1. Gli effetti dell'ipercrescita
Mentre i più importanti
gruppi ecologisti del
mondo continuano la
campagna per accusare Stati Uniti,
Russia e Australia di violazione
dei diritti umani perché rifiutano
di ratificare il protocollo di Kyoto
sull'abbattimento delle emissioni
nell'atmosfera con effetto serra,
l'attenzione si sta spostando sempre
più verso i costi ambientali
dell'ipercrescita asiatica e in particolare
della Cina. Nonostante
Pechino abbia ratificato il protocollo
nel 2002, da tempo gli
ecologisti hanno messo in luce i
limiti opportunistici di questa decisione.
E', infatti, la possibilità di
utilizzare il cosiddetto 'meccanismo
di sviluppo proprio ' che ha
convinto le autorità cinesi. Quello
che in gergo viene chiamato
semplicemente Mdp è il solo strumento
di cooperazione Nord/Sud
previsto dal protocollo di Kyoto.
In base ad esso, i paesi industrializzati,
le loro imprese o le loro
comunità locali, possono aiutare
a finanziare e realizzare direttamente
nei paesi del Sud dei progetti
per la riduzione delle emissioni
a partire da tecnologie favorevoli
al clima: energia solare,
dighe idrauliche, centrali di
cogenerazione, carburanti ecologici.
In cambio, i paesi industrializzati
possono vedersi attribuiti
diritti di emissione supplementari
corrispondenti alle emissioni "evitate"
(in sostanza si disinquina in
un punto del mondo per poter
disinquinare meno in un'altra). Il
via libera della Cina aveva un
obiettivo molto semplice: attirare
investimenti nel proprio territorio.
Peccato però che ancora non esista
in Cina - come in India o in
Brasile - un inventario delle emissioni,
senza il
quale non è possibile alcun controllo
internazionale. E peccato
che questo meccanismo non
abbia avuto una effettiva influenza
sugli effetti ecologici
dell'ipersviluppo.
L'ottimistica speranza con la quale
il mondo industrializzato accoglie
e commenta i dati sulla crescita
economica cinese per lo più impedisce
di prestare analoga attenzione
agli effetti ecologici non
solo interni, ma anche globali.
Recentemente è stata la vicepresidente della Commissione
europea, Loyola de Palacio, responsabile
dell'energia e dei trasporti,
a ricordare che la Cina
"non è obbligata ad assumere alcun
impegno secondo il protocollo
di Kyoto" e che per questo le mosse
di Pechino "devono essere
monitorate molto da vicino"1.
Se la Cina continua a crescere ai
ritmi degli ultimi dieci anni, a partire
dal 2041 diventerà la prima
potenza economica del mondo (in
termini di prodotto annuale) e già
dal 2030 consumerà energia
quanta ne consumano gli Stati
Uniti e il Giappone di oggi messi
insieme. Inoltre, non disponendo
di petrolio sufficiente, sarà costretta,
entro i prossimi quindici anni,
a raddoppiare la sua capacità
nucleare se davvero vuole mantenere
l'impegno a ridurre la produzione
di carbone e rispettare
l'ambiente. L'effetto ecologico di
questa corsa, temono in molti,
sarà che la Cina lascerà il secondo
posto nella graduatoria dei
grandi inquinatori del pianeta per
occupare decisamente il primo2.
Crescita economica rapida,
urbanizzazione e industrializzazione
forzate e concentrate nelle
zone costiere hanno comportato,
secondo il primo e più completo
rapporto sulla questione ambientale
in Cina fatto dall'Oecd
(Organisation for Economic
Cooperation and Development),
un "profondo ed esteso deterioramento dell'ambiente"3.
Studi e
rapporti successivi relativi a singoli
aspetti (inquinamento di acqua,
aria, impatto ambientale dei
consumi attuali e futuri, stato dell'industria)
hanno solo rafforzato
questa conclusione. Adesso, nel
mezzo di una crisi energetica che
coinvolge non solo il settore petrolifero
(la Cina ha un disperato
bisogno di greggio ed è disposta
a pagarlo - quasi - qualsiasi prezzo),
con interi comparti industriali
costretti a organizzare calendari
di razionamento perché non c'è
energia sufficiente per il funzionamento
degli impianti nei periodi
di picco dei consumi, l'allarme
riguarda anche il costo sempre
più elevato di una crescita il
cui unico presupposto è stato
quello della non limitatezza delle
risorse. La qualità dell'ambiente
rurale ha patito pesanti deterioramenti,
sostiene l'Oecd, "in seguito
all'espansione delle imprese
industriali e ora il peggioramento
dell'ambiente sta ponendo
seri ostacoli alla crescita economica"4. Ogni anno, secondo
varie stime non ufficiali, i danni
dell'inquinamento di aria e acqua
raggiungono il 5-8% del prodotto.
