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ECONOMIA E DIRITTO

Lo yuan e la sfida cinese

di Antonio Pollio Salimbeni

1. Una campagna avventata

Prima c'è stato il momento degli strattoni, degli inviti rudi a farsi carico della stabilità globale e, in particolare, dell'enorme deficit commerciale americano che ad un certo punto può avvitare il dollaro al ribasso. Poi, vista l'impossibilità di ottenere da Pechino impegni precisi sullo sganciamento dello yuan dal biglietto verde, la Casa Bianca ha cambiato tattica giocando la carta classica del commercio bilaterale. Mentre a Cancun Cina, India e Brasile mandavano in pezzi la strategia euro-atlantica per rifondare gli accordi sugli scambi, l'amministrazione americana ha messo al lavoro un gruppo tecnico di alto livello per passare ai raggi x tutte le pratiche di concorrenza sleale - dal punto di vista americano - dei partners, primo fra tutti la Cina, accusata di alterare le regole del mercato gìobale. E questo mentre negli stati americani della textile belt si estende la campagna anti-cinese condotta da congressisti e lobby potentissime. Senza un intervento del governo, l'American Textile Manifacturers Institute si dichiara, per esempio, certa che i cinesi controlleranno il 65-75% del mercato Usa dell'abbigliamento una volta che le quote previste dagli accordi internazionali saranno rimosse nel gennaio 2005. Sono 2,5 milioni i posti di lavoro persi nell'industria da quando George W. Bush ha cominciato la sua presidenza e una buona parte la colpa, si dice, è della pirateria commerciale.
A Ginevra, sede dell'Organizzazione mondiale del commercio, sono annunciate decine di ricorsi. In Italia, dopo che il ministro del l'Economia ha parlato di una Europa "nella pentola di un cuoco cinese", le dogane hanno ricevuto istruzioni per verificare carico per carico che le merci in entrata abbiano il certificato di origine, cioè la bolla delle camere di commercio delle città di provenienza, quelle asiatiche comprese. Secondo un recente rapporto della Fondazione Edison, sui mercati della Unione Europea la Cina sottrae quote all'Italia specificatamente in settori nei quali è leader o fra i leader (valvolame, illuminotecnica, mobili, casalinghi in metallo, ferramenterie, pietre ornamentali lavorate). L'export cinese verso l'Europa era di 118 milioni di dollari nel 1990, nel 1996 era salito a 933 milioni per finire nel 2002 a 3,8 miliardi con una moltiplicazione per 32.1 Non sono poi molto lontani gli echi del biennio nero asiatico (1997-1998), che per qualche settimana aveva fatto temere una crisi finanziaria globale. Ebbene, quella crisi venne arginata proprio dalla Cina che allora come oggi è l'unico polo economico in crescita in grado di funzionare da motore almeno per il continente asiatico. Nessuno se ne ricorda più e oggi la Cina è sul banco degli accusati perché con lo yuan che segue strettamente il corso del dollaro nei suoi movimenti (in deprezzamento dall'inizio del 2002) inonda di merci Stati Uniti ed Europa. Le immense riserve valutarie della Cina, seconde solo a quelle del Giappone, allora furono una ciambella di salvataggio per l'Asia. Adesso sono additate come la dimostrazione di una posizione insostenibile.
Per la verità non sono stati in molti a seguire gli Stati Uniti nel tentativo di risolvere la questione dello yuan rapidamente e a colpi di diktat. L'Europa non è andata oltre il richiamo all'esigenza di "una correzione ordinata degli squilibri anche attraverso aggiustamenti regionali equilibrati che riflettano i fondamentali dell'economia" e alla equità nella ripartizione dell'onere dell'aggiustamento degli squilibri globali. Wim Duisenberg, il presidente della Banca centrale europea, ha spiegato che "il passaggio a un regime di cambio più flessibile in tutti o quasi tutti i paesi asiatici è un processo che richiede grande attenzione e che non riguarda un solo Paese". A metà settembre, i ministri delle finanze dei 21 paesi del forum di cooperazione economica dell'Asia-Pacifico (Apec) hanno concordato sulla “importanza di accelerare le riforme strutturali, adattare le politiche macroeconomiche in vista di una crescita sostenibile con l'aiuto di politiche di cambio appropriate che facilitino gli aggiustamenti esterni in modo ordinato ed equilibrato", ma hanno anche specificato che una politica unificata di cambio nella regione non è all'ordine del giorno2. Con le stesse parole, il premier cinese Wen Jiabao aveva così spiegato al segretario al Tesoro Usa, che parlava della necessità di riequilibrare un cambio sottovalutato del 40%: "La Cina esplorerà e migliorerà il meccanismo di cambio dello yuan mentre approfondirà la riforma finanziaria, tenendo conto dell'andamento dell'economia e delle condizioni della bilancia dei pagamenti". E il governatore della banca centrale Zhou Xiaochuan: "Il mercato giocherà un ruolo sempre maggiore (nel decidere il tasso di cambio) e gradualmente faremo sì che lo giochi effettivamente. A quel momento noi permetteremo al cambio di avere una fluttuazione più grande".3 Ma quando sarà questo momento resta nella più totale incertezza.
Da Washington il direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, Horst Koehler, ha preso nette distanze dall'impostazione americana: "Penso che una maggiore flessibilità nei tassi di cambio da parte della Cina sia appropriata, ma non sono a favore di una pressione coordinata e organizzata nei confronti di quel paese, una pressione condizionata da valutazioni di breve termine che alla fine non è nell'interesse della comunità multilaterale".4

