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CULTURA E SOCIETÀ

Dove vanno gli studenti cinesi?

di Alessandra C. Lavagnino

Uno dei risultati, poco appariscente forse, ma non meno importante, della visita del Premier Wen Jiabao in Italia lo scorso maggio è stato l’avere per la prima volta fatto conoscere, anche attraverso la grande stampa italiana, quanto poco sia presente il nostro Paese nel panorama accademico e culturale cinese, e quanto poco numerosi siano attualmente gli studenti e studiosi cinesi che vengono a studiare e a perfezionarsi nei nostri Istituti e Università. Le cifre sono chiarissime: a fronte dei 60 mila studenti cinesi nelle università inglesi, 50mila in quelle tedesche e 40mila in quelle francesi, sono solo 600 quelli che studiano nel nostro Paese (12mila in Portogallo!) 1 ... E se questo ha provocato il dispiaciuto stupore dei nostri leader politici e istituzionali, il conseguente, lodevole tentativo da parte dei nostri organismi governativi di correre ai ripari è stato, almeno in questo caso, rapidissimo: presso il nostro Ministero degli affari esteri è stato immediatamente attivato un Ufficio di coordinamento, resosi immediatamente operativo. 

Non si può tuttavia non sottolineare il fatto che tale situazione non è nata dal nulla: se infatti ha, da un lato, radice nel controverso percorso storico della Cina di questi ultimi trent’anni, è d’altro canto anche frutto di una mancanza di attenzione nei confronti della Cina da parte del nostro paese. Mancanza di attenzione che ha riguardato (o meglio NON ha riguardato) non solo il potenziamento degli studi della nostra lingua e cultura in Cina, ma anche la costruzione di una organizzata recettività nel nostro paese per favorire il percorso formativo di studenti e studiosi cinesi, veicoli privilegiati per un futuro sapere condiviso, future proficue alleanze, e parte attiva per il consolidamento, in Cina, dell’immagine del nostro Paese. Se mi permetto di tornare nuovamente su un simile argomento2 , è perché lo sento a me particolarmente vicino, non solo in quanto docente di Lingua e di Cultura cinese presso l’Università degli studi di Milano, ma proprio perché avendo io iniziato la mia carriera in Cina proprio come Lettore di scambio del MAE, ho avuto modo di seguire in questi anni anche il controverso “sviluppo” dell’italianistica cinese. 

Ricordo infatti che al mio primo arrivo a Shanghai, nei primi anni’703 , era la sezione di Albanese ad essere, nel Dipartimento di lingue dell’Europa centro- meridionale dell’Istituto universitario di lingue straniere, la prima per numero di studenti e professori. E questa non era una scelta casuale, in un paese allora rigidamente pianificato anche nei progetti di sviluppo di studi e ricerche. L’Istituto dove allora io ero stata chiamata ad inaugurare il Lettorato di scambio e mettere in piedi la prima generazione di “italianisti”4 era, insieme all’omologo di Pechino, il più importante del Paese, e quindi il privilegiare nel Dipartimento lo studio dell’albanese rispetto ad altre lingue, come lo spagnolo e men che meno l’italiano, scaturiva direttamente dalle scelte politiche “rivoluzionarie” di quegli anni. In queste istituzioni superiori, lo studio delle lingue straniere veniva affrontato in maniera sistematica e organizzata, (corsi triennali di lingua strutturati semestralmente con una media di circa 18– 20 ore settimanali di lingua, 12 o 14 delle quali con l’esperto straniero, completamente in lingua) e con intenti pedagogici precisi: si mirava cioè, attraverso una didattica centrata soprattutto sull’apprendimento della lingua parlata attuale, a costruire figure di traduttori e interpreti secondo le necessità pianificate della diplomazia (Ministero degli Esteri e rappresentanze estere di Istituzioni ufficiali), della propaganda politica (case editrici, radio e tv, tutto rigorosamente statale), della costruzione economica (Ministero del commercio estero). La conoscenza della lingua veniva perseguita quindi con una chiara connotazione “strumentale”, non per conoscere e avvicinarsi ad altre culture e altri paesi, che venivano invece costantemente e genericamente bollati come forze reazionarie, nemici ecc., ma esclusivamente come strumento per la propria propaganda politica. Della “cultura” del paese di cui si studiava la lingua nulla si doveva sapere, soprattutto perché, a parte l’Albania, tutti erano visti come pericolosi avversari, “erbe velenose”, nemici della rivoluzione mondiale: ricordo che il libro di testo sul quale, al mio arrivo a Shanghai, gli studenti di lingua italiana studiavano5 iniziava con una lezione in italiano sulla geografia dell’Albania … 

