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ECONOMIA E DIRITTO

Unione europea e Cina, occasioni e rischi

di Antonio Pollio Salimbeni

1. Pechino resta partner strategico

Per quanto gli stretti interessi dell'economia sembrino andare nella direzione di un inasprimento dei rapporti tra Europa e Cina, non c'è segnale che questa sia la strada imboccata né a Bruxelles né nella maggioranza delle altre grandi capitali. Per quanto si siano moltiplicati appelli e denunce contro la pirateria commerciale e la concorrenza sleale, siano ancora forti le pressioni affinché Pechino si impegni a pilotare lo yuan fuori dal recinto della parità fissa con il dollaro per stabilizzarlo su valori più compatibili con la prestazione dell'economia (nel senso di una rivalutazione), nessun muro divide oggi le due aree. Sul piano politico, per l'Europa la Cina resta un "partner strategico", formula radicalmente diversa da quella accreditata dall'amministrazione americana, che finora non ha smentito di considerare la Cina come un "concorrente strategico", talmente ingombrante, quindi, da non escludere - in linea teorica - un confronto. Neppure le apprensioni di importanti settori industriali, a partire dal tessile-abbigliamento a causa della fine dell'accordo Multifibre (nel gennaio 2005) che comporterà un ciclo di ristrutturazioni in una industria ad alta intensità di lavoro in Europa e particolarmente in Italia, hanno impresso sostanziali novità a un processo politico di apertura imboccato da molto tempo.
Ormai in pista per diventare il primo partner commerciale spiazzando gli Stati Uniti quest'anno e il Giappone l'anno prossimo, l'Unione Europea scommette sul 'Grande Mercato' a qualunque costo. Si augura che il deprezzamento del dollaro, i cui effetti si scaricano in misura sproporzionata sull'euro in assenza di flessibilità valutaria in Asia, sia un accidente temporaneo e che i recenti (febbraio-marzo) segnali verso una riduzione dei vincoli al movimento dei capitali e alla convertibilità diventino pratica costante prima dei cinque-sei anni indicati da Guo Shuqing, responsabile dell'Amministrazione che gestisce le riserve valutarie.1
L'Unione Europea ha messo in atto una diplomazia silenziosa, moral suasion viene chiamata dai banchieri centrali, evitando con Pechino gli strattonamenti sulle politiche di cambio nei quali volevano trascinarla gli Stati Uniti nell'ultimo G7. I motivi sono due. II primo ha a che vedere con la consapevolezza che la partita dei cambi deve essere giocata in modo "consensuale" da tutte le parti in causa e prevede il mutuo concorso (anche a livello di interventi sui mercati se necessario) delle tre grandi aree monetarie (dollaro, euro e yen); il secondo riguarda una diversa valutazione dei rischi di un troppo rapido sganciamento dello yuan dal dollaro per la stabilità valutaria e finanziaria dell'Asia.

