Uno dei risultati, poco appariscente
forse, ma non
meno importante, della
visita del Premier Wen Jiabao in
Italia lo scorso maggio è stato
l’avere per la prima volta fatto
conoscere, anche attraverso la
grande stampa italiana, quanto
poco sia presente il nostro Paese
nel panorama accademico e culturale
cinese, e quanto poco numerosi
siano attualmente gli studenti
e studiosi cinesi che vengono
a studiare e a perfezionarsi nei
nostri Istituti e Università. Le cifre
sono chiarissime: a fronte dei 60
mila studenti cinesi nelle università
inglesi, 50mila in quelle tedesche
e 40mila in quelle francesi,
sono solo 600 quelli che studiano
nel nostro Paese (12mila in
Portogallo!) 1 ...
E se questo ha provocato il dispiaciuto
stupore dei nostri leader
politici e istituzionali, il conseguente,
lodevole tentativo da
parte dei nostri organismi governativi
di correre ai ripari è stato,
almeno in questo caso, rapidissimo:
presso il nostro Ministero degli
affari esteri è stato immediatamente
attivato un Ufficio di coordinamento,
resosi immediatamente
operativo.
Non si può tuttavia non sottolineare
il fatto che tale situazione
non è nata dal nulla: se infatti
ha, da un lato, radice nel controverso
percorso storico della Cina
di questi ultimi trent’anni, è d’altro
canto anche frutto di una
mancanza di attenzione nei confronti
della Cina da parte del nostro
paese. Mancanza di attenzione
che ha riguardato (o meglio
NON ha riguardato) non solo il
potenziamento degli studi della
nostra lingua e cultura in Cina,
ma anche la costruzione di una
organizzata recettività nel nostro
paese per favorire il percorso
formativo di studenti e studiosi
cinesi, veicoli privilegiati per un
futuro sapere condiviso, future
proficue alleanze, e parte attiva
per il consolidamento, in Cina,
dell’immagine del nostro Paese.
Se mi permetto di tornare nuovamente
su un simile argomento2 , è
perché lo sento a me particolarmente
vicino, non solo in quanto
docente di Lingua e di Cultura cinese
presso l’Università degli studi
di Milano, ma proprio perché
avendo io iniziato la mia carriera
in Cina proprio come Lettore di
scambio del MAE, ho avuto modo
di seguire in questi anni anche il
controverso “sviluppo”
dell’italianistica cinese.
Ricordo infatti che al mio primo
arrivo a Shanghai, nei primi
anni’703 , era la sezione di
Albanese ad essere, nel Dipartimento
di lingue dell’Europa centro-
meridionale dell’Istituto universitario
di lingue straniere, la
prima per numero di studenti e
professori. E questa non era una
scelta casuale, in un paese allora
rigidamente pianificato anche nei
progetti di sviluppo di studi e ricerche.
L’Istituto dove allora io ero
stata chiamata ad inaugurare il
Lettorato di scambio e mettere in
piedi la prima generazione di
“italianisti”4 era, insieme all’omologo
di Pechino, il più importante
del Paese, e quindi il privilegiare
nel Dipartimento lo studio
dell’albanese rispetto ad altre lingue,
come lo spagnolo e men che
meno l’italiano, scaturiva direttamente
dalle scelte politiche “rivoluzionarie”
di quegli anni.
In queste istituzioni superiori, lo
studio delle lingue straniere veniva
affrontato in maniera sistematica
e organizzata, (corsi triennali
di lingua strutturati semestralmente
con una media di circa 18–
20 ore settimanali di lingua, 12 o
14 delle quali con l’esperto straniero,
completamente in lingua)
e con intenti pedagogici precisi:
si mirava cioè, attraverso una didattica
centrata soprattutto sull’apprendimento
della lingua parlata
attuale, a costruire figure di
traduttori e interpreti secondo le
necessità pianificate della diplomazia
(Ministero degli Esteri e
rappresentanze estere di Istituzioni
ufficiali), della propaganda
politica (case editrici, radio e tv,
tutto rigorosamente statale), della
costruzione economica (Ministero
del commercio estero). La
conoscenza della lingua veniva
perseguita quindi con una chiara
connotazione “strumentale”, non
per conoscere e avvicinarsi ad altre
culture e altri paesi, che venivano
invece costantemente e genericamente
bollati come forze
reazionarie, nemici ecc., ma
esclusivamente come strumento
per la propria propaganda politica.