E quindi le lezioni, per tutte le lingue, vertevano quasi esclusivamente sulla Cina, sulle Comuni popolari, sui Comitati rivoluzionari, sulle Squadre di propaganda del pensiero del presidente Mao, sulla classe operaia che deve dirigere tutto, mai dimenticare la lotta di classe, ecc. I testi erano una sorta di breviario per essere un buon comunista tradotto in tutti gli idiomi del mondo, con piccole varianti a seconda delle singole lingue. E ancor più, nulla dei capolavori del passato delle diverse letterature si poteva neppure menzionare, tutto era proibito perché espressione della civiltà feudale o della borghesia oppressiva. E gli studenti diventavano così delle curiose macchinette che ripetevano, a volte con impeccabile pronuncia, in una lingua straniera, inglese, francese o italiano che fosse, le stesse frasi fatte. Tralascio la situazione dei vecchi professori, accademici spesso notissimi all’estero, e allora confinati in imbarazzanti silenzi, in sorrisi di circostanza, dopo i durissimi anni della rieducazione in campagna… Era questa la situazione fino a circa 20 anni fa, quando il nuovo corso postmaoista inaugurato da Deng Xiaoping nel 1978 decide finalmente di aprirsi al mondo. E in questi anni - come sappiamo - la Cina ha davvero bruciato le tappe sia nel recupero del proprio passato, ritrovando radici che sembravano strappate per sempre, sia in una nuova, e finalmente diretta conoscenza dell’altro. Per la prima volta infatti, pur con le difficoltà e le farragini che il sistema comporta, sta avvenendo un incontro con l’Occidente non più filtrato attraverso i colori cupi e tragici del dominio coloniale, o dai grossolani preconcetti della propaganda politica di stampo sovietico. 

E infatti in questi anni è a dire poco scoppiata, oltre ad una ripresa nettissima degli studi accademici in tutti i campi, una vera e propria “febbre” - come la definiscono i cinesi - per l’Occidente, che ha visto all’inizio picchi di interesse e di innamoramento acritico, con migliaia di giovani che sognavano di andare a studiare all’estero, ovviamente in coincidenza con graduali e limitate aperture pilotate dalla dirigenza politica. Avevano poi fatto seguito momenti di chiusura durante il movimento, lanciato dal partito per combattere l’ ‘inquinamento spirituale’ negli anni ‘85 ‘86, fino ai pesanti contraccolpi culminati nella tragedia di Tian’anmen nell’ ‘89. Allora, dei 300mila che erano all’estero, ben pochi pensarono a tornare a casa 6 . Ma il successivo e più autentico, ormai incontenibile boom è iniziato con i primi anni ‘90, e ancora una volta in seguito a una indicazione politica. Nel 92’ il vecchio Deng dice “Arricchirsi è glorioso”, durante il suo celebrato viaggio al Sud, nella cittadina allora povera e scalcinata di Shenzhen, che oggi è diventata una sconcertante megalopoli di grattacieli e fast food, e finalmente, grazie ad un’altra geniale invenzione di Deng Xiaoping, lo spregiudicato ossimoro “economia socialista di mercato”, ecco che l’Occidente capitalista e sviluppato diviene per molti versi il nuovo modello esemplare da seguire, fonte di continui stimoli, di ardite competizioni, di confronti e di sfide. Ecco allora finalmente mettersi in atto un complesso e spericolato processo di avvicinamento all’altro nel quale la Cina si avvia con tutta l’imponenza e la serietà che la propria plurimillenaria tradizione richiede. 

