1. Dall’iniziale cautela alla massiccia penetrazione degli ultimi anni
L’apertura del settore automobilistico cinese agli investimenti esteri risale alla metà degli anni ottanta.
Le prime società straniere che decisero di produrre in Cina, sempre in joint venture con partner locali,
furono nell’ordine: l’American Motors Corporation (poi acquisita dalla Chrysler), che avviò nel 1983 la
produzione della Jeep Cherokee in una società mista con la Beijing Auto Works (BAW), la Volkswagen,
che nel 1984 iniziò a produrre il modello Santana in una joint venture con la Shanghai Automotive
Industrial Corporation (SAIC), e la Peugeot, che nello stesso anno avviò la produzione in un impianto
localizzato a Guangzhou. Questi pionieri europei ed americani rimasero per una decina d’anni i soli
produttori stranieri in Cina. Le case giapponesi esportavano i loro modelli, ma non realizzarono alcun
investimento significativo, nonostante i tentativi del governo cinese di indurre la Toyota a farlo.
Una seconda fase nello sviluppo dell’industria automobilistica cinese si aprì a metà degli anni novanta,
quando il governo adottò una politica industriale mirata allo sviluppo e al consolidamento di un settore
ritenuto strategico.
Obiettivo della nuova politica era quello di favorire la crescita di un numero limitato di produttori
nazionali – tre grandi e tre di medie dimensioni –, dotati d’adeguate risorse finanziarie e di tecnologie
avanzate. A tal fine fu promossa la costituzione di joint venture paritetiche tra i principali costruttori
nazionali, quasi tutti controllati dal governo, e i grandi gruppi stranieri, ai quali si offriva un mercato
potenzialmente enorme, ma si richiedevano anche investimenti e il trasferimento di tecnologie e
conoscenze manageriali. In questa fase, dopo lunghe e complesse trattative, alcuni produttori europei
ed americani riuscirono a formare alleanze strategiche con partner cinesi, ma le grandi case
automobilistiche giapponesi rimasero ancora una volta alla finestra, oppure furono semplicemente
escluse dai negoziati.1 Era infatti convinzione diffusa in Giappone che, nonostante i bassi costi della
manodopera, produrre in Cina non fosse per nulla conveniente. Come sostiene ancor oggi Chi Hung
Kwan, economista cinese che però lavora in Giappone,2
il basso livello della produttività per addetto, gli
elevati costi indiretti e l’inferiore qualità dei componenti e dei semilavorati non garantivano e non
garantirebbero tuttora gli standard qualitativi e d’efficienza delle fabbriche giapponesi. Meglio quindi
puntare sulle esportazioni e sulla creazione di un’efficiente rete distributiva. Questa tesi, però, non
convinse del tutto le imprese. Di fronte al rischio di accumulare ulteriori ritardi in un mercato che stava
crescendo a ritmi impressionanti, le grandi case automobilistiche decisero nei primi anni di questo secolo
di affrontare la sfida della produzione in loco.
La Honda, da sempre il costruttore più dinamico e innovativo, fu la prima società ad effettuare il gran
passo, rilevando nel 1998 le attività e gli impianti della Peugeot a Guangzhou. La decisione fu favorita
anche dal fatto che la società era già presente in Cina con impianti per la produzione di
motociclette. Aveva quindi acquisito una notevole esperienza che le permise di rilanciare la società rilevata dai
francesi. Il successo di questo investimento3 e, soprattutto, la rapida crescita del mercato cinese dopo
l’ammissione della Cina al WTO indussero anche gli altri produttori giapponesi a rivedere le loro
strategie.4
2. La situazione attuale: la nascita di una grande fabbrica integrata
Come risulta dalla tabella 1 in appendice, attualmente tutte le principali case automobilistiche
giapponesi hanno delocalizzato in Cina una parte importante delle loro attività produttive. Toyota,
Honda, Nissan hanno costituito joint venture paritetiche con i maggiori produttori locali. La Toyota
con le imprese del gruppo FAW, First Automotive Work, il maggior produttore cinese di autoveicoli, che
però ha creato società miste anche con la Volkswagen e la Mazda del gruppo Ford.5
La Honda con due case
automobilistiche: il gruppo Guangzhou Automotive, con il quale gestisce una società mista in grado di
produrre 240.000 auto l’anno, e la Dongfeng Motor. Con quest’ultima società la Honda produce
annualmente a Wuhan 30.000 veicoli, ma le due società hanno recentemente annunciato che la
capacità produttiva sarà portata a 120.000 veicoli entro il 2006.6
Infine, la Nissan, l’ultima a sbarcare, a
creato un’alleanza strategica con la Dongfeng Motor.7
Le tre società hanno inoltre costituito una fitta
rete di impianti per la produzione di motori, trasmissioni e componenti, dovendo conformarsi alla
normativa cinese che, sino a metà del 2004, imponeva alle case automobilistiche di utilizzare
determinate percentuali di componenti prodotti localmente.
