1. Consenso unanime sul soft
landing
È un quarto di secolo ormai
che l'economia cinese cresce
a un ritmo molto sostenuto,
vicino al 9% medio annuo.
Grazie a questo ritmo di crescita
così vigoroso, il paese è diventato
una potenza economica mondiale
il cui andamento condiziona
in misura significativa le altre
economie.
Questi 25 anni non sono stati senza
scosse e Pechino ha dimostrato
di saper gestire con successo
macro-aggiustamenti quali, per
citare quelli dell'ultimo decennio,
la bolla del '93-94, la crisi asiatica
del '97-98 e la recessione globale
del 2001.
Ora è alle prese con una nuova
fase di aggiustamento macro-economico
dovuta a un eccesso di
crescita che ha cominciato a manifestarsi
già nell'estate del 2003,
proprio mentre la Cina usciva
dalla difficile opera di
contenimento della Sars. Il
surriscaldamento dell'economia
ha accentuato le distorsioni
nell'allocazione delle risorse creando
le premesse per successive
crisi di importanti settori ed eventualmente
dell'economia dell'intero
paese. Le autorità monetarie
hanno cominciato ad affrontare
la situazione già nell'agosto
dello scorso anno, aumentando i
parametri di riserva richiesti alle
banche al fine di contenere la crescita
del credito e imponendo più
rigorosi criteri di valutazione per
i prestiti al settore immobiliare. Il
governo è intervenuto nei mesi
successivi impostando una politica
il cui obiettivo è quello di riportare
i ritmi di crescita del prodotto
interno lordo a livelli più
sostenibili, riducendo al contempo
le distorsioni che si erano manifestate,
e soprattutto cercando di
ottenere questi risultati senza brusche
frenate, il cui impatto sociale
ed economico sarebbe assai più
incerto e difficile da gestire.
La scelta del soft landing è stata
accolta dal generale consenso,
poiché proprio per le forti
interrelazioni che l'economia cinese
ha ormai con quelle degli
altri paesi, il suo contributo stabile
alla crescita mondiale è considerato un interesse generale,
mentre una sua crisi improvvisa
avrebbe effetti negativi a catena.
Il problema a questo punto è che,
passati dodici mesi abbondanti dai
primi provvedimenti per raffreddare
l'economia e almeno sei da
quando il governo ha affrontato
con più decisione la questione,
nessuno è ancora in grado di dire
se questi provvedimenti abbiano
avuto l'effetto che si proponevano,
se lo avranno in futuro, se
insomma possiamo dormire sonni
tranquilli perché il landing ci
sarà e sarà soft come Pechino promette
e tutti auspicano1.
Sono alcuni mesi che gli uffici studi
delle grandi banche internazionali
vivono in trepida attesa dei
dati sui consumi, sugli investimenti,
sull'offerta di moneta, sull'andamento
dei prezzi, mentre le
parole del governatore della banca
centrale cinese vengono scrutinate
con l'attenzione che fino a
qualche tempo si conquistava solo
il presidente della Federal Reserve,
Alan Greenspan. Ma i dati forniscono
risposte incerte e in più nessuno
veramente li prende per oro
colato, per la non piena
affidabilità dei sistemi di
rilevazione e di calcolo e per la
supposta permeabilità degli istituti
che li elaborano alle pressioni politiche2.
Al centro dell'attenzione ormai da
mesi ci sono quindi le prospettive
del quadro economico, ma la cosa
non si esaurisce a questo pur rilevantissimo
aspetto della questione.
Ben intrecciato alle analisi sul
fatto che 'l'atterraggio' sia in atto
o meno e sul suo grado di
'morbidezza', si è infatti sviluppato
un dibattito i cui esiti saranno
probabilmente più complessi
e profondi di quelli strettamente
economici della manovra in atto.
2. Ma i tassi di interesse non
sono stati toccati
Normalmente nelle economie industrializzate
quando la crescita
si surriscalda o viceversa rallenta
in eccesso, gli strumenti principe
per intervenire sono la politica
monetaria, che muove la leva dei
tassi di interesse alzandoli o riducendoli,
e quella fiscale. Le variazioni
dei tassi d'interesse determinano
comportamenti diversi nei
risparmiatori e negli investitori e
quindi, attraverso meccanismi di
mercato, influenzano l'andamento
dell'economia in generale. Non
sempre la politica monetaria ha
successo né sempre è sufficiente,
ma si ritiene che l'azione sui tassi
di interesse sia quella che più rispetta
il mercato e le sue forze.
