L'era di Hu Jintao e di Wen Jiabao sta cancellando la scarsa sensibilità mostrata finora dalla Cina nei confronti dell'ambiente. Stanno diventando di uso corrente e diffuso i comuni termini dell'ecologia: sviluppo sostenibile, difesa dell'ambiente, rapporto armonico tra uomo e natura. È una novità interessante specialmente se si ricorda il passato sospetto cinese verso problemi ritenuti appannaggio e responsabilità solo - o principalmente - dei paesi industrializzati. È una nuova prova della piena disponibilità della Cina ad affrontare, con l'insieme della comunità internazionale, i drammi che oggi affliggono ogni angolo del pianeta.
Questa nuova attenzione sta avendo una grande visibilità. Ne ha parlato Wen nel suo rapporto alla Assemblea nazionale. Vi ha insistito Hu nell'intervento al seminario sull'ecologia che ha accompagnato i lavori assembleari.1 Ne hanno discusso e continuano a farlo esponenti delle varie Accademie e degli organismi governativi incaricati di approfondire questa tematica. Molti membri del parlamento hanno chiesto il rapido varo di apposite leggi. Generale è apparso il disagio per una crescita che ha avuto come componente decisiva lo spreco di risorse, il loro uso inefficiente2. Sul quotidiano Guangming l'economista Qi Jianguo dell'Accademia delle scienze sociali ha scritto che l'economia ha bisogno di "un ambiente in buona salute".3 Non si sfugge però alla sensazione che una così grande visibilità suoni in qualche modo come una presa di distanza dal modello di crescita che è stato inseguito in questi anni e del quale oggi si colgono non solo i risultati brillanti quanto anche i pesanti costi trasmessi in eredità. Come dire: il buco nell'ozono sta suonando la campana a morte della sollecitazione denghista all'arricchimento. Se, nel solco di Deng Xiaoping, negli anni passati la parola galvanizzante era stata 'correte', oggi con Wen Jiabao la parola chiave diventa 'prudenza'.
Non solo di questo si tratta. Siamo di fronte a una vera e propria campagna promozionale delle tematiche ecologiche, nello stile pedagogico che caratterizza da sempre il rapporto tra vertice comunista, grande burocrazia di partito e di governo e opinione pubblica che ha accesso alla stampa politicizzata. Non a caso. La correzione ecologica dei guasti della politica economica (e l'Occidente lo sa molto bene) è difficile e costosa; esalta la sobrietà non il consumismo; impone scelte impopolari; richiede un consistente e continuamente aggiornato dispositivo tecnologico. Qualche esempio: oggi in Cina circolano 12 milioni e mezzo di auto private, delle quali due milioni solo nella capitale; in tutto il paese vengono usati 96 milioni di mezzi di trasporto; 102 milioni di cinesi hanno la patente di guida4. Sono numeri irrisori rispetto a quelli che conosciamo nelle nostre città occidentali. Ma Wen ha detto che bisogna puntare sul consumo interno, dunque, se ne deduce, anche sull'aumento della dotazione privata di auto. E quale sarà il risvolto ecologico di questa sollecitazione al consumo? La fame energetica cinese è soddisfatta dal carbone e dal petrolio: ormai la Cina non esporta più il primo ( mettendo in crisi anche industrie italiane come l'Italsider di Taranto) ed è diventata grande importatrice del secondo. Ma quanto è destinata a pesare sul bilancio pubblico la spesa per quegli accorgimenti tecnologici che serviranno a tenere sotto controllo gli effetti inquinanti di queste due 'energie'? Ha scritto I'International Herald Tribune che la Cina ha preso a modello l’America nella sua politica di inquinamento e che nel 2020, secondo le previsioni, supererà il maestro come prima fonte mondiale di emissione di monossido di carbonio5.
In verità la Cina non ha scoperto ora l'ecologia. Lo aveva già fatto nel lontano gennaio del 1990 con una legge per la protezione ambientale che rispondeva però solo o innanzitutto a una esigenza per così dire di natura burocratica: decidere quale struttura amministrativa dovesse occuparsi del problema.6 Erano ancora i tempi della economia pianificata ed erano anche tempi di profonda crisi economica e politica. Quella legge non è servita a niente perché il tasso di crescita che era necessario - anche per ragioni politiche - spingeva in tutta altra direzione. A differenza degli Stati Uniti, la Cina ha firmato il trattato di Kyoto, che però non è internazionalmente vincolante perché non è stato siglato dalla maggioranza dei paesi. Per di più Pechino non ha emanato le norme interne di attuazione e, come paese in via di sviluppo, la Cina non è vincolata al rispetto di parametri prefissati. Avranno ora Hu e Wen la forza e il coraggio di fissare delle regole e dei vincoli, di operare delle correzioni radicali, dai risultati imprevedibili?
1
MONDO CINESE N. 118, GENNAIO-MARZO
2004