2. Commerci e sindrome cinese

Dal 1994 la Cina ha mantenuto il cambio fisso a 8,278 per dollaro comprando e vendendo dollari quando necessario. Conseguentemente lo yuan si è mosso in linea con il dollaro cosicché anche se il surplus commerciale e le riserve valutarie in valuta estera sono cresciuti enormemente, lo yuan ha seguito il dollaro nel suo deprezzamento. Stabilità valutaria e alti tassi di crescita (9,3% tra il 1978 e il 2000 è stata la media di aumento annuo del prodotto lordo contro una media globale del 3,3%) hanno costituito la principale ragione per la quale la Cina continua ad attirare investimenti diretti dall'estero: 57 miliardi di dollari nel 2003, 52,7 miliardi nel 2002. Per mantenere l'aggancio al dollaro (peg in inglese) la Banca di Cina in questo periodo acquista dollari al ritmo di circa 10 miliardi al mese. Proprio la determinazione a non cambiare regime ha portato all'accumulo di riserve per oltre 350 miliardi di dollari e a un indubbio vantaggio competitivo (dal lato del prezzo) dei prodotti made in China, il che ha aggravato il deficit commerciale dei paesi partner soprattutto degli Usa, quest'anno in passivo con la Cina per 100 miliardi di dollari. Questo tipo di "sindrome cinese", che ha da tempo rimpiazzato quella giapponese, di cui soffrono gli americani è da anni argomento di polemica pubblica. Sulla evidente forza economica della Cina nessuno si fa illusioni: la Cina è il più grande produttore di TV, condizionatori d'aria, macchine fotografiche e videocamere, telefoni. New Balance Athletic Shoe di Boston, uno dei gruppi più importanti di distribuzione di attrezzi ginnici americani, vende 40 milioni di paia di scarpe all'anno: il 60% proviene dalla Cina, il 20% dal Vietnam e solo il restante 20% viene prodotta negli Usa. È cinese il 70% dei prodotti forniti a livello globale da Wal-Mart, il colosso commerciale statunitense. Nel 2002 è diventata la seconda "piazza" al mondo dopo il Lussemburgo che attrae investimenti diretti distaccando gli Usa (30 miliardi di dollari). È questa vera e propria "manna finanziaria" che ha permesso alla Cina di rafforzarsi nel ruolo di grande atelier del mondo. II costo della manodopera può arrivare anche a 0,25 dollari l'ora e per ora non c'è traccia di una fiammata dei salari in conseguenza dei forti incrementi di produttività, contrariamente a quanto prescritto dalla teoria economica che non prende in considerazione l'esistenza di un serbatoio di manodopera praticamente inesauribile. La crescente mobilità tra le varie regioni interne e l'aumento della forza-lavoro qualificata (ogni anno entrano nel mercato del lavoro 2,5 milioni di laureati) contribuiscono, infatti, alla depressione dei salari.
II regime di cambio fisso sul quale ha fatto leva Pechino per quasi un decennio e che non sarà modificato in tempi brevi, è solo una parte dell'equazione cinese come dell'equazione occidentale (rispetto ai processi di crescita in corso). Cominciamo dagli effetti esterni del regime cinese di cambio fisso. II Fondo Monetario Internazionale ritiene che il rapido aumento delle riserve valutarie in Asia, e in particolare della Cina, "se è comprensibile, può avere toccato adesso il punto in cui un rallentamento nel tasso di accumulazione è desiderabile". In sostanza, i surplus delle partite correnti (l'eccedenza tra ciò che un paese deve ricevere da altri paesi e ciò che deve dare loro) in molti mercati emergenti "rappresentano le controparti del deficit corrente americano". Nel 2002 il surplus asiatico era di 133 miliardi di dollari, più ampio di quello giapponese (113 miliardi di dollari) e dell'eurozona (72 miliardi di dollari). Ciò significa che una riduzione del deficit americano (che supera il 5% del pil) ed è chiaramente insostenibile, "richiede che le economie emergenti dell'Asia si ripartiscano una quota dell'aggiustamento per prevenire un ingiusto peso sugli altri paesi".5 Invece, nel ciclo del dollaro debole, è accaduto il contrario: l'onere dell'aggiustamento è stato scaricato principalmente sull'eurozona attraverso la rivalutazione dell'euro.

