Contaminazione” sembra
essere stata la parola d’ordine
delle tendenze musicali
di questi ultimi anni, caratterizzate
da musicisti di diversa
estrazione etnica e culturale che
hanno realizzato nuove sonorità
grazie ad originali combinazioni
strumentali, fondendo linee melodiche
e tradizioni musicali di
origine ed orientamento diverso
e riuscendo spesso a produrre risultati
anche di ottimo livello.
Questa rinnovata modalità dell’incontro
plurisecolare tra Oriente
ed Occidente - di cui la nostrana
“Orchestra di Piazza Vittorio”
di Roma, un ensamble di oltre
trenta musicisti di tutto il mondo,
è uno degli esempi migliori - ha
però essenzialmente tratto ispirazione
da tradizioni musicali quali
quella indiana, giapponese o del
Vicino Oriente. A margine del fenomeno
sembra essere rimasta la
musica cinese, in virtù forse della
differente scala musicale e della
particolare timbrica di alcuni strumenti,
che non ha ancora trovato
un organico inserimento nella
‘fusion’ contemporanea. Fino
però allo scorso anno, quando,
per l’etichetta EMI Music, è stato
pubblicato, a Hong Kong, il disco
di Ian Widgery, musicista inglese
trasferitosi nella ex colonia britannica,
“The Original Shanghai
Divas Collection: Redefined”. L’album,
come recita il titolo, è un
‘remix’ - o, meglio, una
rivisitazione in chiave moderna -
di canzoni degli anni Trenta, rese
celebri dalle dive del tempo, quali
Bai Guang (1920-1999), Zhou
Xuan (1918-1957) e Bai Hong
(1919-1992), spesso non soltanto
stelle del canto ma anche del
cinema.
Anche se molti potranno
trovare discutibile la qualità dell’operazione
di Ian Widgery, essa
in fondo non rappresenta altro se
non la continuazione, agli inizi del
XXI secolo, di quella contaminazione
di generi e stili musicali già
presente nelle canzoni originali,
ove suggestioni derivanti dal
folklore e dall’opera regionale cinese
si uniscono al jazz, blues e
alla musica classica occidentale
producendo un risultato unico nel
suo genere. In queste canzoni, e
nella loro moderna rivisitazione,
è possibile dunque ravvisare l’essenza
stessa della città di
Shanghai e della cultura cosmopolita cui essa ha dato luogo sin
dalla metà circa dell’Ottocento,
quando, a seguito dei trattati che
concessero agli stranieri la possibilità
di insediarsi ed operare in
Cina, la cultura cinese e quella
occidentale cominciarono a fondersi
inestricabilmente formando
un irripetibile mélange che perdura
ancora ai giorni nostri. Oggi
Shanghai è una delle città più
grandi al mondo, in continua e
vertiginosa trasformazione: anche
se l’assetto urbano ed
architettonico tradizionale rischiano
di sparire, travolti dalle impellenti
necessità che premono su un
agglomerato urbano ove vivono
oltre 12.000.000 di persone, ciò
che non muta ed anzi si rinnova
è proprio il carattere, la natura
cosmopolita della città, esperimento
unico al mondo sotto il segno
della ‘contaminazione’, parola
chiave per comprendere
l’anima di Shanghai.
1. Il cosmopolitismo architettonico
di Shanghai
Una delle migliori definizioni coniate
per descrivere l’aspetto fisico
della città di Shanghai e la sua
fluida, in parte incontrollata
espansione, è quella di web fluide,
che si deve a Ma Qingyun.1
Sorta in una regione tra le più
fertili della Cina, percorsa da un
vero e proprio network di fiumi e
canali, e collocata tra il più grande
specchio d’acqua della regione,
il Lago Tai, ed il mare,
Shanghai ha fatta propria la natura
di questa regione, inglobandola
anche all’interno del tessuto
urbano, traversato da vie d’acqua
solcate da ponti, a ricordo
delle quali restano mappe degli
inizi del secolo XIX (Fig. 1) e la
toponomastica cittadina odierna.
Anche nella pianta la città cinese
tradizionale manifestava una
fluidità e una ‘permeabilità’ sconosciute
alla rigida simmetria e
geometrica articolazione dello
spazio urbano di centri come Pechino.