2. Multipolarismo politico e interessi dell'economia

La prudenza europea sull'economia riflette fedelmente la scelta politica multipolare, che esclude a priori aspri contenziosi. Così non può stupire che le priorità dell'Unione Europea nei confronti della Cina siano state recentemente confermate nella stessa successione mentre dallo scorso autunno ai margini delle riunioni del G7 qualche ministro dell'economia tuonava contro il "pericolo cinese": sostegno alle riforme economiche e sociali interne per favorire l'integrazione nell'economia mondiale "con una attenzione particolare all'attuazione degli impegni dell'Organizzazione mondiale del commercio (OMC)"; protezione ambientale; rispetto dei diritti umani e affermazione di una "società aperta fondata sulle regole del diritto".
L'ultimo rapporto della Commissione Europea sulle relazioni Ue-Cina, come d'altra parte i precedenti, riflette una inclinazione favorevole al ruolo esercitato da Pechino nello scacchiere internazionale, pur riconoscendone i limiti e qualche rischio. "In molti aspetti (della politica internazionale) la Cina ha assunto un approccio costruttivo pur perseguendo i propri interessi".2 La preoccupazione per l'evolversi delle relazioni Cina-Usa è palpabile. "Cina e Stati Uniti hanno crescenti interessi commerciali reciproci, ma fanno fronte a divergenze politiche su questioni come Taiwan, diritti umani, progetti americani per il sistema di difesa nucleare. È probabile che nel futuro prevedibile le tensioni tra gli Usa come superpotenza dominante e la Cina come potenza economica e militare in crescita aumentino regolarmente”3. Naturalmente da parte europea non ci si dimentica che la potenza economica della Cina può diventare difficile da gestire specie in alcuni Paesi (come l'Italia), ma non per questo a Bruxelles e nella maggior parte delle capitali europee viene accreditata la tesi del 'nuovo nemico' (commerciale) né viene evocata la necessità di contenerlo. Toni e giudizi sono molto diversi da quelli in voga attualmente negli Stati Uniti, là dove l'emorragia di posti di lavoro a high-tech è bollente materia di campagna elettorale.
L'opinione europea è più in linea con le valutazioni del Fondo Monetario Internazionale e dell'Ocse. In un articolo apparso sulla rivista del Fmi, Finance & Development, si afferma che "il recente deprezzamento del dollaro, al quale è legato il renminbi, ha senza dubbio aggiunto competitività alla Cina temporaneamente, ma bisogna tenere a mente che è il basso costo del lavoro cinese, sostenuto da un enorme serbatoio di manodopera qualificata e non qualificata, a esercitare un ruolo primario determinante nella competitività della Cina in particolare nel mercato americano".
I rischi provenienti dal cambio vengono così considerati passeggeri e comunque si è convinti che gli svantaggi per i paesi industriali derivanti dalla fine dell'accordo Multifibre, con il conseguente rischio di invasione di prodotti tessili dai paesi extra Ue a partire dal primo gennaio 2005, "saranno compensati dalla crescita economica sostenuta poiché la Cina è diventata il maggior importatore di una vasta gamma di materie prime e prodotti di base. Non solo: in aggiunta al ruolo prominente svolto nel commercio di processo (importazione di merci destinate all'esportazione, ndr), l'importazione per il consumo finale all'interno del paese appare in rapida crescita visto che più di metà delle attuali importazioni cinesi sono destinate al consumo interno".4
Questa visione relativamente ottimistica viene confermata anche da un recente studio del Fondo Monetario Internazionale nel quale si rileva che "le preoccupazioni per l'ascesa cinese ricalcano le ansie provocate dal Giappone emergente dopo la seconda guerra mondiale, quando molti paesi sviluppati ritenevano che la competizione dei bassi salari nipponici sarebbe stata una seria minaccia per la loro industria". Ma si afferma con una certa sicurezza che "la riduzione delle barriere contro le esportazioni cinesi, come quelle per i mercati tessile e dell'abbigliamento, provocherà un grande balzo nelle esportazioni cinesi aumentando (casomai, ndr) la concorrenza con altri paesi in via di sviluppo". Però si tratterà di un balzo "una tantum".5