3. II puzzle delle valute

Nelle economie emergenti dell'Asia, le enormi riserve e la stabilità dei tassi di cambio rispetto al dollaro hanno fatto sì che i tassi di cambio effettivo (cioè quelli delle valute dei paesi partner) si siano deprezzati con i relativi vantaggi commerciali nelle relazioni con partner occidentali. Tra l'inizio del 1995 e il febbraio 2002 la media del cambio del dollaro, pesato in termini delle valute dei paesi partner commerciali degli Usa, si era apprezzata del 35-50% a seconda dell'indice usato. Dato che ogni 1 % di aumento del dollaro produce un aumento di 10 miliardi di dollari nel deficit di parte corrente annuale dopo un periodo di 2-3 anni, è all'apprezzamento del dollaro che va imputato la gran parte dell'aumento del deficit totale, aumentato di un punto percentuale in 4 degli ultimi 5 anni (eccetto il 2001). Per finanziare il proprio deficit esterno, gli Usa importano circa 1 miliardo di miliardi l'anno di capitale estero (qualcosa come più di 4 miliardi ogni giorno). Chiaramente è una situazione insostenibile. Proiettando nel tempo l'attuale ritmo di deprezzamento si può calcolare che il deficit di parte corrente potrebbe ridursi di 100-200 miliardi nei prossimi 2 anni. Il problema è che il dollaro è caduto del 30% nei confronti dell'euro e solo del 15% contro lo yen e lo yuan si è mosso nella sua linea, deprezzandosi. Ciò, sottolinea l'economista americano Fred Bergsten, direttore dell'Institute of International Economics, "è paradossale dal momento che il Giappone è il paese con il più ampio surplus commerciale e la maggiore nazione creditrice, mentre la Cina è il secondo detentore di riserve in valuta pur essendo un paese la cui popolazione ha un reddito procapite di circa 1000 dollari".6 Questa situazione implica che la crescita economica americana non danneggia Cina, Taiwan o Malaysia (perché questi paesi accrescono i loro vantaggi competitivi grazie al cambio deprezzato come il dollaro) al contrario di quanto accade, in una certa misura per quanto riguarda gli effetti valutari, a eurozona, Canada, Messico e Giappone. Non è un caso che la Banca del Giappone continui a praticare un muscolare interventismo sui mercati dei cambi vendendo fiumi di dollari (77,69 miliardi nei soli primi 7 mesi del 2003, eccedendo l'intera somma spesa allo stesso scopo nel 2002) per tenere lo yen basso. L'eurozona è una delle aree a più bassa crescita nel mondo (0,5% quest'anno secondo la Commissione europea) e l'effetto negativo della pressione al rialzo dell'euro deprime le aspettative di ripresa. L'impatto sui flussi commerciali americani è evidente (anche se in misura diversa da quanto comunemente si pensa, come vedremo) poiché Cina, Malaysia e Taiwan insieme rappresentano il 30% dell'intero deficit commerciale Usa. La Cina da sola conta per il 22% e le importazioni americane dalla Cina sono 7 volte le esportazioni Usa verso la Cina.
Per quanto riguarda gli effetti del cambio fisso sulla Cina, il peg con il dollaro non permette di reagire in modo flessibile agli shock reali ai quali le autorità hanno reagito con riduzioni fiscali all'esportazione allo scopo di ridurre i prezzi all'esportazione compensando la caduta della domanda estera. Ma iI ricorso a tali strumenti è bandito dalle regole dell'Organizzazione mondiale dei commercio di cui la Cina fa ormai parte.
Inoltre in Cina scorrono ormai fiumi di hot money, liquidità speculativa ed è questa una delle preoccupazioni della banca centraÍe. Secondo alcuni economisti nei primi cinque mesi del 2003 c'è stato un flusso in entrata di circa 20 miliardi di dollari e la State Administration of Foreing Exchange di Pechino ha ammesso che si "sta cercando di capire le nuove caratteristiche della situazione del mercato dei cambi" annunciando l'avvio di ispezioni sui depositi in valuta depositati presso le banche7. A scalzare la muraglia dei controlli di capitale sono gli stessi cinesi che riportano in patria dollari dall'estero. Un motivo è la classica speculazione sull'attesa rivalutazione. Un altro motivo è l'attrazione degli investimenti immobiliari, in azioni e obbligazioni di Stato. Si è ormai fatta strada nello stesso governo di Pechino l'idea che sono proprio le rigide restrizioni a favorire il flusso di dollari nell'economia. I controlli rigidi hanno spinto gli investitori a speculare sui differenziali dei tassi di interesse tra i tassi ai quali vengono prestati i dollari in Cina e í bond cinesi. La valuta può essere presa a prestito all'1,5%, viene convertita in yuan e investita nel mercato dei titoli del tesoro locali al 2,7%. Infine, la pressione sullo yuan arriva dalle società taiwanesi che convertono valuta in yuan per prepagare i prodotti manifatturieri importati. È evidente che la leadership cinese sa benissimo che lo yuan è sottovalutato, ciononostante ritiene di poter procedere lentamente, prefigurando una liberalizzazione selettiva delle transazioni finanziarie e valutarie mantenendo il peg con il dollaro. Di questa strategia fanno parte l'aumento della quantità di yuan che i turisti cinesi possono convertire in valuta, I'ok alle banche statali di emettere bond denominati in dollari nel mercato nazionale, l'apertura (per ora dichiarata) sulle richieste per investimenti all'estero. L'obiettivo è limitare l'accumulo di domanda di valuta aumentando la domanda di yuan.