La cinta muraria aveva un
andamento grosso modo circolare
o ovaleggiante, riflettendosi in
esso una caratteristica di molte
città cinesi costiere, come quella
che si vede raffigurata su un paravento
in legno laccato
Coromandel degli inizi del Settecento
(Fig. 2). Esternamente a
questo perimetro urbano cominciarono
a sorgere, subito dopo la
firma del trattato di Nanchino, le
concessioni che segnarono l’inizio
del dominio coloniale straniero
sulla regione ma anche l’inizio
delle profonde trasformazioni che
avrebbero modellato alle radici la
città “sul mare”, Shanghai. La
prima concessione fu quella britannica,
nel 1846, e ad essa seguirono,
in rapida successione,
quella americana, fondata nel
1848 e la francese, costituita l’anno
successivo. Altri paesi si aggiunsero
alla lista - Germania,
Italia, Giappone - e alla fine del
secolo accanto alla città cinese era
sorta una seconda Shanghai, caratterizzata
da una serie di
énclave, spazi tra loro separati
ma connessi da un sistema viario
ad andamento regolare che conferiva
ai territori delle concessioni
un impianto quasi a scacchiera
(Fig. 3).
Lo stile architettonico
non poteva che essere eclettico,
riflettendosi in esso lo spirito nazionale
dei diversi paesi che qui
coabitavano: non sempre esteticamente
piacevole ma sicuramente
suggestivo, evocativo,
fascinoso, una serie di momenti
architettonici che, nel loro insieme,
hanno contribuito a creare
una immagine di Shanghai divenuta,
nell’immaginario collettivo,
una icona, il simbolo per eccellenza
della ‘contaminazione’ (Fig.
4). Ma si cadrebbe in errore se
da questo processo si escludesse
la partecipazione, l’apporto, il
contributo cinese, senza il quale
l’aspetto delle concessioni straniere
non avrebbe guadagnato
quell’esotismo che tanto le caratterizzava.
Cinesi non furono soltanto
coloro che edificarono materialmente
gli edifici in stile occidentale,
2 ma anche gli architetti
che, dagli inizi del Novecento,
cominciarono ad affiancare i colleghi
europei e americani nella
progettazione di importanti edifici
quali il Zhongguo Yinhang o
‘Bank of China’, sul Bund o
lungofiume, realizzato dallo Studio
Palmer & Turner insieme a Lu
Qianshou. Cinesi erano le insegne
e molti dei negozi che si aprivano
lungo le arterie commerciali
dei territori in concessione, quali
le vie Nanjinglu, Fuzhoulu e
Henanlu. La compenetrazione tra
le due città avvenne grazie alla
fluidità con cui la popolazione cinese
trasmigrava dall’una all’altra,
inizialmente per ragioni di
natura commerciale, poi anche
culturale (gli ‘intellettuali da caffè’,
kafeiguan wenren, erano
sconosciuti in altre parti della
Cina ma abbondavano a
Shanghai).
Una delle ‘invenzioni’
architettoniche che hanno resa
celebre Shanghai - e che, per
qualche verso, possono essere
accostate agli hutong di Pechino
- sono le cosiddette longtang o lilong,3 tipologie abitative sorte
all’interno delle concessioni (Fig.
5), caratterizzate da una
commistione di stili architettonici
cinese ed occidentale anche se in
pianta costituiscono, su scala
molto più ampia, una estensione
della ‘casa a cortile’ cinese con
influenze derivate da tipologie
architettoniche tradizionali
riscontrabili ancora oggi in villaggi
della Cina meridionale.4 Un
quadro completo dell’eclettismo
che è alla radice di Shanghai non
può però prescindere da ciò che
avveniva all’interno della città cinese.
5 Fiorente porto e centro di
attivi scambi commerciali sin dall’epoca
Ming (1368-1644),
Shanghai aveva da sempre attratto
ogni genere di professionisti del
commercio e tutte le attività che
intorno ad essi ruotavano, dalla
ristorazione alla prostituzione. La
città cinese vantava dunque un
eclettismo, anche architettonico,
parallelo a quello occidentale, ma
di natura totalmente autonoma.
Prova ne sono i grandi complessi
ove avevano sede le compagnie
commerciali, i cosiddetti huiguan
(Fig. 6), edificati anche all’interno
delle concessioni straniere e
caratterizzati esternamente da
impressionanti portali
monumentali in legno o mattoni,
riccamente decorati, che interrompevano
le lunghe mura imbiancate
delimitanti l’area ove
sorgeva il complesso. Una vera e
propria ‘follia’ architettonica era
invece costituita dalla Casa da Tè
edificata intorno al 1865 in prossimità
del celebre giardino Yuyuan:
collocata al centro di un laghetto
e raggiungibile mediante un
ponticello zigzagante si configurava
come un autentico caso di
esotismo, grazie alla combinazione
non ortodossa di svariati elementi
architettonici in parte ispirati
alla tradizione ma accostati
fuori da qualunque regola (Fig.