2. Molto seria la situazione dei
fiumi
Se si guarda alle tappe del 'miracolo
cinese', la pressione sulle risorse
ha seguito linearmente i salti
di sviluppo dell'industria. Prendiamo
l'acqua. Nella prima metà
degli anni del boom (tra il 1980
e il 1993) il consumo di acqua
aumentò complessivamente del
350%, di cui due terzi per uso industriale.
In seguito questa spinta
ha subìto dei rallentamenti. Ma
il calo dell'intensità della domanda
non ha impedito rotture nell'approvvigionamento
con l'esaurimento
di falde acquifere. E' previsto
che nel 2030 la domanda si
avvicinerà pericolosamente alla
disponibilità annua. Nelle città il
consumo aumenta al ritmo
dell'8% l'anno. Con il 21% della
popolazione mondiale, la Cina ha
a disposizione solo il 7% delle acque
rinnovabili fresche presenti sul
pianeta. L'immensa piana del
nord è una delle regioni più popolate
del mondo: 450 milioni di
persone ognuna delle quali ha a
disposizione 500 metri cubi l'anno,
più o meno quanta ne ha a
disposizione l'Algeria. Secondo
l'Oecd tre quarti dell'acqua potabile
in Cina non rispetta gli
standard internazionali, metà delle
sezioni urbane dei fiumi sono
inutilizzabili per l'irrigazione. La
qualità dell'acqua si è deteriorata
in quasi tutti i sette bacini fluviali,
"molto seria" la situazione
dei fiumi Liao, Hai e Huai. Il delta
del fiume delle Perle è diventato
l'emblema dei disastri ambientali
dell'intera Asia. Il fiume che
attraversa la provincia del
Guangdong, pilastro del miracolo
industriale cinese, produce 4
miliardi di tonnellate di acqua inquinata
ogni anno, di cui solo il
10% viene trattato e pulito. Industria
e città emettono 600mila
tonnellate di diossido solforoso
che produce a sua volta piogge
acide.
Un quarto dei laghi patisce
l'abnorme crescita di piante
acquatiche causata dall'inquinamento
organico, dalla produzione
agricola e dall'urbanizzazione.
"Pratiche inefficienti, uso di fertilizzanti
di bassa qualità, pesticidi
stanno gravando pesantemente
sulla salute umana, sulle acque e
sulle risorse del terreno. L'uso eccessivo
di un bene come l'acqua
e la mancata protezione delle foreste
limitano il naturale processo
del loro rinnovamento"5.
In termini di emissioni nell'atmosfera,
la Cina presenta due gravi
problemi: emissioni di biossido di
carbonio da combustione fossile
e produzione e consumo di agenti chimici che bucano l'ozono. Entrambe
queste emissioni contribuiscono
al riscaldamento globale.
La domanda di energia è aumentata
rapidamente fin dalla prima
metà degli anni '90. La quota di
emissione di Co2 é aumentata dal
10% al 12% nell'ultimo decennio.
Si stima che nei prossimi venti anni
il fronte energetico utilizzerà prevalentemente
carbone, settore nel
quale la Cina ha puntato
all'autosufficienza, raggiungendo
oltre la metà del consumo globale.
Quanto allo stato del territorio,
quello cinese viene considerato
uno dei più erosi. Secondo la cinese
Accademia delle Scienze circa
350 milioni di ettari, pari al 40%
del paese, "sono affetti da una
moderata o severa erosione e
desertificazione". La stessa calcola
che l'area coltivata diminuisce
al ritmo di 300mila ettari l'anno6.
La Cina è il secondo paese al
mondo come consumatore di
energia (dopo gli Usa) ed è al terzo
posto come paese produttore.
E' il più importante produttore di
carbone ed il sesto per il petrolio
greggio. Ed è il consumo
energetico, particolarmente quello
garantito dal carbone che copre
il 76% del fabbisogno, la fonte
principale di inquinamento dell'aria.