Ad esempio, il gruppo Honda in Cina è costituito da una decina di imprese che producono parti
e componenti, alcune compartecipate come la Dongfeng Honda Engine e la Dongfeng Honda Autoparts, ed
altre interamente controllate dalla società giapponese.8
Sono cresciuti notevolmente
anche gli investimenti dei produttori di componentistica indipendenti, contribuendo alla formazione
di una grande officina integrata. Questa complessa rete produttiva si basa su di una dinamica
divisione del lavoro tra impianti localizzati in Giappone e fabbriche cinesi, sfruttando il vantaggio competitivo dei due paesi: una
divisione del lavoro che si riflette anche nel commercio bilaterale tra i due paesi, in rapida crescita, e
caratterizzato da un sempre maggiore scambio intraindustriale.
3. Gli sviluppi recenti
Il mutamento di strategia delleimprese giapponesi appare ancora più evidente osservando contenuti ed
obiettivi degli ultimi investimenti. Toyota ha recentemente annunciato che dal 2005 inizierà ad
assemblare in Cina, in una joint venture con il gruppo FAW, anche la Prius, il modello tecnologicamente
avanzato della casa giapponese, dotato di un propulsore ibrido, a benzina ed elettrico: modello che
risponde alle esigenze cinesi di ridurre i consumi energetici e di limitare la congestione e l’inquinamento
provocati dalla rapida motorizzazione.9
Anche la Nissan appare determinata a seguire una strategia di rapida penetrazione e di consolidamento
della propria presenza.
Lo dimostrano le dimensioni e il livello tecnologico dei nuovi impianti che la società sta costruendo con il
partner cinese, la Dongfeng Motor, nella zona diHuadu a Guangzhou. La nuova fabbrica, che a regime
avrà una capacità produttiva annua di 150.000 autoveicoli, potrà produrre sulla stessa linea otto modelli
diversi, usando la tecnologia che Nissan utilizza nei suoi impianti in Giappone. Inoltre, è prevista
l’inaugurazione entro il 2005 di un centro di ricerche con circa 700 dipendenti che, in collaborazione con
i tecnici della Nissan, svilupperanno modelli adatti alle esigenze del mercato cinese.10
La Honda, infine, ha costituito nel 2003 una società mista conDongfeng Motor e il gruppo
Guangzhou Automotive, per la produzione a Guangzhou di 50.000 utilitarie destinate ad
esser esportate in Asia ed in Europa. Si noti che si tratta del primo caso di joint venture nella quale ilsocio straniero detiene una partecipazione maggioritaria. (La Honda controlla il 65% della società,
mentre i partner cinesi ne possiedono rispettivamente il 10 e il 25%).11
L’acquisizione della maggioranza da parte della Honda è divenuta
possibile dopo l’annuncio della nuova politica per il settore automobilistico, la cosiddetta Automotive Industry Development Policy, in vigore dal
1º giugno 2004.12 Varata con l’obiettivo di consolidare ulteriormente l’industria nazionale e sostenere la crescita di imprese in grado di competere nel mercato
internazionale, la nuova politica autorizza le società estere ad acquisire quote superiori al 50%, purché
le società siano orientate a produrre per i mercati esteri ed operino in aree designate.
Inoltre, tutte le società giapponesi sono impegnate a sviluppare le loro reti di vendita e di assistenza,
beneficiando anche del fatto che ora possono affidare la distribuzione a strutture che, a differenza del
passato, non devono commercializzare anche i prodotti delle società cinesi. Come latecomers, e
sfruttando i vantaggi del ritardatario, le imprese giapponesi stanno dunque investendo in modo
aggressivo, ponendosi all’avanguardia dal punto di vista del prodotto, della tecnologia e della rete
distributiva.Toyota, che inizialmente si era proposta di acquisire una quota di mercato del 10% entro il 2010,
potrebbe addirittura raddoppiarla, utilizzando la capacità produttiva che sta approntando con i
partner cinesi. Honda, come si è detto, inizierà presto ad esportare modelli della casa giapponese
ma “made in China”, mentre la Nissan si avvia a costituire un poloproduttivo di rilevante importanza strategica.