Se poi la politica monetaria non basta per rallentare o accelerare
la crescita dell'economia oppure
è per altre ragioni non utilizzabile,
lo strumento con il quale
si interviene è la politica fiscale,
che apre o stringe i cordoni
del bilancio pubblico secondo
le possibilità di un dato paese
in quel momento e le sue esigenze.
Pechino, di fronte al surriscaldamento
dell'economia cinese, ha
preferito continuare nella linea
degli interventi 'amministrativi'.
Non ha cioè alzato i tassi di interesse
ma ha aumentato i requisiti
di riserva richiesti alle banche per
ridurne la capacità di erogare credito
e ha posto limiti ai nuovi prestiti
erogabili a imprese dei settori
particolarmente 'caldi': edilizia
e immobiliare, alluminio, acciaio,
cemento e automobile. Inoltre
ha invitato le amministrazioni locali
a essere molto più selettive
nella concessione di licenze per
le nuove costruzioni.
La differenza tra i due approcci è
chiara: se si aumentano i tassi di
interesse, saranno gli operatori a
valutare se è conveniente chiedere
altro credito per investire e gli
speculatori a valutare fino a che
punto è il caso di aumentare il
proprio livello di rischio; se invece
si chiudono alcuni rubinetti la
decisione è centrale e non
selettiva, se non per quel che riguarda
la scelta dei settori ai quali
contingentare le risorse.
Pechino ha avuto e dato molte
soddisfazioni con l'utilizzo di strumenti
'amministrativi' e non 'di
mercato' per affrontare situazioni
di crisi e gestire i suoi
aggiustamenti macro e microeconomici,
e di questo la discussione
in atto tiene conto. Infatti,
salvo alcuni commentatori, non è
quasi per nulla una discussione
ideologica della serie 'meno stato
più mercato'. E' invece essenzialmente
tesa a valutare l'efficacia
degli strumenti amministrativi
nella gestione di una fase di aggiustamento
di una economia che
è diventata non solo molto grande
in tempi brevi, ma anche molto
complessa.
E' in effetti questo aspetto a rendere
il problema dell'hard o soft
landing dell'economia cinese ancora
più importante di quello che
non sia già per le prospettive dell'economia
globale. Perché alla
fine soft landing vuol dire che
l'economia rallenta ma in maniera
non drastica e ci metterà un po'
di più ad assorbire le bolle e le
distorsioni che nella fase di
surriscaldamento si sono create,
mentre l'hard landing vuol dire
che la frenata è più brusca e quindi
qualcuno rischia di rimanere contuso, ma il tempo di
riassorbimento delle bolle e delle
distorsioni è assai più breve e
quindi si può riavviare prima un
ciclo di crescita stabile. La differenza
tra i due scenari non è
quindi poi così grande3.
La conferma dell'efficacia degli
strumenti amministrativi, o viceversa
la verifica sul campo che
con una economia di quella dimensione
e complessità gli strumenti
amministrativi non bastano
più e bisogna pragmaticamente
passare a quelli di mercato,
potrebbe invece determinare
una svolta di ben più profondo
impatto e lungo respiro.
Non è il caso di fare previsioni
sull'esito di questa verifica sull'adeguatezza
degli strumenti, ma
la cosa va seguita con attenzione
estrema perché è con passaggi di
questo tipo e con la capacità di
adeguarsi del gruppo dirigente
cinese che è stata fatta finora e
che procederà in futuro la straordinaria
avventura dello sviluppo
del paese più popoloso del pianeta.