Però tutto questo sembra che, purtroppo, riguardi poco o nulla il nostro Paese, almeno per quello che concerne il diffondersi dello studio della nostra lingua e della nostra cultura nella Cina di oggi. In questi anni sono, è vero, fortunatamente cambiate in Cina le metodologie di studio, la scelta dei testi, i contenuti e le modalità della didattica della nostra lingua, e finalmente anche della nostra letteratura e cultura, ma purtroppo gli studi sul nostro paese rimangono ancora limitati soltanto a pochissime sedi universitarie (a Pechino e Shanghai si è finalmente aggiunta anche Xi’an), senza avere ancora visto quella fioritura che sicuramente potrebbero avere7 . E questo non certo perché il nostro paese non possa rappresentare, nell’immaginario cinese, un punto di riferimento ideale e proponibile; al contrario, nella Cina di oggi, l’Italia è comunque il paese dell’arte, della musica, dell’eleganza, del cinema…. E quindi anche istituti come Conservatori, Accademie, Scuole di cinema dovrebbero e potrebbero essere coinvolti in nuovi progetti di studio a breve e medio termine. Però i giovani cinesi, quelli che formeranno l’élite del futuro, non è certo in Italia che vengono a studiare, a formarsi, a costruirsi quei legami, quelle guanxi internazionali che diventano sempre più importanti nella complessa scena dei mercati senza barriere. Mercati e paesi nei quali peraltro i nuovi imprenditori cinesi si muovono ormai agevolmente, dove vogliono avere accesso privilegiato, sia come produttori sia come nuovi consumatori, ma dove soprattutto vogliono che i loro figli (i figli dei famosi 50 milioni di ricchi, dei quali la stampa internazionale tanto favoleggia, che comprano Ferrari e Max Mara, Gucci e Armani) possano recarsi a studiare: non più le obbligatorie “lezioni a porte aperte” nelle poverissime Comuni popolari di Mao degli anni ‘70, ma College di lusso, Master prestigiosi e soggiorni di studio nelle Scuole più importanti del mondo. 

In questi ultimi anni, infatti, è cambiata radicalmente la tipologia del giovane studente cinese che va all’estero: alla schiera degli “intelligentissimi” che, su autorizzazione del governo cinese, razziavano borse di studio in tutte le università anglofone, tedesche e francesi, abbiamo di recente visto sostituirsi giovani e meno giovani, spesso già laureati di I livello, muoversi a caccia di Master anche costosissimi, ovunque. E mentre fino a qualche anno fa erano soprattutto gli Stati Uniti la meta favorita per corsi lunghi e brevi, le pesanti restrizioni all’accoglienza degli stranieri intervenute dopo l’11 settembre hanno fatto registrare un pesantissimo calo anche nelle presenze cinesi. Ecco quindi che sono ora le principali sedi universitarie europee a registrare il tutto esaurito: e inoltre, in paesi come Francia e Germania, già tradizionali paesi erogatori di Borse di studio e sovvenzioni, sono di recente fioriti anche appetitosi corsi di specializzazione (a volte con finanziamenti UE) per le materie più disparate, e con relativi stage di lavoro, corsi per i quali gli applicanti cinesi sono disposti a pagare profumatissime cifre, pur di avere nel proprio curriculum un qualunque soggiorno di studio all’estero, vidimato da una qualsivoglia certificazione straniera. In Italia però i ragazzi cinesi non vengono innanzitutto perché l’italiano, anche se è una lingua che in Cina viene riconosciuta come la più bella e armoniosa è, come si detto, una lingua per pochissimi! E per accedere alle università italiane bisogna avere prima superato un esame di lingua italiana! Ma soprattutto non sembra si riescano a superare, almeno per ora, tutta una serie di barriere e difficoltà normative poste dal nostro paese. Oggi infatti è impossibile per un ragazzo cinese, anche se danaroso, provare a intraprendere un percorso analogo a quello che, invece, ormai da almeno 30 anni saggiamente i cinesi hanno costruito per gli stranieri che vogliano studiare il cinese in Cina: efficienti le procedure per la concessione dei visti di studio (con relativo tesserino studentesco), corsi versatili di breve, medio, lungo termine, anche per principianti, con certificazioni di livello rilasciate in seguito a Test uniformati da una Commissione Nazionale8 e, soprattutto, una diversificata offerta didattica pressoché in tutte le grandi università della Cina. 

Il tutto ampiamente pubblicizzato, anche in inglese, su siti internet aggiornatissimi, e negli Uffici addetti all’Istruzione che fanno parte delle sedi diplomatiche cinesi all’estero (strutture che peraltro non esistono nelle nostre sedi diplomatiche in Cina). Secondo i dati che ha fornito la signora Li Guilin, Vice Direttore del Centro Servizi per gli scambi accademici del Ministero dell’Istruzione cinese, in occasione del Seminario “Study in China”, tenutosi a Roma il 7 novembre 2003, dal 1971 sono stati 531mila gli studenti stranieri che hanno studiato in Cina. Nel 2002, sono stati 85.829, provenienti da 175 paesi, dislocati in 320 università del territorio cinese9 . Un ragazzo cinese che vuole venire a studiare in Italia, invece, deve produrre una tale quantità di documenti, certificati, equipollenze, garanzie, da scoraggiare anche l’italianista più volenteroso. Per chi non ha una buona conoscenza della nostra lingua, poi, la situazione è ancora più difficoltosa: non sono certo numerosi gli Atenei italiani che forniscano esaurienti presentazioni anche in inglese, neppure per i corsi di perfezionamento e Master, che potrebbero invece costituire interessanti proposte per un soggiorno di studio in Italia più limitato nel tempo. Si tratta allora da parte di ogni singolo Ateneo di valorizzare fin d’ora quello che vuole ed è in grado di offrire, mentre bisogna in tempi brevi elaborare una strategia di medio e lungo periodo che sia in grado di coinvolgere e mettere in luce le specificità dei diversi percorsi formativi delle Sedi interessate. Vanno a tale proposito fornite tempestivamente documentazioni aggiornate, possibilmente anche in inglese, soprattutto riguardo alle procedure per le certificazioni e il riconoscimento dei corsi, che proprio di recente hanno subito significative semplificazioni, ma che purtroppo rimangono ancora completamente ignorate dai potenziali studenti cinesi. D’altro canto è indispensabile anche una efficiente collaborazione fra gli organismi competenti per il rilascio dei visti di ingresso per motivi di studio, ed una velocizzazione nella concessione delle autorizzazioni che contribuirà sicuramente ad un rapido miglioramento anche nell’immagine che della nostra burocrazia hanno i cittadini cinesi.

