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Far East Film 6: il ritorno dei cinesi

di Corrado Neri

La sesta edizione del Far East Film Festival (FEF, dal 23 aprile al 1° Maggio) ha ospitato numerose personalità di spicco del cinema cinese, dopo l’assenza dell’anno scorso dovuta al timore della Sars. Così, non solo la sala del Teatro Nuovo Giovanni da Udine è stata quotidianamente gremita di pubblico per le numerose anteprime e retrospettive, ma anche le conferenze stampa hanno registrato ampia affluenza, dimostrandosi momenti preziosi di scambio. L’incontro più atteso è stato quello con il celebre regista Zhang Yuan, moderato da Marco Müller, neodirettore della Mostra di Venezia. Il FEF ha presentato ben tre pellicole del regista che ha diretto il primo film indipendente cinese e che ora lavora nell’ambito del circuito commerciale: I Love You (Wo ai ni, 2002), Green Tea (Lü cha, 2003), Jiang Jie (id., 2004). I primi due sono sofisticate commedie urbane che analizzano il rapporto di coppia nella nuova Cina moderna e chic, tra case da tè e appartamenti lussuosi, strade trafficate e grattacieli. Green Tea vede in particolare la collaborazione di tre icone della cultura pechinese contemporanea: Zhang Yuan stesso, il celebre attore e regista Jiang Wen e lo scrittore e sceneggiatore Wang Shuo. Jiang Jie è un remake dell’omonima opera rivoluzionaria girata nel 1978 da Huang Zimu e Fan Lai. Zhang recupera stilemi dei classici balletti filmati durante la rivoluzione culturale – a loro volta originali sintesi di forme della danza classica occidentale e del cinema del realismo sociale sovietico – creando una pellicola problematica, molto discussa, non ancora distribuita in Cina. 

Il regista, rispondendo alle numerose domande riguardo al senso di una tale operazione di parodia postmoderna (che ricorda il remake inquadratura per inquadratura di Psycho, di Gus Van Sant, 1998), ha parlato di ricordi personali legati alle opere modello nel tentativo di ricreare tale estetica. Zhang ha rievocato l’epoca perduta degli eroi comunisti, paragonando Jiang Jie, storica combattente che si sacrificò per la causa nel 1949, a Giovanna D’arco, in quanto entrambe furono mosse da fede incontaminata in un ideale. Müller ha invece parlato di Jiang Jie come di un film che si interroga sui meccanismi della rappresentazione per svelarne la retorica. Ha in tal modo riproposto il discorso problematico sulla presupposta “dissidenza” di Zhang Yuan, che le recenti produzioni commerciali sembrerebbero mettere in dubbio. A dimostrazione dell’estrema fluidità del panorama cinese contemporaneo, Udine ha ospitato la regista della quinta generazione Li Shaohong e la sua attrice Zhou Xun, che hanno presentato Baober in Love (Lian’ai zhong de Baobei, 2004). L’autrice abbandona il realismo dei suoi film precedenti per un’opera ricca di costosi effetti speciali digitali, ambientata nella Pechino contemporanea, di cui viene colto il mutamento frenetico. Il film descrive il mondo visto attraverso gli occhi fantasiosi della giovane protagonista, un universo frastornante e colorato. In filigrana si possono leggere le preoccupazioni di una generazione che vive un’epoca di transizione in cui i valori del partito, così come quelli della tradizione morale confuciana, hanno lasciato il posto a una società spietata e alienante, dove il materialismo e la liberalizzazione economica hanno portato a una vertigine costante, allo smarrimento di qualsivoglia punto di riferimento. 