3. Scommessa sulla middle class cinese

La tesi di fondo è che in Cina si stia creando una robusta classe media con un reddito disponibile in aumento, desiderosa di comprare beni occidentali. Su questo le opinioni sono contrastanti. Secondo l'economista Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison, "se per ipotesi i cinesi ricchi aumentassero in un colpo solo il loro attuale ammontare di acquisti di beni del made in Italy nella misura in cui oggi l'intero Giappone (già ricco) compra i nostri prodotti (4,3 miliardi di euro), ciò non basterebbe nemmeno a riequilibrare il semplice passivo bilaterale che l'Italia ha con la Cina, pari nel 2003 a 5,7 miliardi di euro".6 Gli svantaggi derivanti dall'accresciuta concorrenza delle merci cinesi, però, saranno compensati solo se Pechino manterrà gli impegni di apertura commerciale previsti dagli accordi Omc sul rispetto dei quali si gioca la credibilità internazionale del governo cinese. Certamente a Bruxelles si vede con particolare preoccupazione l'approccio stop and go al rispetto degli impegni a ridurre le barriere tariffarie e non tariffarie, ma - anche qui - la prudenza è totale. Lo stesso negoziatore commerciale europeo, il francese Pascal Lamy, continua a evitare toni allarmati e sui contenziosi antidumping si mantiene fedele alla linea in base alla quale "ogni caso va trattato con una visione aperta".7
L'Europa, in sostanza, considera la crescita dell'economia cinese una occasione d'oro almeno quanto l'Europa risulta importante per la Cina. E ciò per diverse ragioni. Una ha che fare, di nuovo, con la politica. Ha raccontato recentemente il presidente della Commissione Europea Romano Prodi che nel 2000 le autorità di Pechino avevano assicurato che avrebbero continuato a "comprare euro fino a quando non avremo nel futuro non vicino una uguale quantità di euro e di dollari nelle nostre riserve, perché noi vogliamo essere protagonisti nel commercio mondiale e amiamo un mondo multipolare". Quando a Washington si manifestava scetticismo per l'avventura dell'euro (moneta unica senza governo unico dell'economia in un'area economica non ottimale, sostenevano i critici) erano stati proprio i cinesi a definire I'euro come uno strumento per reagire al "monopolarismo monetario".8
Ma non c'è soltanto una questione monetaria, che potrebbe essere anche valutata - almeno al momento - come una semplice questione di vanità (da parte europea). Si tratta piuttosto di uno spostamento verso Est degli interessi reali di interi settori economici europei che fanno quasi a gara in una corsa verso un polo di crescita che può garantire buone occasioni di business prolungato nel tempo. A cominciare dalla fame di macchinari di media e alta tecnologia di cui la Cina ha un forte bisogno nonostante stia salendo la scala delle produzioni di valore. Negli anni '80 e '90 le esportazioni cinesi erano concentrate principalmente nell'abbigliamento, nei giocattoli e in altri prodotti dell'industria leggera. Da allora la quota di esportazioni è aumentata in tutti i tipi di merci ed è risultata particolarmente rapida nelle macchine per ufficio e nei prodotti di telecomunicazioni, compresi quelli elettronici, così come nel mobilio, nei beni di trasporto e nelle forniture industriali. I prodotti elettronici contano per un quarto dell'export totale. La quota maggiore delle importazioni cinesi ad alta tecnologia consiste in parti e componenti di prodotti e viene prevalentemente incorporata nella produzione per l'export e non utilizzata per modernizzare la produzione nazionale. Da notare che per la Cina sono le importazioni provenienti dall'Europa ad avere il più forte contenuto tecnologico (un quinto dei prodotti europei importati sono high-tech; la Cina ha prodotto il 60% dei DVD venduti nel 2003 nel mondo).