3. Il parere della americana
Federal Reserve
Quanto sia difficile una valutazione
univoca dell'andamento
dell'economia cinese lo testimonia,
tra i tanti, un episodio particolarmente
significativo. Durante
l'ultima settimana di agosto, hanno
parlato dell'argomento sia il
governatore della Banca centrale
cinese, Zhou Xiaochuan, che il
presidente della Federal Reserve,
Alan Greenspan: ebbene, il primo
ha detto che in quel momento
l'espansione economica non
dava segni evidenti di rallentamento,
mentre il secondo ha sostenuto
che le misure adottate per
raffreddare l'economia avevano
imbrigliato il boom. Secondo Andy
Mukherjee, columnist di Bloomberg4, questa divergente
valutazione si spiega con il fatto
che il governatore della Banca
centrale cinese guarda soprattutto
all'inflazione, che ha superato
il 5% tornando ai livelli di sette
anni fa, mentre il presidente della
Federal Reserve, che guarda la
Cina da lontano, è più interessato
a valutare le prospettive di rallentamento
delle economie asiatiche
e l'eventuale impatto sull'economia
globale e quindi ha
apprezzato il rallentamento della
crescita della produzione industriale
che si è ridotta di circa un
terzo tra l'inizio dell'anno e l'estate.
In realtà il problema chiave del
surriscaldamento cinese è l'eccesso di investimenti e, in particolare,
l'eccesso di investimenti in alcuni
settori e da parte delle aziende
pubbliche, che ancora contano
per i due terzi dell'intero sistema
produttivo. Dietro questo
eccesso di investimenti ci sono
delle cause finanziarie e delle
cause sociali e politiche. Le cause
finanziarie sono essenzialmente
rappresentate dai tassi di interesse
bassi, dalla scarsa selettività e
capacità di valutare il rischio da
parte delle banche, dal fatto che
la liquidità è abbondante, sia perché
la propensione al risparmio è
molto alta sia per ragioni valutarie5.
I tassi di interesse non salgono in
Cina dal 19956 e ormai sono negativi
in termini reali, questo determina
una propensione all'investimento
particolarmente forte
che trova spazio per l'abbondanza
di liquidità creata da un tasso
di risparmio altissimo. Le banche
dal canto loro sono pubbliche, e
la loro cultura è di dare soldi a
chi li chiede, soprattutto se a chiederli
sono aziende pubbliche. Per
questa via le banche hanno accumulato
una enorme quantità di
crediti inesigibili7 tanto che, secondo
gran parte degli analisti
internazionali, sarebbero tecnicamente
in bancarotta. Negli ultimi
anni è stato avviato un processo
di ristrutturazione del sistema nella
prospettiva della privatizzazione
del sistema creditizio e della progressiva
apertura dei mercati finanziari;
lo stato ha immesso risorse
notevoli e si sta lentamente
sviluppando una cultura della valutazione
del rischio che sta dando
i primi frutti, il più visibile dei
quali è la riduzione del ritmo di
crescita delle sofferenze. Tuttavia
siamo ancora lontanissimi dagli
standard internazionali e
l'erogazione del credito è ancora
molto facile, tanto che si parla di
blind investment, di prestiti ciechi8,
forniti cioè senza una valutazione
patrimoniale e reddituale adeguata
dei prenditori né del tipo
di investimento che ciascun credito
va a finanziare.
Infine c'è la questione valutaria.
La Cina è da anni una delle destinazioni
preferite degli investimenti
diretti esteri, che affluiscono
al ritmo di un miliardo di dollari
la settimana. Ma poiché lo
yuan, la valuta cinese, è legata
da un cambio fisso (peg) al dollaro,
per ogni miliardo di dollari
che entra la banca centrale di
Pechino è costretta a stampare il
controvalore in yuan. Ed è altra
liquidità che entra in circolo9.