 

MONDO CINESE N. 119, APRILE-GIUGNO 2004

Note

1 Cfr. Federico Rampini, “La Cina alla scoperta dell’Italia, si apre il capitolo degli investimenti”, in La Repubblica, 7 maggio 2004, p. 15.
2 Altrettanto importante e, per certi versi, altrettanto dimenticato, è il tema della formazione e soprattutto dell’utilizzo sistematico nel nostro paese di specialisti italiani di provate competenze sinologiche. Cfr. il mio recente “Sinologi d’Italia”, in Aspenia 20, 2004, pp. 155- 164.
3 In base agli accordi culturali tra Italia e Cina, due erano i posti di lettore di scambio per la lingua italiana (a Pechino e Shanghai) e cinque quelli per i lettori cinesi di scambio nelle università italiane. Il mio primo soggiorno a Shanghai, in qualità di Lettore di Scambio del Ministero degli affari esteri presso L’Istituto universitario di Lingue straniere, data dal febbraio 1974 al luglio 1975.
4 Gli studenti venivano allora identificati mediante un curioso, lunghissimo neologismo, gongnongbing xueyuan “studenti operai-contadini-soldati” perchè erano stati selezionati in maniera “rivoluzionaria”, cioè non attraverso un esame, ma esclusivamente secondo le direttive politiche dei Comitati rivoluzionari locali, tra esponenti delle tre classi fondamentali per il successo della rivoluzione comunista, e venivano “assegnati” d’ufficio allo studio di una lingua straniera, senza alcuna possibilità di scelta individuale.
5 Essendo stati criticati, quando non letteralmente bruciati, i libri di testo pubblicati all’estero, compresi gli eccellenti materiali curati dai linguisti sovietici, ed essendo ritenuti reazionari dal Gruppo di Propaganda del Pensiero di Mao Zedong (garante supremo della correttezza ideologica dei contenuti della didattica) tutti i testi precedenti alla Rivoluzione culturale, le lezioni venivano preparate su materiale redatto ad hoc in Istituto, mediante artigianali dispense, che potevano essere ciclostilate solo dopo l’Imprimatur della Propaganda.
6 E’ il dato che John Pomfret riferisce da Pechino, in “China Reaps Brain Grain”, International Herald Tribune, 17.10.2001, mentre Cui Ning parlava, qualche anno prima, di 320 mila studenti e studiosi recatisi in 103 paesi a partire dal 1978, di cui circa un terzo avrebbe fatto ritorno in patria negli ultimi anni. Cfr. Cui Ning “More scholars return from abroad”, China Daily, 4.02.1999.
7 Si vedano ad esempio i contributi forniti in questi anni dai traduttori e italianisti cinesi, raccolti nei repertori bibliografici curati dall’Ambasciata d’Italia a Pechino, Bibliografia delle opere italiane tradotte in cinese (1911-1992), Pechino 1992, e Bibliografia delle opere italiane tradotte in cinese (1911-1999), Pechino 1999.
8 Lo Hanyu shuiping kaoshi (Chinese Proficiency Test), è approvato dal Ministero dell’Istruzione cinese e si tiene annualmente anche in Italia, a Milano, dal 1994 e ora anche a Venezia e Roma.
9 Gli italiani sono stati 492, mentre gli studenti e studiosi in Italia quell’anno sono stati 600. In occasione del citato seminario una delegazione di venti Università cinesi ha compiuto una visita autopromozionale nei principali atenei italiani.

 

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