tuttocina tuttocina
Google Web https://www.tuttocina.it
INDICE>MONDO CINESE>LA CINA A VENEZIA - 2003

RAPPORTI

La Cina a Venezia - 2003

di Corrado Neri

AIla Mostra del Cinema di Venezia, tenutasi dal 27/08 al 07/09/03, sono stati presentati quattro film cinesi, di cui due in concorso, uno nella sezione Settimana della Critica, l'ultimo nei Nuovi Territori.
La pellicola più interessante è certamente l'ultima opera di Tsai Mingliang, Goodbye Dragon Inn (Bu san, 2003). Si tratta di un omaggio non più (non solo) al cinema-cinematografo (come la sua opera precedente, Che ora è laggiù?/Ni nabien ji dian, 2001), ma al cinema come luogo sociale ed estetico, alla maniera, mutatis mutandis, di Nuovo Cinema Paradiso (Tornatore, 1988). Bu San, infatti, ha un unico, vero attore, ovvero la sala stessa, luogo dove si agitano corpi e fantasmi, presenze ad assenze, desideri e rimpianti. In una giornata piovosa (l'acqua è topos ricorrente e dai molti significati in Tsai) nel cinema Fuhe si proietta Dragon Inn (Long men ke zhan, 1966) del maestro King Hu. Si stabilisce un dialogo tra le atmosfere rarefatte della sala e quelle emozionanti e spettacolari della vecchia pellicola. Riprese lunghissime ed intransigenti piani sequenza con mdp fissa raccontano la vita della sala e dei suoi abitanti: nei corridoi e nei bagni figure solitarie si scrutano, si seguono, si abbordano. La cassiera cerca il suo collega, che non trova: l'unico segno di lui è una sigaretta accesa sul tavolo della cabina di proiezione. Anziani attori (Miao Tian e Shih Chun) si guardano sullo schermo ai tempi del loro debutto, in un nostalgico cortocircuito metafilmico. Tsai compone uno dei suoi più inquietanti controcampi: la mdp riprende la sala deserta, alla fine dello spettacolo, mentre la cassiera claudicante la percorre da un capo all'altro, per poi scomparire fuori campo. La telecamera resta imperterrita sul locale vuoto, frontale, nudo, che diventa così controcampo della sala dove lo spettatore è seduto, come a voler suggerire il carattere sepolcrale di tutte le rappresentazioni e di tutte le sale cinematografiche. Non si deve, però, concludere che Tsai non lasci possibilità al cinema. Decretando la morte della memoria filmica, l'essenza spettrale degli spettatori, e lamentando liricamente la fine delle sale tradizionali (sostituite da anonime multisale), compone anche un film/necrologio di eccezionale rigore, percorso da aspro umorismo. II suo omaggio toccante al cinema del passato, alla cultura cinematografica fatta di film ma anche di pomeriggi al cinema, di personaggi/attori ma anche di eroi e sogni infantili, è un capitolo ulteriore della sua personale creazione e prezioso gioiello della produzione taiwanese, sempre più consapevole e sempre più artistica, con un atteggiamento intransigente che non si arrende nel produrre cinema puro, lontano da ogni pressione commerciale o da ogni concessione allo spettatore.
L'altro film cinese in concorso è Floating Landscape (Lian zhi fengguang), un cupo melodramma firmato da Carol Lai Miu Suet e prodotto da Stanley Kwan. Si tratta d'una storia tristemente aneddotica, di estrema piaggeria nei confronti tanto del governo/sistema produttivo cinese quanto del pubblico occidentale. La bella Maan (Karen Lam Ka Yan), giovane hongkonghese, si reca a Qingtao, città del freddo nord della Cina popolare. Come si viene a sapere attraverso flashback tinti di colori flou e musicati da struggenti ballate, il suo ragazzo, Sam (il divo cantonese Ekin Cheung, già in Stormriders) è morto poco tempo prima. II giovane era un pittore, ricordava ossessivamente un paesaggio, che dipingeva senza sosta. Si trattava forse di un panorama della sua infanzia lontana, passata appunto a Qingtao. La ragazza aiuta la zia nella sua boutique di parrucchiera, e nel frattempo cerca senza sosta questo misterioso luogo. Non tarda ad arrivare un bel postino (Liu Ye, già protagonista di Lan yu di Stanley Kwan, Purple Butterfly di Lou Ye e Balzac e la piccola sarta di Dai Siiie), postino del villaggio, che si innamora della ragazza e le fa una corte tranquilla, costante, tenera, paziente, fedele. AI punto da aiutarla a ritrovare infine questo paesaggio misterioso, celebrarne il segreto, elaborare il lutto per la perdita, e vederla sorridere sulle note di una canzone d'amore in francese. I titoli di coda lasciano immaginare che l'idillio a lungo rimandato si consumerà infine.
Floating anela ad essere un prodotto popolare di grande richiamo: gli attori sono tutte star emergenti, perfettamente equilibrate tra Hong Kong e Cina. Tutti i flou e i ralenti sono al posto giusto, così come le musiche e le illustrazioni del celebre pittore taiwanese Jimmy Liao (si veda www.jimmyspa.com) che chiudono la fiaba. Ma è tutto troppo liscio e curato e fondamentalmente falso per poter attrarre l'attenzione. Anche l'obbligatoria lettura allegorico/jamensoniana è tanto immediata quanto logora: la gioventù cinese (l'innocente ed inconsolabile protagonista, cantonese di nascita ma che parla perfettamente il mandarino) deve elaborare il lutto per Hong Kong (fidanzato morto), tempo colorato ma perduto ormai, per far entrare la nuova realtà (il giovane caparbio postino cinese), teneramente amorosa anch'essa e, in fondo, nient'affatto male.