Della “cultura” del paese di
cui si studiava la lingua nulla si
doveva sapere, soprattutto perché,
a parte l’Albania, tutti erano visti
come pericolosi avversari, “erbe
velenose”, nemici della rivoluzione
mondiale: ricordo che il libro
di testo sul quale, al mio arrivo a
Shanghai, gli studenti di lingua
italiana studiavano5 iniziava con
una lezione in italiano sulla geografia
dell’Albania …
E quindi le lezioni, per tutte le lingue, vertevano quasi esclusivamente
sulla Cina, sulle Comuni
popolari, sui Comitati rivoluzionari,
sulle Squadre di propaganda
del pensiero del presidente
Mao, sulla classe operaia che
deve dirigere tutto, mai dimenticare
la lotta di classe, ecc. I testi
erano una sorta di breviario per
essere un buon comunista tradotto
in tutti gli idiomi del mondo,
con piccole varianti a seconda
delle singole lingue. E ancor più,
nulla dei capolavori del passato
delle diverse letterature si poteva
neppure menzionare, tutto era
proibito perché espressione della
civiltà feudale o della borghesia
oppressiva. E gli studenti diventavano
così delle curiose macchinette
che ripetevano, a volte con
impeccabile pronuncia, in una lingua
straniera, inglese, francese o
italiano che fosse, le stesse frasi
fatte. Tralascio la situazione dei
vecchi professori, accademici spesso
notissimi all’estero, e allora
confinati in imbarazzanti silenzi,
in sorrisi di circostanza, dopo i
durissimi anni della rieducazione
in campagna…
Era questa la situazione fino a circa
20 anni fa, quando il nuovo
corso postmaoista inaugurato da
Deng Xiaoping nel 1978 decide
finalmente di aprirsi al mondo. E
in questi anni - come sappiamo -
la Cina ha davvero bruciato le
tappe sia nel recupero del proprio
passato, ritrovando radici che
sembravano strappate per sempre,
sia in una nuova, e finalmente
diretta conoscenza dell’altro.
Per la prima volta infatti, pur con
le difficoltà e le farragini che il
sistema comporta, sta avvenendo
un incontro con l’Occidente non
più filtrato attraverso i colori cupi
e tragici del dominio coloniale, o
dai grossolani preconcetti della
propaganda politica di stampo
sovietico.
E infatti in questi anni è a dire
poco scoppiata, oltre ad una ripresa
nettissima degli studi accademici
in tutti i campi, una vera e
propria “febbre” - come la definiscono
i cinesi - per l’Occidente,
che ha visto all’inizio picchi di interesse
e di innamoramento acritico,
con migliaia di giovani che
sognavano di andare a studiare
all’estero, ovviamente in coincidenza
con graduali e limitate
aperture pilotate dalla dirigenza
politica. Avevano poi fatto seguito
momenti di chiusura durante il
movimento, lanciato dal partito
per combattere l’ ‘inquinamento
spirituale’ negli anni ‘85 ‘86, fino
ai pesanti contraccolpi culminati
nella tragedia di Tian’anmen nell’
‘89. Allora, dei 300mila che erano
all’estero, ben pochi pensarono
a tornare a casa 6 .