4. Liberalizzazione insostenibile

Che cosa accadrebbe se lo yuan si sganciasse dal dollaro in quattro e quattr'otto? Le risposte sono piuttosto univoche, sarebbe un disastro. Secondo Nicholas Lardy Morris Goldstein dell'Institute of International Economics di Washington, "con la sua montagna di debiti bancari incagliati, la Cina non può sostenere che i flussi di capitale aggravino la già enorme espansione di credito bancario, della moneta e degli investimenti. L'idea di agganciare lo yuan a un paniere di monete (tra cui I'euro - ndr) aumenterebbe la stabilità del tasso di cambio effettivo, ma bisogna scordarsi che la Cina faccia un balzo in avanti verso la libera fluttuazione e liberalizzazione completa del mercato dei capitali, ci vuole un compromesso"8. L'abbandono del peg viene vissuto non solo a Pechino come una mossa rischiosa. Chi lo auspica insiste sulla necessità di garantire una giusta sequenza dell'azione sul cambio: non si può liberare lo yuan fino a quando le banche si trovano in una condizione di rischio. Uno yuan in corsa potrebbe, infatti, avviare una spirale deflazionistica che impedirebbe di ristrutturare il sistema bancario e priverebbe l'Asia del motore economico più importante. Inoltre, le aspettative di continuo apprezzamento farebbero affluire una massa di capitali in Cina e ad un certo punto il cambio rivalutato ad altissimi livelli diventerà insostenibile. Da quel momento i flussi di capitale invertiranno rotta come è accaduto nel biennio 1997-98 proprio in Asia.
La fluttuazione del cambio invocherebbe la liberalizzazione del movimento dei capitali, ma questa è una mossa che Pechino non può decidere, anche qualora ritenesse opportuno correre il rischio di trovarsi come un turacciolo in balia delle turbolenze della finanza globale, se non riassesta il sistema finanziario e bancario interno.
Ma si teme anche lo scenario opposto, lo yuan avvitato nella spirale del deprezzamento dopo la fuga dei capitali. In una nazione in cui le famiglie detengono risparmi pari al 100% del prodotto lordo non è necessario un livello elevato di sofisticazione dei mercati finanziari per trasformare il surplus della bilancia dei capitali in deficit.
Se ci si addentra nelle complesse relazioni della Cina con il resto del mondo, si scopre che molti degli argomenti sui quali si fonda l'allarmismo anti-Cina non sono fondati o riflettono evidenti contraddizioni. Si sa con certezza, per esempio, che in 4 degli ultimi 5 anni il contributo cinese all'ampliamento del deficit commerciale americano è stato inferiore a quello europeo. La Cina ha contribuito infatti per il 29,43%, l'America Latina per il 26,94%, l'Europa occidentale per il 39,47%, I'eurozona per il 27,78%. Inoltre, secondo le ultime stime del Fondo Monetario Internazionale, il surplus delle partite correnti cinesi nel 2003 raggiungerà un modesto 1,4% del pil9. Non solo: nei primi sei mesi del 2003 il surplus commerciale cinese è calato del 70%. Ciò vuol dire che i dati su base annua assicureranno l'attivo, ma questo non è assicurato per l'anno prossimo. In ogni caso non tutto quanto la Cina esporta è "cinese". Uno studio di Marc Noland dell'Institute of International Economics indica che nel 1997 il 75% della crescita delle esportazioni cinesi in Usa proveniva dalle produzioni ivi delocalizzate da società non residenti in Cina10. Da allora, questo processo si è esteso fino a diventare la caratteristica dell'atelier globale. Ciò è chiarissimo per le produzioni ad alta intensità di lavoro come giocattoli e scarpe ginniche (18% del totale delle esportazioni cinesi). La simmetria è perfetta. La quota di mercato cinese in Usa è passata dal 10% al 60% negli ultimi 20 anni; le quote di mercato combinate di Corea, Taiwan e Hong Kong hanno perso esattamente quanto guadagnato dalla Cina. Per quanto riguarda le produzioni più sofisticate che esporta in Usa, invece, queste sono soltanto assemblate in Cina. Gli Usa hanno importato l'anno scorso 13,2 miliardi di dollari di accessori per computer stampati in Cina, con un aumento di 7,8 miliardi in 4 anni. Ma i componenti arrivano da Giappone, Taiwan e Stati Uniti, e sono i cinesi ad assemblarli. Infatti, ecco di nuovo la simmetria, le importazioni americane di accessori di computer da Taiwan e Giappone sono crollate di 7,2 miliardi di dollari nei quattro anni. Secondo le statistiche cinesi, l'export processato ha costituito nel 2000 il 55% dell'export totale e il 54% delle importazioni.

