche degli uffici per gli affari religiosi a tutti i livelli, nella richiesta e nella conseguente concessione di qualsiasi permesso o autorizzazione legato all'uso o all'edificazione di strutture e luoghi per lo svolgimento di attività religiose. Nella terza sezione del documento infatti, specificamente dedicata alle sedi per le attività religiose
(zongjiao huodong changsuo), vengono indicate le relative procedure necessarie e vengono fissati i tempi entro i quali i funzionari ai vari livelli hanno l'obbligo di dare una risposta alle domande di allestimento o costruzione di luoghi per attività religiose (art. 13). Ciò era completamente assente nella normativa del 1994, dove si insisteva solo sugli obblighi delle organizzazioni religiose e si ribadiva con forza il diritto esclusivo degli uffici politici preposti agli affari religiosi, di controllare le attività religiose, interpretare e far applicare le norme in vigore.
E' molto probabile che la definizione dell'iter burocratico, necessario alla costruzione o all'allestimento di sedi per il culto, sia stata inserita nel nuovo decreto pensando soprattutto alla situazione
delle Chiese protestanti. Queste ultime hanno infatti moltiplicato significativamente la loro presenza in Cina, in termini sia di numero di fedeli sia di numero di gruppi che si ispirano a diverse denominazioni e che si costituiscono nelle cosiddette "House Churches", cioè comunità cristiane protestanti che non intendono essere registrate dagli uffici governativi. Molte di esse, negli ultimi anni, hanno fortemente lamentato l'estrema facilità con cui venivano respinte le loro domande di autorizzazioni per i luoghi di culto. Per avere un'idea delle dimensioni del problema, basti pensare che, secondo un'indagine condotta lo scorso anno dal "Movimento patriottico protestante cinese delle tre autonomie"8
per conto del governo centrale, nella sola Pechino, vi sarebbero migliaia di luoghi non registrati, usati da circa 100.000 fedeli protestanti come punti di ritrovo e tutto ciò a fronte di soli 30.000 fedeli iscritti invece all'associazione ufficiale dei protestanti.9
Le nuove norme sembrerebbero permettere a tali gruppi di chiedere le autorizzazioni per i luoghi di culto direttamente al governo, senza la mediazione del "Movimento patriottico protestante cinese delle tre autonomie", ovvero l'unica espressione delle Chiese protestanti, ufficialmente riconosciuta in Cina. Se ciò porterà comunque ad un più stretto controllo politico sui
vari gruppi religiosi cristiani, così costretti registrarsi e ad accettare la supervisione degli uffici per gli affari religiosi, solo la pratica potrà dimostrarlo.
Anche per ciò che riguarda l'apertura delle scuole per la formazione del personale religioso
Vengono fissate procedure più precise a livello nazionale (artt. 8 e 9). Questi elementi sembrano andare nella direzione di una maggiore trasparenza nella gestione degli affari religiosi, auspicata ed apprezzata dai membri dei gruppi religiosi.
Le recenti dichiarazioni del Dalai Lama costituiscono un precedente importante per comprendere il clima in cui vivono oggi le religioni in Cina. La guida spirituale del gruppo religioso più significativo del paese ha affermato di non auspicare l'indipendenza del Tibet e di accettare che sia parte della Repubblica Popolare Cinese.10
Tali dichiarazioni, insieme alla risposta delle autorità cinesi, cautamente positiva, rappresentano, anche per la loro portata storica, un segnale eloquente nella ricerca di una migliore collaborazione tra il governo e le varie comunità religiose, di cui le norme in esame sono state un capitolo non trascurabile.
3. Aspetti che restano invariati
L'articolo 4 contiene un aspetto specifico che resta uguale, ovvero il principio di indipendenza e
autonomia (duli zizhu ziban)11 delle religioni da qualsiasi ingerenza straniera. Resta inoltre in
vigore una precedente normativa che regola la presenza del personale religioso straniero in Cina.12
Da questo punto di vista, nessuna delle restrizioni a cui era già sottoposta l'attività degli stranieri sembra poter cambiare nel prossimo futuro. Per quanto riguarda i viaggi di natura religiosa all'estero, in particolare i pellegrinaggi alla Mecca per i cittadini cinesi di religione musulmana, viene precisato che la responsabilità e l'organizzazione di tali viaggi sono prerogativa esclusiva dell'Associazione nazionale islamica cinese (art.11).
La quarta sezione del decreto, relativa al personale religioso (zongjiao jiaozhi
renyuan), ribadisce
che i religiosi a tutti i livelli potranno svolgere le attività loro assegnate solo dopo che le rispettive organizzazioni abbiano notificato e loro nomine all'ufficio per gli affari religiosi a livello distrettuale (xian) o a livello superiore e dopo che gli uffici competenti abbiano proceduto alla relativa registrazione. Viene qui specificato che anche la successione del Dalai Lama in Tibet dovrà
pure essere comunicata e registrata dagli uffici competenti a livello distrettuale o municipale.
Vi è invece una differenza nel caso dei vescovi cattolici: diversamente dai responsabili delle altre comunità religiose, la loro nomina dovrà essere notificata per la registrazione direttamente all'autorità centrale, cioè al Dipartimento per gli affari religiosi del Consiglio degli Affari di Stato art. 27). E' probabile che questa disposizione sia stata inserita in seguito a tensioni locali per le nomine episcopali in alcune diocesi, in particolare nella provincia dell'Hebei, e che dunque esprima, in qualche misura, una volontà di facilitare le successioni dei vescovi cattolici. Non sembra infatti che si preparino cambiamenti in questo campo ma semplicemente forse si punta ad appianare difficoltà nei rapporti tra le comunità cattoliche ufficiali, le comunità cattoliche clandestine e le autorità locali.
Rimangono le medesime limitazioni, già presenti in passato, anche riguardo alle pubblicazioni di
carattere religioso: esse di fatto possono essere stampate soltanto ad uso interno poiché la diffusione pubblica resta vincolata da condizioni assai restrittive (art. 7). Infine l'articolo 47 stabilisce che gli scambi religiosi tra la Cina continentale da una parte e Hong Kong, Macao e Taiwan dall'altra continuano ad essere regolati da leggi e disposizioni già vigenti. Nel complesso le "Norme relative agli affari religiosi", se da un lato non introducono grandi innovazioni - rimangono infatti significative limitazioni ad una piena libertà religiosa, come si è cercato di illustrare - dall'altro però non aggiungono nuove restrizioni. Anzi, al contrario, lasciano spazio ad una maggiore trasparenza nella gestione degli affari religiosi e ad una maggiore protezione giuridica per le religioni. Esse confermano, ed in un certo senso accelerano, una tendenza di lungo periodo del governo cinese a considerare ed andare incontro alle aspettative dei sempre più numerosi cittadini credenti. Forse più che in passato anzi, stabilire una migliore collaborazione con le varie comunità religiose appare oggi necessario ad un governo che intende costruire una "società armoniosa".
MONDO CINESE N. 122, GENNAIO-MARZO
2005