Il 65% della generazione
energetica è concentrato nell'est,
nel centro-sud e nelle regioni del
sudovest, la parte più industrializzata
e inquinata di Cina. La
conseguenza è che la Cina è il
secondo inquinatore mondiale di
biossido di carbonio, conta per il
14% del totale delle emissioni ed
è destinata a diventare nei prossimi
vent'anni il primo responsabile
delle emissioni totali di sostanze
a effetto serra, le quali trattengono
nell'atmosfera l'energia
infrarossa emessa dal pianeta
rendendo più calda la superficie
terrestre.
L'industria cinese produce il 75%
del totale delle emissioni di
diossido di carbonio. Potrebbe ridurle
se ci fossero finanziamenti
pubblici sufficienti e una scelta
strategica delle industrie per aggiornare
continuamente le tecnologie
nella generazione di energia,
che farebbe risparmiare almeno
il 20% del consumo di carbone.
Ma, ricorda la International
Energy Agency di Parigi, per l'uso
di tali tecnologie sarebbe necessario
un intervento dell'industria
occidentale e tuttora ci sono "forti
ostacoli al trasferimento di nuove
tecnologie verso la Cina"7.
3. Quando ci saranno 150 milioni
di auto
A livello globale i consumi totali di combustibili fossili sono aumentati
più di quanti non sia aumentata
la popolazione. Ciò vuol dire
che determinante è risultato non
tanto l'andamento della crescita
demografica, bensì la propensione
al consumo di una quantità
crescente di popolazione. Aumentano
in sostanza rapidamente i
consumi di energia pro-capite sia
nel mondo industrializzato che nei
paesi in via di sviluppo. In Cina
entrambi i fattori hanno un peso
enorme nell'aumento dei consumi
totali di combustibili fossili.
Con una popolazione pari a un
quinto di quella mondiale e con
la sua straordinaria crescita economica
(tra l'8 e il 10% annuo),
la Cina è diventata l'emblema dei
paesi emergenti. La popolazione
urbana viene calcolata tra i 450
e i 500 milioni, più di un terzo
degli abitanti concentrati nelle
province dell'est e del sud-est.
Ogni anno aumenta di dieci milioni.
Di questi, almeno un terzo
utilizza il gas cittadino per cucinare
e l'uso pulito del carbone si
è esteso quanto più le abitazioni
sono costruite con mattoni. Ciò
ha ridotto le emissioni inquinanti,
ma questo vantaggio è stato
parallelamente compensato dall'aumento
degli scarichi di automobili
e camion pesanti e leggeri.
Nel 2003 il parco automobilistico
cinese è aumentato del 40%
portando i veicoli in circolazione
da 10 a 14 milioni. I produttori
ricordano che 14 milioni di veicoli
sono in fin dei conti circa la
metà dei veicoli circolanti in Italia,
che ha una popolazione venti
volte inferiore a quella della Cina
e una superficie trenta volte più
piccola. E ne deducono che c'è
grande spazio per produrre e vendere8.
Nel 2003, ogni giorno 11
mila vetture in più si sono aggiunte
al caos cittadino. La vendita di
auto è aumentata nel 2002 del
60%, nel 2003 dell'80%. Ogni
venti automobili in più nell'immenso
parco auto della Cina significa
"occupare" 0,4 ettari di
terreno per parcheggio, strade e
autostrade. Così nel 2003 è come
se si fosse impegnato lo spazio per
centomila campi di calcio9. Entro
il 2015 se la crescita continuerà
a questi ritmi, l'industria stima
che ci saranno 150 milioni di auto,
18 milioni più di quante ce ne fossero
negli Usa nel 1999. "L'emergere
di una classe di nuovi consumatori
è attesa con grande entusiasmo
perché migliorerà la
mobilità e lo status per quel che
l'automobile rappresenta. Sono in
milioni ad aspettare mesi e a indebitarsi
in misura significativa
per diventare i pionieri della nuova
cultura automobilistica"10. Il caso dell'automobile rende bene
le dimensioni di quella che viene
chiamata la "nuova classe" di consumatori
che nei grandi paesi in
via di sviluppo e in primo luogo
in Cina ha modificato radicalmente
il carattere dei problemi da
fronteggiare. I cinesi già oggi
membri della nuova classe di consumatori
sono 240 milioni, gli indiani
120 milioni. Per stili di vita
basati sul possesso di automobili,
ma anche di televisioni, frigorifero,
telefono, connessioni a
internet, su una dieta alimentare
più ricca, il livello di consumi di
questa ampia fascia di popolazione
tenderà nel giro di pochi decenni
a eguagliare quello medio
americano, europeo o giapponese.