4. Problemi e prospettive
Certo, le imprese giapponesi devono affrontare e risolvere diversiproblemi. Innanzi tutto, la forte
concorrenza tra produttori stranieri, che i cinesi mostrano di saper abilmente sfruttare, non solo riduce
margini e profitti, ma pone anche seri problemi per quanto riguarda il trasferimento tecnologico. Si noti
che molti dei principali produttori cinesi hanno stretto alleanze strategiche in
regime di “promiscuità”. Il gruppo FAW ha costituito numerose joint venture con la Toyota, ma
anche con la Volkswagen e la Mazda del gruppo Ford. La Dongfeng Motor, partner privilegiato
della Nissan e di Renault, ha joint venture e collaborazioni anche con Citroën/Peugeot, Honda e Kia. La SAIC con Volkswagen e General Motors.
Questa politica dei produttori cinesi è certamente funzionale ad una rapida acquisizione di tecnologie e
di capacità manageriali ad ampio raggio, ma dal punto di vista delle case automobilistiche giapponesi
rende più complessa la gestione dei rapporti di collaborazione.
Anche per questo, alcuni produttori, tra cui Toyota, hanno deciso di allacciare alleanze con altre
imprese, cercando di creare condizioni che ne rafforzino il potere contrattuale.13
Tuttavia questa scelta
è limitata dalla politica cinese per il settore automobilistico. Essa prevede, infatti, che i gruppi stranieri
non possano costituire più di due joint venture per ogni categoria di veicoli (automobili, veicoli
commerciali, motociclette ecc.). Inoltre, qualunque iniziativa è in ogni caso soggetta all’approvazione del governo cinese.
La propensione a firmare accordi con una pluralità di imprese rischia di creare anche un eccesso
di capacità produttiva. Alcuni analisti ritengono che ciò potrebbe verificarsi già dall’anno
prossimo. Ed il problema è destinato ad acutizzarsi negli anni successivi, quando la riduzione dei dazi doganali porterà
ad un aumento delle importazioni e, conseguentemente, della concorrenza sul mercato cinese.14
Del
resto, già dalla primavera di quest’anno si è registrata una contrazione delle
vendite, determinata in parte dall’aumento dei tassi di interesse e in parte proprio dall’attesa
di una riduzione futura dei prezzi.
Esiste inoltre un problema di costi di produzione e di efficienza degli impianti. Uno studio del
Centro di Shanghai dell’Università di Kyoto mostra come nel settore automobilistico i costi di produzione possono
essere ancora molto elevati.15 È vero che il costo della manodopera è molto inferiore rispetto al
Giappone. A Shanghai, la città con i salari più alti, il costo del lavoro medio annuo, comprensivo anche
delle spese per l’assistenza medica e sociale, si aggirerebbe infatti intorno al 10% del costo in Giappone.
A Tianjin non arriverebbe al 4%.
Tuttavia, considerando la produttività per addetto (numero delle auto prodotte in un anno per addetto),
il divario si riduce notevolmente e in alcuni casi il costo del lavoro in Cina sale fino al 90% di quello
giapponese. Inoltre, vi è il problema del costo e della reperibilità di attrezzature e di
semilavorati. I prodotti cinesi sono molto meno costosi (un tornio a controllo numerico prodotto in
Cina costa circa il 40% di un tornio prodotto all’estero), ma ciò nonostante la maggior parte delle
imprese, anche quelle di proprietà statale, usa prevalentemente macchine utensili importate.
Sono di produzione estera anche i robot e quasi tutti i macchinari che incorporano tecnologie avanzate.
Le imprese devono inoltre confrontarsi con le difficoltà d’approvvigionamento in loco di materiali
e semilavorati. Tutto ciò rende ancora poco competitiva l’industria cinese, anche se gli
assemblatori finali e i produttori di componentistica stanno certamente facendo rapidi progressi.
Tuttavia nel medio-lungo termine il progresso dei costruttori cinesi potrebbe minare le basi della
cooperazione. Una volta in possesso delle più avanzate tecnologie e delle competenze manageriali
necessarie, i produttori cinesi potrebbero rendersi indipendenti, acquisendo eventualmente il controllo
delle società miste. Certo, ci vorrà tempo. Al momento, e per molti anni a venire, le imprese cinesi, non
disponendo di sufficienti capacità di ricerca e di sviluppo autonome, continueranno a dipendere dai loro
partner stranieri per l’accesso alle tecnologie più avanzate. Ma non si può nemmeno parlare di totale
dipendenza. Nel corso di questi anni si va creando una reale integrazione che, se da un lato consente
alle imprese giapponesi di penetrare in una mercato in rapido sviluppo, dall’altro lato permette alle
imprese cinesi di crescere e di inserirsi in una rete produttiva di primo livello. Affinché la cooperazione
continui è necessario però che le imprese giapponesi sviluppino la propria rete distributiva e di
assistenza in Cina, mantenendo una salda leadership tecnologica.
In caso contrario potrebbero essere un giorno superate da coloro che hanno contribuito a far
crescere.
MONDO CINESE N. 121, OTTOBRE-DICEMBRE
2004