7).
2. Shanghai tra passato e presente
La velocità con cui Shanghai è
mutata in meno di un secolo,
giungendo a perdere molti dei
connotati tradizionali che ne hanno
caratterizzata la fisionomia
architettonica e l’assetto urbano,
può essere colta raffrontando vecchie
foto d’epoca con immagini
recenti della città. L’occasione è
stata offerta qualche mese addietro
da due mostre fotografiche
allestite in contemporanea presso
il Musée Carnavalet di Parigi
ed organizzate nell’ambito delle
manifestazioni de “L’anno della
Cina in Francia”.6 Le mostre erano
un contrappunto di anonimi
scatti della città presi negli anni
dal 1911 al 1949 e provenienti
dal Lishi Bowuguan o Museo della Storia di Shanghai, accostati
alle immagini realizzate tra gli
anni Novanta ed il 2002 da Marc
Riboud, grande fotografo che ha
trascorso molti anni della sua vita
in Cina documentando i cambiamenti
occorsi nel paese in oltre
cinquanta anni di storia.7 Oltre a
constatare la scomparsa di molti
dei vecchi edifici occidentali e cinesi,
che hanno lasciato il posto
a schiere di moderni e svettanti
edifici, le fotografie permettevano
anche di osservare una continuità
nel tempo tra luoghi dello
spazio urbano e momenti della
vita sociale di Shanghai. La celebre
Nanjinglu, ‘Via Nanchino’, era
ad esempio brulicante di attività
negli anni Venti e Trenta come lo
è oggi (Fig. 8), mentre la foto di
Riboud dell’attrice Gong Li poteva
essere paragonata all’anonimo
ritratto di Wang Renwei, diva
del cinema degli anni Trenta (Fig.
9). In questo gioco di
contrappunti, alcune delle immagini
che chiudevano la sezione
della mostra dedicata a Riboud
erano particolarmente significative:
quelle cioè nelle quali il fotografo
ha còlto alcuni scorci della
zona del Pudong, area-simbolo
della moderna Shanghai, sfumata
sullo sfondo, mentre in primo
piano un gabbiano plana sopra
le acque dello Huangpu o mentre,
sopra un ponte traversante il
Canale Suzhou, transitano alcuni
tricicli carichi fino all’inverosimile
(Fig. 10): un sapiente
accostamento tra la tradizione e
la modernità, tra la Shanghai di
un tempo e quella di oggi, proiettata
verso un futuro sempre più
ravvicinato, in un processo di crescita
e di espansione sempre più
compresso.
3. Lo sviluppo urbano negli
anni Novanta
L’area del Pudong (che, letteralmente,
significa “ad est del fiume
Pu” e sorge sul lato opposto del
fiume sul quale si affacciano ancora
gli edifici in stile occidentale
dominanti il Bund, Fig. 11) può
essere considerata come rappresentativa
dello sviluppo urbano
che ha caratterizzato la Shanghai
delle ultime decadi, soprattutto
negli anni Novanta. Si tratta di
una delle aree che furono
prescelte per il rilancio economico
ed industriale della città sulla
base di un piano stilato nell’oramai
lontano 1959, anche se non
fu prima del 1985 che tale piano
venne ultimato ed approvato dal
Consiglio di Stato, permettendo
così di poter passare alla sua realizzazione.
Attorno al nucleo di
Shanghai vennero così
evidenziate una serie di aree che
si configuravano come vere e proprie
cittadelle: tra esse Anting, città
dell’automobile, e Jiading, città
della scienza.8 Ma il passo più
importante fu sicuramente l’approvazione,
nel 1990, dello sviluppo
del distretto di Pudong, con
l’intento di realizzare un polo
commerciale tanto potente da
eguagliare Canton ed il delta del
Fiume delle Perle, altra zona chiave
per lo sviluppo industriale cinese
ed i rapporti con l’estero.
Purtroppo, la mancanza di una
progettazione architettonica che
seguisse linee guida ben delineate
è evidente nella eterogeneità
degli edifici che segnano lo
skyline del Pudong, sui quali svetta
la cosiddetta “Perla d’Oriente”, la
Torre della Televisione, completata
nel 1994 ed alta 450 metri.