Secondo il rapporto "State of
the World 2004", "in futuro saranno
i popoli in via di sviluppo a
essere i più danneggiati dall'esaurimento
delle risorse. La terra non
è in grado di provvedere sufficientemente
per tutta la popolazione
del pianeta se questa avrà la stessa
aspettativa di vita della media
degli americani o degli europei.
Se la media dei consumatori utilizzasse
petrolio al ritmo medio
americano, la Cina avrebbe bisogno
di 90 milioni di barili al
giorno, 11 milioni più di quanto
l'intero mondo ne produceva ogni
giorno nel 2001"11. E' evidente che
"se e quando i Cinesi, gli Indiani,
gli Asiatici in generale e, poi, i
Sud Americani e gli Africani consumeranno
quanto Nord-Americani
ed Europei, allora il problema
della sostenibilità ecologica del
sistema mondo diventerà drammatico,
anche se la popolazione
dovesse cessare di aumentare e
raggiungere uno stato stazionario" 12.
4. Buona volontà ufficiale ma
scarsi risultati
Dalla metà degli anni '90 non c'è
piano per lo sviluppo sociale ed
economico che non preveda
obiettivi anti-inquinamento. E le
autorità anche locali non perdono
occasione per affermare l'esigenza
di tenere sotto controllo
l'impatto ambientale dell'attività
produttiva. Ma "nonostante il
complesso sistema legislativo, una
complessa congerie di strumenti
politici e un network di agenzie e
istituzioni ambientali sparsi nel
paese, il rispetto delle regole ambientali
resta basso"13. Troppo
vaghi gli standard in molte leggi,
troppo debole la supervisione
pubblica dei progetti industriali in
relazione all'impatto ecologico.
Pesa inoltre la mancanza di un
giudice imparziale per interpretare
le leggi e arbitrare le dispute locali. E ha un peso anche il prezzo
troppo basso delle risorse naturali
e dei servizi ambientali, che
incoraggiano lo spreco e non incentivano
a internalizzare i costi
ambientali per le imprese.
C'è consenso nel mondo imprenditoriale
occidentale sul fatto che
gli investimenti esteri diretti, attraverso
i gruppi multinazionali
(europei e americani, ma soprattutto
asiatici o della diaspora cinese),
esercitano un ruolo positivo
di freno alle produzioni inquinanti,
quantomeno per una esigenza
di immagine presso le opinioni
pubbliche nazionali e per
non esporsi al rischio di accuse
nelle assemblee degli azionisti,
con eventuali spiacevoli conseguenze
in Borsa. Ma la stessa Banca
Mondiale, rilevando che almeno
il 30% degli investimenti diretti
è localizzato nelle zone industriali
altamente inquinate, ammette
che essendo la Cina l'atelier
del mondo ciò stimola le industrie
non cinesi a trasferirvi
"processi tecnologici che altrove
non rispettano standard ambientali.
Per massimizzare i profitti le
imprese devono minimizzare i costi
il più possibile, il che crea un vincolo
sia al governo che al mercato.
Anche se le imprese statali
hanno scarsi vincoli finanziari, gli
attuali incentivi spingono a minimizzare
i costi del controllo antiinquinamento
come fanno le altre
controparti dell'economia di
mercato". Inoltre, sebbene "per
oltre un decennio migliaia di
aziende grandi e piccole hanno
dovuto pagare multe perché scaricavano
sull'ambiente i loro rifiuti,
la maggior parte delle industrie
nelle zone rurali interne è
sfuggita ai pagamenti a causa
della debole capacità delle autorità
ambientali locali di imporre
il rispetto delle norme"14.
Non
solo. L'immenso territorio cinese
viene utilizzato come area di
smaltimento e distruzione di prodotti
industriali, operazione quest'ultima
che comporta elevati livelli
di inquinamento e di rischi
per chi vi lavora. Insieme con India
e Pakistan, la Cina è diventata
il "ricovero" dei vecchi computer.
Secondo l'Agenzia americana
di protezione dell'ambiente
trasferire i monitor in Cina per
distruggerli è dieci volte più conveniente
che farlo a casa propria.