Anche The Coldest Day (Dongzhi, 2004), docudrama dell’esordiente Xie Dong (assistente alla regia di Zhang Yimou per sette anni) analizza i meccanismi sentimentali delle coppie moderne. Il regista padroneggia uno stile sorvegliato, estetizzante che vira tutti i colori al grigio metallico, al bianco e nero, costruendo inquadrature poetiche che si alternano con ritmo lento. La sua sinfonia invernale è basata su un quadrilatero amoroso che, ancora una volta, mette in scena la rampante nuova classe di quadri dirigenti, avvocati e artisti i quali, nonostante il benessere materiale, paiono aver perduto valori e passioni; le coppie di sfaldano, si tradiscono, si ricostituiscono trovando sofferti compromessi che ben esprimono il disorientamento della società contemporanea. Da notare come questi film, nella messa in scena dell’adulterio - argomento tabù sino a qualche anno fa - comincino anche a mostrare sequenze esplicite di sesso, che solleticano la curiosità dello spettatore cinese. La crisi della coppia diventa forma simbolica per eccellenza di un’individualità che deve re-inventarsi in una società orientata a un liberalismo sempre più competitivo. Non mancano, di conseguenza, pellicole che denunciano la crisi di valori della modernità evocando un’immagine elegiaca delle campagne e della vita rurale, riscuotendo in patria un buon successo presso il pubblico delle grandi metropoli. 

Nuan (id., Huo Jianqi, 2003), vincitore del premio come miglior film del XVII Golden Rooster and Hundred Flowers Film Festival, racconta la storia di un uomo che, dopo aver fatto fortuna in città diventando quadro dirigente, ritorna al paese natale dove incontra la sua vecchia fiamma, Nuan, che ora conduce una vita di stenti. Con una serie di flashback il regista rievoca la giovinezza dei due, ambientata in una campagna idilliaca, filmata con eleganza e stupore nostalgico per un passato di purezza di sentimenti, innocenza delle passioni. L’allegoria del film, già chiara, diviene palese nella conclusione, quando l’uomo riparte promettendo alla figlia di Nuan di portarla in città a studiare, una volta cresciuta: il divario tra zone urbane e zone rurali è ancora fortissimo, ma con lo sforzo comune sarà possibile realizzare il sogno di progresso per entrambi. Commedia altrettanto allineata è Cell Phone (Shouji, 2004), nuovo successo di cassetta del celebre regista Feng Xiaogang. Le contraddizioni della contemporaneità sono messe in scena con stile fresco e dialoghi brillanti: i nuovi ricchi di Pechino, tra ristoranti occidentali, riunioni d’ufficio e vernissage, sono ossessionati da rapporti sentimentali che non riescono a gestire. Feng dà un ritratto impietoso delle élite contemporanee, denunciandone il vuoto di valori e il cinismo. Questo universo rappresenta pur sempre, per lo spettatore medio, uno specchio del desiderio poiché è elegante, lussuoso, permissivo. Esso viene retoricamente contrapposto all’innocenza della vita rurale, dipinta come luogo perduto di moralità e veracità dei sentimenti. 

La selezione dedicata a Hong Kong è stata altrettanto ricca. All’onore Johnny To e Wai Ka Fai, autori di due film tra i più interessanti della stagione: Running on Karma (Da ji lao, 2003) e Turn Left, Turn Right (Xiang zuo zou, xiang you zou, 2003). Il primo è un action movie in cui il celebre Andy Lau indossa un costume di lattice che lo rende una sorta di culturista ipervitaminizzato. La pellicola mescola i generi: parte con una tradizionale indagine poliziesca, diventa un film fantastico grazie alla capacità del protagonista di vedere le vite precedenti degli altri e si conclude con un’allegoria della metempsicosi. Anche il ritmo cambia di conseguenza, quando innesta sui meccanismi del film di genere un’originale meditazione sul valore della compassione proprio alla tradizione buddista. Turn Left, Turn Right è una commedia alla Kieslowsky sugli intrecci del destino. Ambientato a Taipei, interpretato da Takeshi Kaneshiro e Gigi Leung, tratto dal romanzo illustrato del celebre auto- re taiwanese Jimmy Liao, la pellicola racconta la toccante storia di due giovani innamorati che non riescono a incontrarsi, pur essendo sempre vicini. Il ritmo è fresco e il film risulta particolarmente riuscito soprattutto grazie alla fluidità con cui i registi costruiscono il dispositivo degli incontri mancati, che rimanda a una riflessione sul destino e la possibilità di cambiarlo. La pellicola è stata accolta con grande favore dal pubblico locale e mostra come il mercato si stia muovendo verso la collaborazione artistica tra le diverse realtà cinesi. 