Nella sua sconcertante bruttezza
rivela anche una sorta di sotterraneo
‘infantilismo’ che domina
il design di molta dell’architettura
cinese contemporanea, quella,
potremmo dire, che meno ha
recepito la parte fruttuosa dell’esperienza
di incontro con la tradizione
progettuale occidentale.
Guardando il Pudong si ha l’impressione
che la regola dominate
sia stata la concessione di spazi
sui quali edificare i singoli edifici,
senza che la preoccupazione per
una coerenza stilistica che fondesse
ed armonizzasse l’insieme fosse
emersa alla coscienza, pur
avendo di fronte, sulla sponda
opposta del fiume, l’esempio offerto
dalla sequenza di edifici in
stile occidentale che, seppur non
esteticamente eccelsi, offrono almeno
un esempio di continuità,
anche in senso fisico, quasi infatti
si trattasse di un’unica lunga
facciata prospiciente lo Huangpu.
Questa sensazione di eterogeneità
e di interventi architettonici
moderni che non hanno alcuna
relazione o rispetto per l’esistente
è quello che preoccupa maggiormente
quando si osservi il
quadro della odierna Shanghai
nella sua totalità. Certo, gli architetti
e gli urbanisti devono far
fronte, in tempi brevissimi e senza
una adeguata e maturata coscienza
architettonica alle spalle,9
ad un insieme di incombenti
problematiche: un inurbamento
che non accenna a diminuire, e
quindi la necessità di provvedere
nuovi alloggi per la popolazione
in crescita; una viabilità che permetta
al parco macchine in continuo
aumento di non provocare
i temibili ingorghi che hanno da
sempre afflitto la città (in questo
senso, la realizzazione di una serie
di sopraelevate è già in fase
molto avanzata, mentre alcuni
architetti progettano una strada
a scorrimento veloce proprio sul
Bund, magari sotterranea, sì da
ridurre l’impatto); un inquinamento
proporzionale al vertiginoso
sviluppo della città e, di conseguenza,
la realizzazione di aree
verdi in numero sufficiente da
garantire condizioni di vivibilità
per la popolazione. Si tratta insomma
di interventi su larga scala
che suscitano un vivace dibattito
e trasformano Shanghai in
una sorta di enorme laboratorio,
un ‘esperimento’ architettonico ed
urbanistico unico nel suo genere,
utile per evidenziare soluzioni
possibilmente esportabili in altri
grandi centri urbani della Cina
gravati dalle stesse
problematiche,10 e che consentono
anche ad architetti di altri paesi,
tra cui molti occidentali, di
intervenire con progetti propri.
4. Tra tradizione e modernità:
continuità stilistica in alcuni
moderni edifici
In questo senso, si spera che il
dialogo tra Oriente ed Occidente,
in cui Shanghai è maestra da
oltre un secolo, dia nuovamente i
suoi frutti. Tra le tante
problematiche che affliggono la
moderna Shanghai, città
poliedrica e multiforme, vi è anche
quella del restauro e
preservazione, nei limiti del possibile,
del patrimonio
monumentale ed architettonico
del passato. E accanto
all’eclettismo che ha caratterizzato
e caratterizza questa apparente
‘città senza regole’, programmata
tuttavia dall’alto per vincere la
gara della competizione economica
su scala mondiale, luogo
ove l’estro degli architetti ha lasciato
le impronte più diverse, si
cerca anche di stabilire una continuità
di forme, di dar corpo ad
una modernità che porti con sé
traccia e rispetto dell’antico.
Guardando ad alcuni edifici realizzati
in tempi recenti, è possibile
scorgere una continuità
stilistica, anche se, in questo caso,
l’apporto si deve ad architetti occidentali
che, provenienti da esperienze
di conservazione con radici
ben più salde dei loro colleghi
cinesi, hanno saputo integrare
aspetti della tradizione
architettonica locale con la funzionalità
degli edifici moderni,
senza per questo scadere nell’ovvio
o riproporre esotismi quali la
Casa da Tè sopra menzionata che
ancora sopravvive, ad uso e consumo
dei turisti, nel cuore della
‘vecchia’ Shanghai.