Ciò comporta, secondo "The State
of the World 2004", un traffico
tossico che sarebbe bandito dalle
norme internazionali. Alcuni anni
fa il gruppo ambientalista svizzero
Basel Action Network e
Greenpeace fecero una indagine
sul sito di distruzione a Guiyu e
scoprirono, appunto, che la maggioranza di computer proveniva
dagli Usa. Monitor e hardware
venivano distrutti con martelli,
scalpelli, cacciaviti e anche a mai
nude per recuperare filo di rame.
Il resto veniva gettato nei fiumi o
abbandonato a terra. Lo stesso
con fax, cariche di inchiostro, cavi
in pvc. Ciò accade nonostante che
la Cina abbia bandito le importazioni
di rifiuti solidi nel 1996 e
previsto specifiche proibizioni nel
2000 contro l'importazione di vecchi
monitor.
Nel tentativo di ridurre l'inquinamento,
l'amministrazione municipale
di Pechino alla fine dello
scorso decennio ha obbligato gli
automobilisti a usare gas naturale
convertendo l'alimentazione.
Così dal 2002 la capitale detiene
il primato della città con il numero
più alto di autobus a gas naturale
del mondo (1630 veicoli).
Ciononostante l'Amministrazione
statale per la protezione dell'ambiente
(Sepa) indicava nel giugno
2003 che i responsabili dei controlli
ambientali "non sono ottimisti
sul successo dei loro sforzi
per la riduzione della pressione
delle sostanze inquinanti nell'aria"15. L'Agenzia internazionale
dell'Energia ritiene che "nonostante
gli sforzi del governo e della
Sepa la concentrazione della
maggior parte delle sostanze inquinanti
resta elevata". L'Organizzazione
mondiale della sanità valuta
che sette delle dieci città più
inquinate del pianeta sono in
Cina, vittima di un circolo vizioso
di cui è difficile vedere l'uscita: la
combustione del carbone inquina
l'aria e produce piogge acide
che ricadono su un terzo del paese.
La quota cinese di emissioni
da carbone arriverà al 17,8% del
totale mondiale entro il 2025. Gli
Usa emettono 5,5 tonnellate metriche
per persona di carbonio, di
fronte a una media globale di 1,1.
La Cina è ferma a 0,6 tonnellate
metriche, ma, segnala l'Iea, "la
crescita dell'economia e un aumento
dello standard di vita comporteranno
un aumento dell'uso
di energia e quindi delle emissioni
e di carbonio".
Il governo cinese confida nel
completamento, entro il 2009,
della diga delle Tre Gole, la più
grande del mondo, che già quest'anno
sarà in grado di produrre
30 miliardi di khw per le regioni
centrali e orientali. E' uno
dei megaprogetti mondialmente
più contestati. Grande vanto del
governo cinese, la diga sbarra il
fiume Yangzi in corrispondenza di
una serie di spettacolari canyon,
le Tre Gole appunto, nella Cina
sud occidentale): costo 25 miliardi
di dollari, 27.780 ettari di terra arabile sommersi, 116 città,
1.711 villaggi e 1.599 fabbriche
inabissati, due milioni di persone
evacuate. Tutti elementi per un
disastro ecologico. Alta 181 metri,
lunga 2309, la diga è munita
di due generatori con 26 turbine
ognuna della quali capace di produrre
700 megawatt, e nel punto
più profondo dovrebbe raggiungere
i 171 metri oltre a creare un
lago lungo quasi 600 chilometri.
Periodicamente si riaccendono
ancora forti contestazioni
ambientaliste. Secondo Pechino
sono due i vantaggi: produrre circa
un decimo dell'elettricità consumata
riducendo l'emissione di
circa cinque milioni di tonnellate
di anidride carbonica nell'atmosfera,
evitare le piene bibliche che
nell'ultimo secolo hanno causato
più di un milione di vittime ed
ancor più sfollati. Inoltre lo Yangzi
potrà essere navigabile per
duemila chilometri, favorendo in
tal modo gli scambi commerciali.
Ma i gruppi ambientalisti di mezzo
mondo sono allarmati non solo
per il rischio di cedimenti, ma anche
per il fatto che le terre sommerse
sono fra le più fertili della
Cina, custodiscono immense piantagioni
di more e le coltivazioni
delle preziose orchidee arancione.
Alla fine verranno sommersi anche
i 1.300 siti archeologici risalenti
a 4.000 anni fa.
MONDO CINESE N. 120, LUGLIO-SETTEMBRE
2004