Sempre più spesso i confini tra gli universi filmici si fanno permeabili; lo scambio avviene non solo a livello di produzione, ma anche nella frequente presenza di attori cinesi in film hongkonghesi e viceversa. Ciò porta a un plurilinguismo che stratifica i film e rende conto dell’intensità non solo conflittuale dei rapporti tra le tre Cine. Il panorama dedicato all’excolonia britannica constata una ripresa della produzione, grazie anche alla possibilità - ancora da negoziare caso per caso - di accedere al mercato della madrepatria. Si moltiplicano i compromessi per non risultare invisi al governo centrale, ma il cinema di Hong Kong resta nondimeno fortemente popolare e legato ai generi: la saga di Infernal Affairs (Wu jian dao), di cui vengono presentati il secondo e il terzo capitolo (entrambi diretti da Andrew Lau e Alan Mak nel 2003), ha dato nuova linfa al poliziesco, grazie alla cura della regia, alla sceneggiatura stratificata, alla notorietà degli attori e all’atmosfera cupa e solenne. The Color of the Truth (Heibai senlin, 2003), diretto dal veterano Wong Jing in collaborazione con Marco Mak, è un classico film d’azione ad alto budget con sparatorie spettacolari, una buona direzione d’attori e una trama complicata fitta di colpi di scena; così pure il più giovanile Heroic Duo (Shuang xiong, 2003). La commedia è stata rappresentata dall’esordio alla regia di Barbara Wong che, con Truth or Dare: 6th Floor Rear Flat (Liulou hou zuo, 2003), delinea un sentito ritratto delle aspirazioni della gioventù, in un film pieno di ritmo e interpretazioni memorabili.

 Dragon Loaded (Long gan wei, Vincent Kuk, 2003) e Men Suddenly in Black (Da zhangfu, Pang Ho Cheung, 2003) sono inscrivibili nella tradizione più scatenata ed eccessiva della commedia demenziale. Lost In Time (Wang bu liao, 2003, Derek Lee), che tratta della difficoltà di rifarsi una vita dopo aver portato il lutto, rappresenta il melodramma in una sua variante crepuscolare. È da segnalare, infine, la retrospettiva dedicata allo storico regi- sta hongkonghese Chor Yuan (n. 1934). Il prolifico cineasta è autore di più di 120 film, che spaziano in tutti i generi. In particolare, Chor Yuan è ricordato come uno dei più grandi registi del cinema cantonese degli anni Sessanta e Settanta. Tra le opere presentate a Udine (11 in tutto) si ricordano The Black Rose (Hei meigui, 1965), che diede vita alla moda dei film d’azione con protagoniste giovani fanciulle in maschera (qui ladre alla Robin Hood); The House of 72 Tenants (Qishier jiatingke, 1973), una delle pietre miliari della commedia cantonese nonché una delle prime incursioni di volti noti della televisione sul grande schermo; Killer Clans (Liuxing hudie jian, 1976), celebre wuxia che lanciò la moda dei film tratti dai romanzi dello scrittore Gu Long; Intimate Confessions of a Chinese Courtesan (Ai nü, 1972), capostipite del film d’azione in costume porno soft che fece la gloria del cinema popolare hongkonghese. Il FEF si conferma nuovamente come il più importante festival di cinema asiatico in Europa, coniugando uno sguardo sul mercato attuale alla riscoperta di classici del passato.

 

MONDO CINESE N. 119, APRILE-GIUGNO 2004

 

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