La filiera tessile mantiene complessivamente una quota considerevole dell'impiego industriale, ma diminuisce fortemente nella produzione e nel valore aggiunto essendo il settore elettrico ed elettronico ad assumere un ruolo trainante sia nella produzione che nell'impiego.9

4. Il lungo balzo commerciale

Fa sempre impressione scorrere le cifre degli scambi commerciali del mondo con la Cina. Secondo gli ultimi dati della Commissione Europea, il totale del commercio Ue-Cina nel 2002 è aumentato a 115 miliardi di euro portando la Cina al secondo posto nella graduatoria dei partner commerciali europei dopo gli Stati Uniti. Con la differenza, rispetto agli Stati Uniti, che il deficit commerciale europeo nei confronti della Cina ha raggiunto e superato i 47 miliardi di euro senza che si gridasse più di tanto allo scandalo. II deficit americano nei confronti della Cina si è piazzato a quota 99,73 miliardi di euro (125 miliardi di dollari). E con un'altra differenza: il deficit europeo con la Cina è compensato con il surplus con il resto del mondo. La Cina aveva spiazzato il Giappone diventando il secondo partner commerciale europeo nel 2002 con scambi per 115 miliardi di dollari e la Ue risulta il maggior investitore in Cina con uno stock di investimenti diretti di 34 miliardi di dollari a fine 2002.10 Unione Europea e Stati Uniti nel 2003 hanno investito in Cina 4 miliardi di dollari ciascuno, ma la dominanza europea in alcune aree ad alta crescita dell'economia cinese è evidente. I progetti per i futuri tre pilastri dell'industria petrolchimica cinese sono realizzati da imprese europee: la tedesca Basf, la britannica BP e l'olandese Royal Dutch. La Volkswagen vende il 40% della nuova produzione 2003 in Cina contro il 10% delle case automobilistiche americane. Di più: per il costruttore automobilistico tedesco la Cina è diventata il mercato principale visto che l'anno scorso vi ha venduto più auto che in Germania (679.961 fra Volkswagen e Audi in Cina contro le 519.500 in Germania).11 Con 4,4 milioni di veicoli venduti nel 2003 la Cina si è piazzata al quarto posto nel mercato mondiale dell'auto e per la Nissan sorpasserà i giapponesi nel 2007 con una produzione di 14 milioni di veicoli l'anno (l'equivalente dell'Europa oggi) e 7 milioni di auto vendute.
Contractors europei sono impegnati nella realizzazione di grandi opere infrastrutturali e grandi progetti industriali (turbine, energia e infrastrutture ferroviarie con la tedesca Siemens e la svedese-svizzera Abb, impianti per l'acqua con la francese Veolia Environment e la britannica Thames Water). Siemens è presente in Cina con una quarantina di società. Dall'euro forte arriva una spinta per molte società a cogliere al balzo l'opportunità data dalla decisione cinese di modificare la legge sul commercio con l'estero rendendo più facile per le imprese non cinesi vendere e distribuire prodotti in Cina inclusi i beni importati. Anche se i produttori automobilistici non possono controllare più del 50% di una joint venture, le società possono distribuire componenti e così accade per il settore alimentare, come prescrivono le regole Omc.