Il primo caso
che merita essere menzionato è
quello del ‘Jingmao Building’ (Fig.12), un grattacielo di 90 piani
progettato da architetti statunitensi
all’interno dell’area di
Pudong che, nel profilo, si richiama
alle pagode cinesi, quale la
celebre “Pagoda di ferro” di
Kaifeng (prov. Henan) edificata in
epoca Song (Fig. 13).11 L’altro
edificio, realizzato negli anni Novanta
e che presenta affinità
stilistiche con la tradizione
architettonica cinese, è il nuovo
teatro, edificato su disegno dell’architetto
francese Jean Marie
Carpentier dello studio Arte, vincitore
del concorso indetto nel
1994, che ha realizzato il progetto
in collaborazione con lo East
China Architectural Design
Institute (Fig. 14).12 Il profilo del
tetto, concavo, del teatro, con gli
angoli fortemente tendenti verso
l’alto, è una citazione dichiarata
degli edifici tradizionali cinesi che,
soprattutto nella Cina meridionale,
erano così caratterizzati: nella
stessa Shanghai un parallelo può
essere istituito con l’antico teatro
cinese che si conserva all’interno
dello Yu Yuan, uno degli spazi verdi
storici preservato nel cuore della
città cinese (Fig. 15). L’intero
teatro è tuttavia costruito seguendo
i princìpi dell’architettura cinese
classica, formato com’è da
un basamento e una struttura a
pilastri sulla quale poggia il tetto,
mentre le pareti non assolvono
funzione portante contribundo
invece all’estetica dell’edificio,
grazie al vasto impiego di vetrate
che rendono parzialmente visibile
l’interno della struttura. Si può
in sintesi affermare che queste
architetture costituiscono la prosecuzione
moderna di quella
fusion stilistica che tanto caratterizza
la fisionomia della Shanghai
storica.
Non lontano dal nuovo
teatro, nella Piazza del Popolo che
un tempo era l’ippodromo all’interno
della concessione inglese,
sorge un altro edificio di recente
costruzione che, data la sua funzione,
rappresenta più di altri il
simbolo per eccellenza che lega
l’antico al moderno: il Museo di
Shanghai, uno dei più importanti
della Cina per numero e qualità
dei reperti ivi conservati, con oltre
120.000 oggetti coprenti l’intero
arco cronologico di sviluppo
della civiltà cinese, dal Neolitico
fino al XX secolo (Fig. 16).13 Fondato
nel 1952, il Museo è stato
riaperto al pubblico il 12 ottobre
del 1996, in una nuova sede progettata
dall’architetto Xing
Tonghe che ha inteso rievocare,
nella forma data all’edificio, il
profilo di un antico bronzo rituale.
Per quanto dal punto di vista
dell’allestimento, dei laboratori di
restauro e conservazione, della
qualità degli oggetti esposti in visione,
il Museo sia da considerarsi
tra i migliori non solo della Cina
ma del mondo intero,
architettonicamente esso manifesta
una ingenuità di forme ed una
adesione, anche se inconsapevole,
alle architetture del ‘socialismo
reale’ che ha segnato l’opera di
molti architetti contemporanei cinesi.
L’esperienza urbanistica ed
architettonica della moderna
Shanghai, a causa delle continue
trasformazioni che la città sta vivendo,
allo stato attuale non può
essere certamente giudicata se
non in modo parziale: meglio seguire
i cambiamenti e, se possibile,
guidarli con suggerimenti che
aiutino questo luogo a rafforzare
la propria identità inter-culturale,
e non certo sulla scorta di una
mera, retorica nostalgia del passato.
Shanghai sa infatti
reinventarsi benissimo, soprattutto
sul piano culturale, e la vivacità
della società che la anima è
palpabile, la potenza creativa che
questa città ha saputo esercitare
non si è affatto spenta, anzi. Persino
una mostruosità
architettonica come l’area di
Pudong acquisisce un’aurea poetica
se fotografata da Marc Riboud
o se fa da sfondo all’anziano ballerino
di jazz che danza un’ultima
volta sul tetto di uno degli alti
edifici di Shanghai, nel bellissimo
film in bianco e nero, “Burning
Dreams”, del regista di origini
taiwanesi, Wayne Peng.14 Anche
in un luogo frenetico come
Shanghai c’è spazio per riflessioni
che portino alla creazione di
un ‘nuovo’ e ‘moderno’ che siano
decorosi e piacevoli, nel rispetto
degli abitanti che ci vivono e
di coloro che l’hanno abitata.
MONDO CINESE N. 119, APRILE-GIUGNO
2004