Ma il successivo e più autentico,
ormai incontenibile boom è iniziato
con i primi anni ‘90, e ancora
una volta in seguito a una
indicazione politica. Nel 92’ il
vecchio Deng dice “Arricchirsi è
glorioso”, durante il suo celebrato
viaggio al Sud, nella cittadina
allora povera e scalcinata di
Shenzhen, che oggi è diventata
una sconcertante megalopoli di
grattacieli e fast food, e finalmente,
grazie ad un’altra geniale invenzione
di Deng Xiaoping, lo
spregiudicato ossimoro “economia
socialista di mercato”, ecco
che l’Occidente capitalista e sviluppato
diviene per molti versi il
nuovo modello esemplare da seguire,
fonte di continui stimoli, di
ardite competizioni, di confronti
e di sfide. Ecco allora finalmente
mettersi in atto un complesso e
spericolato processo di avvicinamento
all’altro nel quale la Cina
si avvia con tutta l’imponenza e
la serietà che la propria
plurimillenaria tradizione richiede.
Però tutto questo sembra che,
purtroppo, riguardi poco o nulla
il nostro Paese, almeno per quello
che concerne il diffondersi dello
studio della nostra lingua e
della nostra cultura nella Cina di
oggi.
In questi anni sono, è vero, fortunatamente
cambiate in Cina le
metodologie di studio, la scelta
dei testi, i contenuti e le modalità
della didattica della nostra lingua,
e finalmente anche della
nostra letteratura e cultura, ma
purtroppo gli studi sul nostro paese
rimangono ancora limitati
soltanto a pochissime sedi universitarie
(a Pechino e Shanghai si è
finalmente aggiunta anche Xi’an),
senza avere ancora visto quella
fioritura che sicuramente potrebbero
avere7 . E questo non certo
perché il nostro paese non possa
rappresentare, nell’immaginario
cinese, un punto di riferimento
ideale e proponibile; al contrario,
nella Cina di oggi, l’Italia è
comunque il paese dell’arte, della
musica, dell’eleganza, del cinema….
E quindi anche istituti
come Conservatori, Accademie,
Scuole di cinema dovrebbero e
potrebbero essere coinvolti in nuovi
progetti di studio a breve e
medio termine.
Però i giovani cinesi, quelli che
formeranno l’élite del futuro, non
è certo in Italia che vengono a
studiare, a formarsi, a costruirsi
quei legami, quelle guanxi internazionali
che diventano sempre
più importanti nella complessa
scena dei mercati senza barriere.
Mercati e paesi nei quali peraltro
i nuovi imprenditori cinesi si muovono
ormai agevolmente, dove
vogliono avere accesso privilegiato, sia come produttori sia come
nuovi consumatori, ma dove soprattutto
vogliono che i loro figli
(i figli dei famosi 50 milioni di ricchi,
dei quali la stampa internazionale
tanto favoleggia, che
comprano Ferrari e Max Mara,
Gucci e Armani) possano recarsi
a studiare: non più le obbligatorie
“lezioni a porte aperte” nelle
poverissime Comuni popolari di
Mao degli anni ‘70, ma College
di lusso, Master prestigiosi e soggiorni
di studio nelle Scuole più
importanti del mondo.
In questi ultimi anni, infatti, è
cambiata radicalmente la
tipologia del giovane studente cinese
che va all’estero: alla schiera
degli “intelligentissimi” che, su
autorizzazione del governo cinese,
razziavano borse di studio in
tutte le università anglofone, tedesche
e francesi, abbiamo di recente
visto sostituirsi giovani e
meno giovani, spesso già laureati
di I livello, muoversi a caccia di
Master anche costosissimi, ovunque.
E mentre fino a qualche anno
fa erano soprattutto gli Stati Uniti
la meta favorita per corsi lunghi
e brevi, le pesanti restrizioni
all’accoglienza degli stranieri intervenute
dopo l’11 settembre
hanno fatto registrare un pesantissimo
calo anche nelle presenze
cinesi. Ecco quindi che sono ora
le principali sedi universitarie europee
a registrare il tutto esaurito:
e inoltre, in paesi come Francia
e Germania, già tradizionali
paesi erogatori di Borse di studio
e sovvenzioni, sono di recente fioriti
anche appetitosi corsi di
specializzazione (a volte con
finanziamenti UE) per le materie
più disparate, e con relativi stage
di lavoro, corsi per i quali gli applicanti
cinesi sono disposti a pagare
profumatissime cifre, pur di
avere nel proprio curriculum un
qualunque soggiorno di studio
all’estero, vidimato da una
qualsivoglia certificazione straniera.
