La 61° Mostra del cinema di Venezia (dal primo all'11 settembre)
ha ospitato una vasta selezione di film cinesi, anche grazie alla
nota passione per il cinema orientale del neodirettore Marco Müller.
Partendo dal concorso, si nota la presenza di ben due pellicole. Il regista
taiwanese Hou Hsiao-hsien, già vincitore del Leone d'oro nel 1989
con Città dolente (Beiqing chengshi), porta Café Lumière (Kafei
shiguang),
un film finanziato dal Giappone e interamente ambientato a Tokyo -
una pellicola dunque che si scosta dalla sua precedente produzione,
legata alla realtà presente e storica di Taiwan. Nato come omaggio al
regista giapponese Yasujiro Ozu, in occasione del centenario della nascita,
Café Lumière costruisce attorno a due carismatici protagonisti (la
stella del pop Yo Hitoto, al suo debutto cinematografico, e il celebre
Tadanobu Asano) una sinfonia lenta, fatta di lunghi pomeriggi passati
nei caffè dei quartieri periferici della capitale, di dialoghi rarefatti e
calibrati, di treni, stazioni metropolitane e interni dal design tradizionale.
Hou compone le inquadrature con la solita grazia, ma le sutura
con un discorso intellettuale in cui si intrecciano riferimenti, citazioni e
simboli. L'altro film in concorso è The World (Shijie) di Jia Zhangke,
regista della Cina popolare che riconosce debiti formali con Hou Hsiaohsien.
The World è la prima pellicola di Jia ad ottenere l'appoggio del
governo; il cineasta non addomestica, però, il suo sguardo, che si posa
questa volta sui destini incrociati degli impiegati del parco tematico di
Pechino chiamato, appunto, "Il mondo": in un grande parco sono riprodotti,
in miniatura, gli edifici più famosi del globo, e si organizzano
danze tradizionali e spettacoli di fuochi d'artificio. I protagonisti sono i
ballerini, i custodi, gli amministratori del parco. Che si sposano, si
lasciano, si scrivono tanti messaggi con il cellulare - la cui virtualità è
enfatizzata dalla curiosa scelta del regista di inserire nel film spezzoni
di cartoni animati. A parte questa relativa innovazione, lo stile è quello
cui Jia ha abituato il suo pubblico: lunghissimi piani sequenza, telecamera
che accarezza i personaggi nei loro spostamenti per interminabili
corridoi, ellissi temporali e sospensioni poetiche della narrazione. Tutti
vogliono partire, avanzare di grado o lasciare il paese alla ricerca di
ricchezza materiale; ma è il mondo a venir da loro, a comprimersi in
una claustrofobica (post?)modernità: la maggior parte delle sequenze
sono infatti girate con scenografie quali la torre Eiffel, Piazza San Marco,
le piramidi d'Egitto. Jia simboleggia le contraddizioni insite nel
processo di globalizzazione che sta attraversando la Cina con questo décor, figura retorica di semplice decifrazione ed elegante potenza visiva.
Le sezioni parallele sono state anch'esse ricche di esponenti del mondo
cinese: la prestigiosa selezione di film fuori concorso è stata inaugurata
da Throw Down (Rudao longhu bang), dell'hongkonghese Johnnie
To. Il versatile regista, che spazia in tutti i generi e alterna successi e
fallimenti (tanto di pubblico quanto di critica), presenta qui un'opera
che non è stata accolta con grandi entusiasmi. Le sequenze d'azione
sono preponderanti, e girate con maestria, ma la storia che le collega
è confusa e slegata, e ha sconcertato i festivalieri e deluso la schiera di
fan; la sinossi è presto detta: un ex-campione di Judo (Louis Koo) gestisce
un bar e accetta la sfida del focoso Leather Jacket (Aaron Kwok), e
tra loro si esibisce in canti e balli una ragazza taiwanese (Cherrie
Ying). Anche la Settimana della Critica è stata aperta da un film
hongkoghese: Butterfly (Hudie), della giovane Yanyan Mak. Storia d'amore
saffico, il film rivendica la legittimità dell'amore lesbico attraverso
sequenze di sesso esplicito. Altrettanto disinibiti si vorrebbero i protagonisti
dell'unico film taiwanese della Mostra, Uninhibited (Fang kuang),
cupo ritratto generazionale del ventitreenne regista Leste Chen.
A parere di chi scrive i film cinesi più interessanti della Mostra sono due
cortometraggi. Il primo è The Hand (Shou), il sublime episodio che
Wong Kar-wai gira nell'ambito del progetto Eros (gli altri sono firmati
da Soderbergh e Antonioni); ad Hong Kong negli anni 60 un giovane
sarto, interpretato da Zhen Zhang, viene iniziato ai dolci turbamenti
del sesso da una decadente Gong Li, nel film più sensuale e torrido mai
girato da Wong, che rielabora il tema del feticismo della mano attraverso
immagini sartoriali, colori saturi e musiche languide. Infine, è da
ricordare nella sezione Mezzanotte Three...Extremes (San gang er), film
horror a episodi diretto da Fruit Chan, Takashi Miike e Park Chanwook.
In Dumplings (Jiaozi), l'hongkonghese Chan dirige Miriam Yeung
nel ruolo di una donna che teme l'avanzare dell'età e ricorre alle
particolari ricette di Bai Ling, la quale si procura feti di bambini abortiti in Cina per preparare particolarissimi ravioli. Il regista, sempre provocatore
ma nuovo nel genere horror, confeziona una inquietante variazione
sul tema del cannibalismo, caro alla cultura cinese da Lu Xun
a Tsui Hark, in un'opera di grande impatto e sobrietà.
MONDO CINESE N. 120, LUGLIO-SETTEMBRE
2004