5. 'Atelier' globale

A essere cambiata, in sostanza, è la natura dell'industria manifatturiera globale: la catena dell'offerta passa dai paesi asiatici, dove i componenti high tech sono realizzati, alla Cina, dove vengono assemblati, e di qui tornano sui mercati mondiali e di origine. La Cina, così, non ospita l'intera catena della produzione. A dimostrazione che la Cina è diventata il capro espiatorio al quale attribuire le colpe della ripresa americana senza creazione dei posti di lavoro, si deve ricordare che il declino dell'industria manifatturiera americana non è cosa di oggi. La quota del settore sull'intera produzione lorda era del 30% negli anni '50, del 20% negli anni '70, del 16% negli anni '90 e del 10% all'inizio del nuovo secolo. In questo lungo periodo ci sono state massicce svalutazioni del dollaro, ma questa tendenza nell'industria manifatturiera non si è invertita. In ogni caso non tutti nella stessa amministrazione americana condividono la strategia del capro espiatorio. L'opinione di Gregory Mankiw, che guida il Council of Economic Adviser di Bush, è che "esiste una qualche relazione tra il problema cinese e la perdita di posti di lavoro, ma non si tratta della questione principale, non da lì arrivano le difficoltà dell'industria manifatturiera".11 Quanto alla ripresa senza occupazione, è lo straordinario incremento della produttività a far produrre di più con meno lavoratori. Se anche frenassero le importazioni dalla Cina, le imprese manifatturiere americane continuerebbero a fare a meno di assunzioni e a licenziare.
Secondo la Banca Mondiale, "la Cina è ormai specializzata nell'assemblaggio di parti importate, spesso prodotte in paesi ad alti salari come Singapore e Corea del Sud, che capitalizzano il basso costo del lavoro cinese"12. II peso delle importazioni incorporate nei prodotti esportati dalla Cina altera la minaccia cinese. Un semiconduttore prodotto in Corea del Sud e trasferito in Cina per la statistica è una esportazione sudcoreana. Quando viene assemblato e incorporato in un prodotto finito spedito negli Usa è una esportazione cinese. Anche qui le solite simmetrie. La quota "asiatica" del deficit commerciale americano è calata negli ultimi 10 anni della metà, mentre quello nei confronti della Cina è aumentata fino ad impaurire. Il trasferimento dai paesi asiatici verso la Cina della produzione ad alta intensità di lavoro e di beni assemblati ha avuto, dunque, un impatto minimo sul flusso totale di beni verso l'America. Nonostante la raffinatezza delle statistiche, nessuno sa con precisione quanto delle esportazioni cinesi è prodotto da multinazionali Usa. Secondo i dati ufficiali di Pechino la proporzione delle esportazioni prodotte da imprese estere è cresciuta del 52% nel 2002 e le società Usa ne costituiscono un decimo. A queste società lo yuan legato al dollaro va benissimo. Va tenuto in considerazione il fatto che ad aver beneficiato dei prezzi bassi delle merci importate dalla Cina sono stati i consumatori americani e che se è vero che la crescita dell'export cinese ha provocato una perdita di posti di lavoro Usa, si deve tenere presente che negli ultimi due anni le esportazioni americane in Cina sono cresciute di oltre il 15%. Si tratta di merci ad alto valore aggiunto: aerei civili, semiconduttori, macchine industriali ed equipaggiamenti di telecomunicazioni per 6,9 miliardi di dollari nel 2002, pari a un aumento del 37,4% nei precedenti quattro anni. Produzioni nobili che implicano lavoro americano ben pagato e aiutano gli Stati Uniti a restare competitivi nei confronti di Europa e Giappone.