Tutto ciò è assai complesso da
gestire, ma ancora di più lo è il
cotè politico-sociale. Sono più di vent'anni ormai che in Cina la
parola d'ordine è 'crescere', e
sulla spinta alla crescita sono state
costruite carriere nel partito e nelle
amministrazioni periferiche. Una
intera generazione di amministratori
è stata allevata con questa
logica, e ora è assai difficile convincerli
a frenare. Ciascuno vuole
costruire nel suo municipio o
nella sua regione, quante più
strade, case, fabbriche, in una
frenesia quantitativa nella quale
la competizione è tutta interna per
accaparrarsi la maggiore quota
possibile di risorse. In questa partita
un ruolo chiave lo hanno le
aziende pubbliche che, ormai nessuno
lo mette più in dubbio, non
sono la componente dell'economia
dalla quale aspettarsi creazione
di ricchezza, sviluppo, nuova
occupazione. Queste aziende
però sono assai difficili da fermare,
sia per i problemi sociali che
ciò pone - in termini di perdita di
posti di lavoro ma anche di servizi
sociali, poiché molto spesso
sono le aziende pubbliche a fornirle
ai dipendenti e alle loro famiglie
- sia in termini di sistema
di potere, per l'intreccio
inestricabile che c'è tra la fascia
di vertice delle aziende, delle amministrazioni,
del partito e anche
delle banche. L'esito di tutto ciò,
secondo Andi Xie, economista di
Morgan Stanley a Hong Kong, è
che la Cina si trova ad aver investito
200 miliardi di dollari di
troppo.
Il problema però non è solo la
quantità. Liquidità abbondante a
tassi bassi, investimenti esteri, investimenti
di gruppi privati e del
settore pubblico hanno determinato
una forte accelerazione della
crescita, ma quello che più preoccupa
è che la allocazione delle
risorse non è stata ottimale. Molti
soldi sono finiti in progetti che
non remunereranno mai il capitale,
altri ad aumentare la capacità
in settori che di capacità
aggiuntiva non avevano bisogno.
Si sono create bolle speculative in
alcuni comparti, come l'immobiliare.
Per converso assai di più si
sarebbe dovuto investire nei settori
dell'energia e dei trasporti,
per citarne due dove i colli di bottiglia
si stanno moltiplicando e rischiano
di creare seri ostacoli ad
uno sviluppo equilibrato.
4. Le ragioni della frenata
Il periodo in cui i sintomi di
surriscaldamento hanno sfiorato
la patologia sono gli ultimi tre
mesi del 2003 e i primi sei del
2004. In quei nove mesi gli investimenti
fissi sono saliti alle stelle,
e anche gli investimenti esteri effettuali (non solo contrattualizzati)
hanno registrato balzi vigorosi.
Nel primo trimestre del 2004 il
prodotto interno lordo è cresciuto,
secondo dati ufficiali, del 9,8%
e molti hanno considerato un segno
di raffreddamento il fatto che
nel secondo trimestre c'è stato un
appena percettibile rallentamento
al 9,6%10. In realtà la corsa agli
investimenti fissi ha continuato a
crescere fino a registrare, nel
mese di agosto, un ammontare
doppio rispetto a quello già elevato
di aprile e in linea con i livelli
altissimi raggiunti negli ultimi
tre mesi del 2003. Quella che
è rallentata è invece la produzione
industriale, che cresce a ritmi
più contenuti rispetto ai primi
mesi dell'anno, a segnalare che
il contingentamento dei
finanziamenti potrebbe avere
avuto effetti più sulla dimensione
del circolante che sulla propensione
all'investimento. In più, ed
è questo il punto più delicato, c'è
stato un vero e proprio balzo in
avanti dell'inflazione, che, nel
mese di agosto, ha raggiunto il
5,3% rispetto allo stesso mese dell'anno
precedente: un livello che
non toccava da sette anni. Quello
dell'inflazione è un dato particolarmente
sensibile, perché se i
banchieri centrali possono valutare
non opportuno utilizzare
strumenti di politica monetaria
per regolare la crescita, non possono
invece esimersi dal farlo
quando entra in ballo l'inflazione.
La crescita dell'inflazione quindi,
se confermata dai dati dei prossimi
mesi, è il fattore di maggior
peso quando si va a ragionare sul
livello dei tassi di interesse. In settembre,
proprio in conseguenza
dell'elevato livello dell'inflazione,
s'è aggiunto il fatto che i tassi di
interesse negativi in termini reali
stanno spingendo molti risparmiatori
cinesi a ritirare i loro depositi
dalle banche, dove sono
remunerati con un tasso inferiore
all'aumento del costo della vita,
e quindi perdono costantemente
valore, per impiegarli altrimenti,
ovvero per fare acquisti di beni di
consumo durevoli oppure orientandosi
verso vere e proprie scelte
d'investimento, immobiliari o
finanziarie. Questo preoccupa le
banche e certamente non semplifica
il quadro del quale deve tener
conto la banca centrale per
le sue decisioni.