5. La strategia del business e i rischi

Una idea precisa orienta il business europeo: rendere la dipendenza dalla domanda interna europea meno pressante nel momento in cui si profilano anni di crescita economica debole. Quale occasione migliore per approfondire gli interessi in Cina nel momento in cui il boom sembra non finire mai? Non vengono, naturalmente, sottovalutati i rischi. Nell'ultimo rapporto della Commissione europea sulle relazioni bilaterali si afferma per esempio che "restano diversi motivi di preoccupazione in particolare l'assenza di trasparenza nella governance economica, la regolamentazione eccessiva in alcuni settori, l'introduzione di barriere non tariffarie e la persistenza di una cultura protezionista che favorisce l'industria locale che potrebbe portare a una limitazione di una effettiva liberalizzazione".12
A un anno e mezzo dall'accesso alla Omc, la Ue segnala delle difficoltà sull'accesso ai mercati, i servizi (finanziari, telecomunicazioni, costruzione), il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale e degli standard internazionali (sia nell'industria che nella sanità e nel settore fitosanitario). Questi rilievi sono reiterati in documenti e dichiarazioni ufficiali, ma a prevalere è il fair play. A Bruxelles si ritiene che l'Europa non possa permettersi il lusso di sottovalutare la rapidità con cui sta procedendo la classe dirigente cinese che intende dettare i ritmi della liberalizzazione del commercio in Asia volendo dar vita entro il 2010 a un'area di libero scambio con i 10 paesi del Sud-Est. È proprio questa immensa area di business a sostenere il commercio intraregionale, che in futuro potrebbe sostituire l'esportazione verso Europa e Stati Uniti come motore dell'economia cinese. L'obiettivo europeo è acquisire prima di allora dei punti di forza nei settori chiave ormai maturi nel Vecchio Continente, settori che possono garantire commesse prolungate di fornitura alle imprese ancora localizzate in Europa.
Ecco perché perfino in Francia, nazione che negli anni '80 e '90 si è sempre dimostrata più allergica ai rischi della delocalizzazione industriale, e non solo in Germania, la Cina viene considerata una nuova Mecca economica nonostante gli enormi vantaggi per l'impresa della delocalizzazione di attività in aree con un inesauribile serbatoio di manodopera a basso costo.
In fondo, i livelli di produttività dell'industria manifatturiera cinese non sono minimamente paragonabili a quelli europei. Uno studio degli economisti Ren Ruoen e Bai Manying conclude che la produttività del lavoro in Cina si situa nella migliore delle ipotesi al 7% del livello tedesco (5% se si includono le piccole e medie imprese cinesi). La produttività è più elevata là dove la presenza di multinazionali non cinesi è più forte e risulta più marcata in alcuni settori, per esempio nell'elettronica, là dove la produttività cinese è al 30% di quella tedesca, nell'abbigliamento (22%), negli equipaggiamenti elettrici (17%).13 Ben altra ansia provoca l'allargamento dell’Unione Europea ai nuovi 10 paesi che dal primo maggio vi faranno parte. La competizione per delocalizzare è ravvicinata, i livelli di produttività nei paesi dell'Europa centro-orientale sono considerati buoni, c'è una forte componente di manodopera specializzata e i mercati - di consumo e per l'esportazione - sono più facili da gestire. Recentemente Siemens ha deciso di trasferire un terzo delle attività di ricerca e sviluppo nell'information technology verso Est e non solo in Asia, poi ha deciso di delocalizzare in Ungheria duemila posti di lavoro per la produzione di telefoni fissi e mobili. In Ungheria il costo di un'ora di lavoro è in media di 3,83 euro (contro una media Ue di 19,09). Ha addirittura sostenuto il presidente dell'Asia-Pacific Group all'Unione degli imprenditori europei (Unice) Piet Steel, che " la Cina è indubbiamente un must per la maggior parte degli imprenditori europei" tanto più sotto la spinta dall'euro forte.14
Pragmatismo politico e business vengono mescolati abilmente da Jacques Chirac, che ha dichiarato il 2004 'I'Anno Cinese' con tanto di Torre Eiffel inondata di luce rossa. A fine gennaio in una sola mossa la Francia ha bocciato il referendum di Taiwan sull'indipendenza da Pechino, affermato la necessità di togliere l'embargo europeo sulla fornitura di armi (imposto dalla Ue dopo la repressione di piazza Tian’anmen nel 1989), non limitandosi a prendere le parti dei tibetani. Risultato: una nuova commessa di 21 aeroplani per Airbus da parte di China Airlines. La convergenza di interessi è reciproca tanto è vero che i cinesi cercano - e ottengono - la collaborazione con gli europei nei settori in cui non possono convergere con gli Stati Uniti per ragioni di sicurezza specie dopo I'11 Settembre. Nell'ottobre 2003 è stata sancita la partecipazione al sistema di navigazione satellitare Galileo (in aperta concorrenza con l'americano Global Positioning System). E recentemente i cinesi hanno sostenuto l'interesse francese a ospitare il primo impianto di fusione nucleare del mondo (il consorzio globale International Thermonuclear Experimental Reactor) a scapito dei giapponesi.