6. L'illusione dell'industria occidentale

Mentre negli anni '80 le esportazioni cinesi erano tirate da tessile e abbigliamento, negli anni '90 trainanti sono stati l'equipaggiamento elettrico e i prodotti elettronici. La parte della filiera tessile nelle esportazioni nel decennio si è ridotta dal 32% al 26%, mentre nelle filiere elettriche ed elettroniche si è passati dall'11% al 33%. Nei settori più dinamici la Cina si specializza nell'assemblaggio non gestendo l'intero processo di produzione. A fine secolo I'85% dell'export di materiale elettrico e I'80% dell'export di strumenti di precisione erano il frutto di assemblaggio puro. Questa specializzazione è stata possibile per due ragioni. La prima riguarda la politica commerciale con la quale la Cina ha deliberatamente favorito le attività internazionali di assemblaggio. Basti pensare all'esenzione dei diritti doganali per i prodotti intermedi importati per essere trasformati in beni destinati all'esportazione. L'obiettivo era cogliere l'opportunità offerta dalle imprese dei paesi asiatici già industrializzati (ecco la seconda ragione) che delocalizzavano in Cina le produzioni ad alta intensità di manodopera. Nel 2002 due quinti dei personal computer taiwanesi erano realizzati in Cina, diventata presto un importante produttore di schede elettroniche madri, monitor e componenti hardware. Sono Giappone, Taiwan, Hong Kong, Malaysia e Tailandia a fornire alla Cina il 70% dei beni importati per l'export. Nel 1999 le filiali delle imprese non cinesi controllavano i due terzi dell'assemblaggio di Cina. Secondo gli economisti dell'istituto di economia francese CEPII, l'importazione dei prodotti intermedi costituisce un effettivo canale di trasferimento di alta tecnologia: nel 1999 il 59% delle importazioni di alta tecnologia era costituito da pezzi e componenti. Da notare che il processo produttivo cinese fa sì che le importazioni abbiano una media di contenuto di alta tecnologia superiore (15%) a quella dell'India (4%) o della Turchia (12%)"13. All'inizio dei secolo il 9% delle esportazioni cinesi era costituito da prodotti di alta tecnologia, una cifra pari a quella dell'Unione Europea. La sfida su questa filiera, nella quale si sono spostate le vecchie Tigri asiatiche, non è per l'oggi. La relativa stabilità della struttura per prodotti delle esportazioni ordinarie cinesi (fuori assemblaggio) indica, infatti, una diffusione molto lenta delle tecnologie utilizzate per le industrie dell'assemblaggio. II segmento industriale "ordinario" resta, infatti, dominato da abbigliamento, prodotti chimici e agricoli, mentre i prodotti elettromeccanici non superano il 15% del totale. Ma è solo questione di tempo.