Di segno contrario sono gli altri due film presenti alla mostra, intensamente cinesi. Breaking the Willow (Fengguan qingshi), nella sezione Nuovi Territori, diretto da Yun Fan (Peony Pavillion/Youyvan jingmeng, 2001) è un rigorosissimo documentario sul teatro kunqu, genere operistico risalente a 400 anni or sono. La capitale del kunqu è Suzhou, la città dei giardini, che il regista filma nei suoi aspetti più piovosi e prosaici (traffico, grigiore, rumore). Yun Fan intervista la grande diva ultracinquantenne Zhang Jiqing, interprete di più di quattromila opere kunqu, nell'intimità della sua dimora, in vesti borghesi. Queste sono certamente le parti più interessanti del documentario, quando la signora si trasfigura letteralmente e, tra le stoviglie della sua modesta casa, gorgheggia, canta e soprattutto spiega allo spettatore le sfumature di senso delle diverse posizioni, trucchi e gesti della sua arte. L'attrice siede accanto al suo partner sulla scena, dialoga con lui ricostruendo i movimenti psicologici dei personaggi, facendo nascere dal nulla, sotto gli occhi di una telecamera che non imbellisce né aggiunge, l'opera maestosa che sarà messa in scena. In queste sequenze il regista non taglia, lascia che il tempo scorra lento e che il canto, il gesto, l'armonia sgorghino dallo sforzo apparentemente naturale di grandi professionisti che hanno forgiato la loro dizione, i loro movimenti, i loro sguardi attraverso anni di disciplina. Questa intensità è mantenuta nelle scene in cui Zhang insegna ad un'allieva; allora il contrasto tra la grazia solenne dell'anziana professoressa e la goffa partecipazione della giovane apprendista risalta in tutto il suo significato. Yun Fan decide poi di riprendere nella loro integrità due atti interi di opere, in un teatro senza scene. Si tratta d'una scelta filologicamente corretta, che dimostra e rivendica la caparbietà di un'arte intransigente che non vuole scendere a patti con la modernità, ma conserva intatta la sua purezza originale, ove l'arte nasce unicamente dall'esercizio e dalla disciplina. Questo approccio può ricordare, fatte le debite proporzioni, quello di Louis Malle per Vanya sulla 42° strada (Vanya on the 42nd Street, 1994): il regista francese riprende le prove dello spettacolo, con ampio uso di primi piani, rivelando un aspetto del teatro solitamente invisibile allo spettatore, perché troppo lontano; si illumina così il volto, la mano, l'espressione più discreta dell'attore. Eppure, al termine della proiezione si rimpiange che il regista non abbia dato più spazio alle interviste ed alle parti dedicate alla vita quotidiana della troupe, agli esercizi, alle prove, ai dialoghi tra attori. Mentre, infatti, sequenze come queste illuminano lo spettatore sui retroscena della creazione di un'arte misteriosa, complessa e stratificata come può esserlo un'opera kunqu, le sequenze di teatro filmato restano inerti sullo schermo, lunghi brani documentari/archeologici, nostalgici pezzi di tempo passato che perdono buona parte del loro senso riportati senza mediazioni sulla pellicola. Materiale, insomma, per uno studio filologico o per un appassionato duro e puro dell'opera tradizionale, ma irrilevanti dal punto di vista del cinema.
Infine, la sezione Settimana della Critica (opere prime) presenta 15 (Royston Tan). È un film di Singapore, ambientato perlopiù tra la gioventù cinese, che parla mandarino (benché sporchissimo, denso di prestiti anglofoni e gergo locale). Si tratta di una pellicola discontinua, disordinata, anarchica. II regista segue la vita quotidiana di una serie di ragazzini tra giochi elettronici, scontri tra bande, karaoke. La fotografia è sovraesposta, il montaggio apoplettico, numerosi brani musicali danzati parodiano MTV rivelandone nello stesso tempo la forte influenza sulla vita giovanile di Singapore. Storia sfilacciata, che non esiste, ma che prende forma attorno a questi corpi giovanissimi, mentre il ritmo della regia si smorza, concedendo agli adolescenti delle zone di quiete struggenti ed inattese: una lunga, sporca ripresa fissa sul volto in lacrime di un aspirante suicida, un dialogo crudele con il padre fuori campo, un ragazzo in un bagno pubblico che si mutila con un cutter... poi Tan vira decisamente verso il realismo più crudele, mostrando una serie di scene di agghiacciante realismo, modellate sulla vera vita dei protagonisti e, come risultò dalla conferenza stampa, tutte riprese dal vivo senza trucchi. II film è anche tenero: il sotteso omosessuale è patente: i due ragazzini si abbracciano prima di dormire, si misurano gli attributi, mimano orgasmi cori una bambola gonfiabile tra di loro. La sequenza più violenta e tenera mostra uno dei due che fa all'altro un piercing sul labbro. Poi il ragazzo piange, insanguinato, ed il suo compagno gli succhia via il sangue, senza dire nulla. II regista elude il melodramma: tutto è sempre scandito da "sane dosi di ultraviolenza" (come recita la voce narrante di Arancia Meccanica/A Clockwork Orange, Kubrick, 1971), rappresentazioni di furia urbana mescolata all'anarchia dell'estetica dei videoclip ed al ritmo selvaggio dei videogiochi.
Estetizzante, nichilista ed anarchico, 15 è comunque un film sincero e spregiudicato, di sicura presa sui giovani e che probabilmente avrà difficoltà ad essere distribuito in patria per le sequenze esplicite di sesso e violenza.

 

 

MONDO CINESE N. 116, LUGLIO-SETTEMBRE 2003

 

CENTRORIENTE - P. IVA 07908170017
Copyright Centroriente 1999-2024