6. Collaborazione nei settori strategici

È ancora la Francia, spalleggiata da Germania, Danimarca e Olanda, a esercitare la pressione più forte per "modernizzare" le relazioni europee con la Cina. In un documento preparato per il vertice dei capi di stato e di governo europei (25-26 marzo 2004) viene indicato come "l'attuazione di un effettivo partenariato strategico implichi l'abbandono di una logica fondata su ricompense e sanzioni" e ciò riguarda anche "la verifica della coerenza generale delle politiche dell'Unione Europea, compresa la revisione delle misure percepite come inutilmente vessatorie dai cinesi o che obiettivamente non corrispondono più allo stato delle nostre relazioni". È una operazione che ha trovato negli americani una fredda reazione.
Non tutto però è così chiaro e definito. Non tutti i settori economici e non tutti i paesi europei si trovano nella stessa posizione. Tra gli svantaggi a breve per alcuni settori, come il tessile e abbigliamento, e i vantaggi a medio e lungo periodo, la certezza dei secondi - effettivamente da dimostrare - non può mettere la sordina alla realtà dei primi. Lo stesso Fondo Monetario Internazionale, calcolando gli effetti potenziali dell'accesso di Cina e Taiwan all'Organizzazione mondiale del commercio, conclude che nel 2020 l'Europa occidentale avrà un impatto negativo dello 0,1% di crescita del prodotto lordo, né guadagni né perdite di esportazioni, aumento delle importazioni di 0,2%. Meglio piazzati gli Stati Uniti: -0,1 % in termini di crescita del prodotto loro, +0,9% per volumi di esportazione e +1,9% per volume di importazioni (un peso particolare è dato dai vantaggi nelle esportazioni agricole). In ogni caso si registra un incremento della ricchezza prodotta in Europa del 3,8% e negli Usa del 7,6%.15
Altri studi, però, tracciano uno scenario un po' diverso per i paesi industrializzati. Uno di questi è stato elaborato dall'economista olandese Arjan Lejour per il quale nel 2020 la liberalizzazione dei commerci con la Cina porterebbe a un incremento del prodotto lordo europeo dello 0,1 % mentre non avrebbe alcun impatto sul prodotto americano. I consumi aumenterebbero di 0,3% nella Ue e di 0,1% negli Usa.16 L'integrazione della Cina nell'economia mondiale e il rispetto delle regole del commercio implicano, dunque, dei costi. Nel caso del settore tessile e abbigliamento, il più a rischio in Europa specie tra i produttori della fascia meridionale tra i quali l'Italia, anche se esiste un meccanismo speciale di salvaguardia che permette di limitare le importazioni dalla Cina se dovesse manifestarsi una grave perturbazione di mercato, il FMI ricorda che "la realizzazione effettiva dei guadagni dipende da aggiustamenti strutturali nelle industrie ad alta intensità di lavoro, in particolare, appunto, tessile e abbigliamento".17
La terminologia giornalistica ha già indicato uno slogan: la fine dell'accordo Multifibre sarà un big bang per il mercato mondiale dopo quarant'anni di relazioni commerciali fondate sulle quote di esportazioni. La Cina, ma sempre di più anche l'India - impegnata nella corsa ad agguantare la modernizzazione cinese - fa paura non solo a quei paesi le cui economie sono ancora fortemente dipendenti dal settore tessile come quelli dell'area mediterranea (Marocco, Tunisia, Turchia) e ai concorrenti asiatici (Vietnam, Indonesia e Malaysia, Pakistan), ma anche - in misura assai inferiore - ad alcuni paesi europei come l'Italia. Anche se in Europa il tessile ha un ruolo declinante nell'industria manifatturiera, con una quota inferiore al 40% sull'esportazione mondiale del settore e di circa il 30% sull'export di abbigliamento, l'Europa con gli Stati Uniti resta la prima potenza mondiale nel settore, il più grande esportatore mondiale di prodotti tessili e il secondo di prodotti dell'abbigliamento dopo la Cina. Centrale per un paese come l'Italia è il sistema moda: da un lato l'industria meccanica si compiace perché i produttori asiatici sono diventati dei grandi acquirenti di moderni macchinari tessili per prepararsi alla svolta del primo gennaio 2005, dall'altro lato difende il principio della "reciprocità" di accesso al mercato poiché con la fine delle quote non finiscono automaticamente le barriere tariffarie e non: dazi, diritti doganali, certificazioni di provenienza, marcatura. È proprio il rispetto di questo principio la strada per evitare una rivincita protezionistica da parte dell'Europa.
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MONDO CINESE N. 118, GENNAIO-MARZO 2004


Note

1 "China signals lifting currency constrains", Financial Times, 8 marzo 2004.
2) "Country Strategy Paper: China 2003", European Commission, Bruxelles 2003. 
3) ibid. 
4) E. Prasad, Thomas Rumbaugh, "Beyond the Great Wall", F&D, Washington, dicembre 2003, www. imf.ora
5) Yongzheng Yang, "China Integration into the World Economy", IMF, Washington 2003.
6) M. Fortis, "La sfida si gioca nei distretti", II Sole 24 Ore, 7 marzo 2004.
7) "No Walls Divide China from Europe", The Wall street Journal, 5 febbraio 2004.
8) P. Badaloni, "Europa al bivio", Portalupi Editore, Casale M., maggio 2004, pp. 105-108.
9) "Trade and Technologic Transfers: a comparative study of Turkey, India and China", Document de travail, n. 6, Cepii 2003, Parigi, pp. 4-27.
10) "A maturity partnership - share interests and challenges in Eu-China relations", Brussels, 10 settembre 2003, COM(2003) 533, Eu Commission, www.cec.eu.int
11) B. Della Vedova, "La Cina sull'orlo di una bolla produttiva", II Sole 24 Ore, 5 febbraio 2004.
12) "Country Strategy Paper: China 2003", op.cit.
13) F. Lemoine, "Economie Internationale 92", Cepii, Paris 2003.
14) Cfr. nota 7.
15) Ramesh Adhikari, Yongzheng Yang, Finance and Development, September 2002, IMF, Washington.
16) "China and Wto: the Impact on China and the World Economy", The Netherland Bureau far Economic Policy Analysis, The Hague.
17) "Beyond the Great Wall", op.cit.
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