Nel complesso tuttavia, quello che
emerge dai dati più recenti è un
panorama contraddittorio, che
non consente di affermare con
certezza che il soft landing sia iniziato
e sia sotto pieno controllo.
In linea di massima però il ritornello che si sente più di frequente,
e che ribadisce i commenti
degli economisti del Fondo Monetario Internazionale11,
è che le
misure amministrative potrebbero
- come non potrebbero - essere
sufficienti, ma contengono in
se il rischio di una propensione al
rilassamento degli organismi burocratici
che sono chiamati ad
applicarle, e quindi richiedono un
ostinato monitoraggio per avere
efficacia e per conservarla per il
tempo necessario (che potrebbe
non essere breve) a dispiegare
appieno i loro effetti.
Un punto di particolare interesse,
in questa situazione, è l'analisi
delle ragioni che stanno dietro
la prudenza estrema con la
quale in Cina vengono mossi i
tassi di interesse, che, come già
detto sopra, non sono stati mossi
al rialzo dal 1995 e, in questo
periodo, sono stati mossi pochissime
volte anche al ribasso. Il primo
elemento è che, al contrario
di quanto avviene per esempio
negli Stati Uniti, il tasso ufficiale
di sconto non è un tasso di riferimento
ma è quello effettivamente
applicato dalle banche. Più
complessi da misurare sono gli
altri elementi, che riguardano la
struttura stessa dell'economia cinese.
La Cina è un paese assai grande
e ormai oltremodo diversificato.
Ci sono differenze vistose e crescenti
di reddito tra città e campagne,
tra regioni costiere e regioni
interne, tra le stesse regioni costiere12.
Non tutte queste regioni
hanno goduto nella stessa misura
della crescita vertiginosa dell'economia
registrata negli ultimi
lustri e anzi il divario tra regioni
si è ampliato proprio a causa dei
diversissimi ritmi di crescita. Ma il
tasso di interesse è uno per la
Cina intera, e quando sale probabilmente
frena chi corre troppo
ma certamente rallenta ulteriormente
o addirittura blocca o
fa andare indietro quelle parti del
paese che fanno una gran fatica
anche solo a camminare. La stessa
diversità di situazioni si trova
tra i settori dell'economia, in alcuni
dei quali si stanno creando
bolle di sovracapacità produttiva
a causa dei troppi investimenti e
altri dove invece ci sarebbe un
gran bisogno di accelerare gli investimenti
perché stanno diventando
dei pericolosi imbuti che
compromettono lo sviluppo equilibrato.
Infine diversità profonde
ci sono nelle componenti del sistema
produttivo, con la componente
privata nazionale e a capitale
estero che cresce e crea ricchezza
e con quella pubblica che,
nonostante che l'economia nel suo complesso vada avanti a balzi
del 9% l'anno, in alcuni casi a
malapena sta a galla e per la gran
parte vive di indebitamento crescente.
Un aumento dei tassi d'interesse
rallenterebbe tutti, i settori
che crescono troppo e quelli
che non crescono abbastanza,
così come determinerebbe un
peggioramento ulteriore dei conti
delle aziende pubbliche con conseguenze
pesanti sui bilanci del
sistema bancario.
Proprio quest'ultimo problema è
forse quello guardato con maggiore
attenzione. Le banche, lo
abbiamo già detto, sono in una
delicata transizione che ha l'obiettivo
di renderle solide
patrimonialmente ed efficienti
nello svolgimento della loro funzione.
Di questa transizione siamo
però forse a un terzo o forse
neanche, e lo sforzo che in questa
fase si sta facendo è soprattutto
finalizzato al contenimento
delle sofferenze. Un rialzo dei tassi
probabilmente aumenterebbe la
redditività degli impieghi sani, ma
condannerebbe molti di quelli
malati o malaticci, determinando
un'impennata nelle partite
inesigibili dove invece è necessaria
una bella cura dimagrante.