In Italia però i ragazzi cinesi non
vengono innanzitutto perché l’italiano,
anche se è una lingua che
in Cina viene riconosciuta come
la più bella e armoniosa è, come
si detto, una lingua per pochissimi!
E per accedere alle università
italiane bisogna avere prima superato
un esame di lingua italiana!
Ma soprattutto non sembra si
riescano a superare, almeno per
ora, tutta una serie di barriere e
difficoltà normative poste dal nostro
paese. Oggi infatti è impossibile
per un ragazzo cinese, anche
se danaroso, provare a intraprendere
un percorso analogo
a quello che, invece, ormai da
almeno 30 anni saggiamente i cinesi
hanno costruito per gli stranieri
che vogliano studiare il cinese in Cina: efficienti le procedure
per la concessione dei visti
di studio (con relativo tesserino
studentesco), corsi versatili di breve,
medio, lungo termine, anche
per principianti, con certificazioni
di livello rilasciate in seguito a Test
uniformati da una Commissione
Nazionale8 e, soprattutto, una
diversificata offerta didattica
pressoché in tutte le grandi università
della Cina.
Il tutto ampiamente
pubblicizzato, anche in inglese,
su siti internet
aggiornatissimi, e negli Uffici addetti
all’Istruzione che fanno parte
delle sedi diplomatiche cinesi all’estero
(strutture che peraltro non
esistono nelle nostre sedi diplomatiche
in Cina). Secondo i dati che
ha fornito la signora Li Guilin, Vice
Direttore del Centro Servizi per gli
scambi accademici del Ministero
dell’Istruzione cinese, in occasione
del Seminario “Study in China”,
tenutosi a Roma il 7 novembre
2003, dal 1971 sono stati
531mila gli studenti stranieri che
hanno studiato in Cina. Nel 2002,
sono stati 85.829, provenienti da
175 paesi, dislocati in 320 università
del territorio cinese9 .
Un ragazzo cinese che vuole venire
a studiare in Italia, invece,
deve produrre una tale quantità
di documenti, certificati,
equipollenze, garanzie, da scoraggiare
anche l’italianista più
volenteroso. Per chi non ha una
buona conoscenza della nostra
lingua, poi, la situazione è ancora
più difficoltosa: non sono certo
numerosi gli Atenei italiani che
forniscano esaurienti presentazioni
anche in inglese, neppure per i
corsi di perfezionamento e Master,
che potrebbero invece costituire
interessanti proposte per un soggiorno
di studio in Italia più limitato
nel tempo.
Si tratta allora da parte di ogni
singolo Ateneo di valorizzare fin
d’ora quello che vuole ed è in grado
di offrire, mentre bisogna in
tempi brevi elaborare una strategia
di medio e lungo periodo che
sia in grado di coinvolgere e mettere
in luce le specificità dei diversi
percorsi formativi delle Sedi
interessate. Vanno a tale proposito
fornite tempestivamente
documentazioni aggiornate, possibilmente
anche in inglese, soprattutto
riguardo alle procedure
per le certificazioni e il riconoscimento
dei corsi, che proprio di
recente hanno subito significative
semplificazioni, ma che purtroppo
rimangono ancora completamente
ignorate dai potenziali
studenti cinesi.
D’altro canto è indispensabile
anche una efficiente collaborazione
fra gli organismi competenti
per il rilascio dei visti di ingresso
per motivi di studio, ed una
velocizzazione nella concessione
delle autorizzazioni che contribuirà
sicuramente ad un rapido miglioramento
anche nell’immagine
che della nostra burocrazia
hanno i cittadini cinesi.
MONDO CINESE N. 119, APRILE-GIUGNO
2004