Vale la conclusione dell'americano Wayne Angeli, membro del direttivo della Federal Reserve tra il 1986 e il 1994: quando dopo gli anni del cambio fisso dello yen con il dollaro "si cominciò a capire che il Giappone guadagnava troppo, che esportava a go go, gli economisti tirarono fuori la soluzione: ridurre la quantità di yen per comprare un dollaro. Ma questo non fermò l'efficienza della produzione giapponese14". In sostanza, il tipo di "sindrome cinese" in cui vivono le economie d'Occidente, e in particolare quella americana, nasconde un motivo poco onorevole che Stephen Roach, acuto economista di Morgan Stanley, ha sintetizzato così: "II rifiuto di accettare la responsabilità dei propri errori facendo della Cina un capro espiatorio della debolezza delle loro economie"15.
 

MONDO CINESE N. 116, LUGLIO-SETTEMBRE 2003

Note

1 "Export, la Cina dilaga nella Ue", II Sole 24 ore, 19 settembre 2003. 
2 "L'Apec resiste aux pressione américaines sur la flexibilité des taux", Agenzia France Press, Paris, 5 settembre 2003.
3 "China Holds Back from Concessions to Snow", Financial Times, 4 settembre 2003. 
4 H. Koehler, "Transcript of the Briefing with the Press", 12 settembre 2003, Washington DC sul sito www.img.org/ external/hp/tr/2003/tr030912.htm (non più disponibile) 
5 "World Economic Outlook" settembre 2003, Washington DC.  
6 Fred Bergsten, "The Correction of the Dollar and Foreign Intervention in the Currency Markets", testimonianza davanti al Committe on Small Business, Uniteci States House of Representatives, giugno 2003, Washington DC. 
7 P. Wonacott e J. Areddy, "Hope of Revaluation Drives Yuan Demand", The Wall Street Journal, 29 agosto 2003.
8 N. Lardy e M. Goldstein, "Two Stage Currency Reform for China", Asian Wall Street Journal, 12 settembre 2003. 
9 "World Economic Outlook", op. cit.
10 M. Noland, "Competitive Devaluations", paper per la conferenza su "China's Integration into the World Economy", 17 gennaio 1998, Harvard, sul sito www.iie.com 
11 H. Restall, "China Gets Caught in a Perfect Political Storm", The WaII Street Journal, 19 settembre 2003. 
12 F. Ng e A. Yeats, "Major Trends in East Asia", World Bank, 18 giugno 2003, Washington DC. 
13 F. Lemoine e D. Onal-Kesenci, "Les industries extraverties en Chine: sources de dépendance ou de rattrapage technologique?" La Lettre du Cepii, n. 213, Parigi, giugno 2002. 
14 W. Angell, "The Siren Song of Yuan Revaluation", The Wall Street Journal, 14 agosto 2003.  
15 A. Herenstein, "Pousser la Chine à faire flotter le yuan: inutile et dangereux", Agenzia France Press, Parigi, 5 settembre 2003. 

 

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