Tutti sanno che le imprese malate
che stanno in piedi solo perché il
denaro non costa nulla (in termini
reali) - e perché trovano ancora
chi glielo presta pur nella consapevolezza
che non tornerà mai
indietro - sarebbe meglio chiuderle
lasciando le risorse a disposizione
di chi può costruttivamente
impiegarle, e nel medio termine
è questo il destino. Ma una accelerazione
di questo processo richiede
una salda determinazione
politica ad affrontare i problemi
sociali connessi. Abbiamo visto
cosa è accaduto in Giappone,
quanto tempo è trascorso prima
che il problema delle sofferenze
bancarie venisse affrontato in profondità
e quanto il non affrontarlo
abbia pesato in termini di
mancata crescita della seconda
economia del mondo.
Ma se per la politica è difficile affrontare
il problema nel suo complesso,
per le banche, finché sono
pubbliche e non devono rispondere
a un qualsivoglia mercato,
la questione si pone in termini
molto più semplici: il credito a una
azienda decotta che grazie al fatto
che il denaro non costa nulla
(in termini reali) riesce a rispettare
anche solo formalmente le scadenze
non va tra le sofferenze; il
credito a un'azienda che non riesce
a pagare gli interessi va tra
gli incagli e successivamente ad
aumentare la montagna delle sofferenze
da iscrivere in bilancio.
5. Una prova anche per la politica
e le sue istituzioni
L'aggiustamento macro-economico
che la Cina si trova ad affrontare
è molto delicato. Pur essendo
una crisi da eccesso di crescita
potrebbe rivelarsi paradossalmente
ancora più delicato di quelli
affrontati in precedenza e con
successo. L'economia cinese è infatti
molto più aperta che in passato,
le disparità e gli squilibri al
suo interno sono cresciuti e con
la sua dimensione sono cresciute
anche la sua articolazione e la sua
complessità. Un contesto del genere
ha bisogno assoluto di un
sistema bancario e finanziario almeno
mediamente efficiente, sia
per la gestione e regolazione dei
flussi che per l'allocazione delle
risorse e la valutazione del rischio.
Ebbene, in Cina i sistemi bancario
e finanziario, nonostante i
passi avanti compiuti negli ultimi
anni, non sono all'altezza della
articolazione dell'economia, non
hanno in se stessi i meccanismi di
autocorrezione né sono leve efficacemente
utilizzabili per regolare
il sistema. La questione è all'attenzione
del governo e della
banca centrale di Pechino, che
stanno muovendo passi intelligenti
ma cauti verso la soluzione del
problema. E' probabile però che
proprio le dinamiche dell'economia
e della crescita impongano
una accelerazione.
La seconda considerazione conclusiva
riguarda il pianeta Cina
nel suo complesso. La democrazia,
lo abbiamo letto e ascoltato
infinite volte, e possiamo condividere
o non condividere questa
analisi, non è nei cromosomi di
molte delle società asiatiche. Tuttavia
le vicende alle quali abbiamo
assistito negli ultimi due decenni
ci hanno mostrato, se non
ancora dimostrato, che al di là
della propensione individuale,
culturale o politica alla democrazia,
arriva un momento in cui società
economicamente più aperte
raggiungono, con il crescere del
reddito e della dimensione economica,
un tasso di complessità e
articolazione degli interessi,
oltreché una evoluzione delle
aspirazioni individuali, che una
gestione centralizzata fa sempre
più fatica a governare. Man mano
che gli interessi si fanno più articolati
si fanno anche più consapevoli,
e trovarne la sintesi da
parte di un soggetto che si pone
sopra di loro diventa progressivamente
più difficile. Da quegli
interessi prima o poi nasce un bisogno
di rappresentanza, perché
il centro non riesce più a gestirli
e coordinarli tutti. L'unico modo di trovare una sintesi diviene la
dialettica tra le varie rappresentanze
che gli interessi nei quali si
è articolata la società esprimono.
Il riaggiustamento che la Cina sta
affrontando in questi mesi è una
di quelle prove sulle quali un sistema
politico e istituzionale misura
la sua capacità di governare
la crescente complessità. E' da
verifiche come queste che nascono,
se non le rivoluzioni, certo i
passaggi che segnano l'evoluzione
di un paese.
MONDO CINESE N. 120, LUGLIO-SETTEMBRE
2004