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POLITICA INTENAZIONALE

La politica estera cinese tra continuità e segnali di svolta

di Lina Tamburrino

1. Prima e dopo l’Iraq

“Non ci saranno cambiamenti nella nostra politica estera” ha garantito Hu Jintao, nuovo presidente della Repubblica popolare cinese, al capo laotiano Khamtay Siphandone in visita ufficiale a Pechino nel giugno scorso1 . Se intendeva dire che la diplomazia del suo paese continuerà a muoversi all’interno della cornice dei princìpi della coesistenza pacifica, che risalgono a Zhou Enlai, Hu aveva naturalmente ragione. È vero però che la politica estera cinese, e non solo per l’accelerazione data dal presidente americano George W. Bush alle dinamiche mondiali, sta vivendo una fase di aggiustamenti con correzioni, nuove sfumature, enfasi diversa su questo o quei protagonista della scena internazionale (e regionale). Non siamo certamente a una presa di distanza clamorosa dalla strategia di Jiang Zemin, cosa del resto improbabile: l’ex segretario del Pcc e ex capo di stato è tuttora un componente importante del gruppo dirigente; in questa fase la Cina non ha alcun interesse a dissipare il clima di ritrovata amicizia con gli Usa, che proprio Jiang Zemin ha in maniera decisiva contribuito a forgiare. Eppure novità ci sono. Inevitabili del resto, dal momento che, grazie alla guerra anglo-americana in Iraq, strumenti, regole, certezze, organismi del sistema internazionale sono andati in crisi. E tutti i paesi che contano sulla scena mondiale sono impegnati a trovare risposte per interrogativi che spaziano dalla filosofia alla geopolitica, dalle nuove strategie militari al ruolo di un’organizzazione come I’Onu, dal deperimento di vecchi rapporti di amicizia e di alleanza alla possibile nascita di nuove coalizioni. Il tutto dominato da un interrogativo supremo: ma che cosa vogliono veramente gli Stati Uniti?

La Cina non poteva sottrarsi dal partecipare a questa messa in discussione di tutto e tutti. Lo ha fatto scegliendo però un ruolo non da protagonista ma piuttosto da paese che pragmaticamente tenta di individuare le linee di condotta più adatte a salvaguardare i propri interessi. Anche mettendo in conto qualche cambio di rotta nel proprio procedere.

All’indomani dell’11 settembre del 2001 Jiang Zemin era stato tra i primi a esprimere solidarietà al presidente americano e a schierarsi con gli Usa nel fronte antiterrorismo. In quella occasione, i cinesi accettarono le decisioni dell’Onu sulle iniziative per cacciare i taliban dall’Afghanistan, furono tra i primi a mandare aiuti umanitari a Kabul e tra i primi a ricevere Hamid Karzai a Pechino. Oggi nei commenti ufficiali, I’11 settembre viene definito un ‘pretesto’, una ‘scusa’ di cui Bush e i falchi del Pentagono si sono serviti per dare sostanza alla strategia della guerra preventiva e poi per attaccare l’Iraq2 . Non è che, così giudicando, la Cina abbia allentato il suo impegno antiterrorista. Solo, non crede che possano esistere Stati ‘terroristi’ da attaccare, o che il ‘terrorismo’ sia la nuova categoria universale da usare per comprendere quanto sta succedendo nei rapporti tra le varie parti del mondo. Crede invece in situazioni ben concretamente determinate, alla distruttiva e paralizzante violenza in Medio Oriente ma anche al separatismo che minaccia il Tibet oppure alla guerra indipendentista in Cecenia, tutte situazioni da affrontare per così dire caso per caso possibilmente con le armi della diplomazia. C’è dunque una percezione diversa del fenomeno terroristico a dividere Cina e Stati Uniti e a portare, di conseguenza, la prima a non accettare le decisioni dei secondi a proposito dell’Iraq. Pechino si è battuta per il prolungamento delle ispezioni Onu impegnate nella ricerca delle armi di distruzione di massa in terra irachena e si è battuta contro la richiesta americana di una ‘seconda risoluzione’ che offrisse la copertura dell’Onu alla guerra. Non ha scelto però la strada del protagonismo pacifista anti Bush imboccata, invece, dalla Francia, dalla Germania, dalla Russia, né ha mai annunciato il ricorso al diritto di veto, anche perché sarebbe stato più che sufficiente quello della Francia o della Russia. Pechino ha seguito un ‘dissenso defilato’, di basso profilo. Nella capitale cinese non c’è stato segno di manifestazioni pacifiste quali si sono avute in tanti paesi dell’Occidente e se è vero che in Cina non è affatto facile organizzare raduni pubblici di massa è altrettanto vero che se il governo fosse stato d’accordo sarebbe arrivato alla popolazione o agli strati più politicizzati (gli studenti, ad esempio) un messaggio di tolleranza verso qualche loro iniziativa. Non è successo. Ma la guerra in Iraq ha colpito profondamente le due convinzioni strategiche sulle quali si basa la politica estera cinese: I’insostituibilità del ruolo dell’Onu nel governo degli affari mondiali e l’indispensabilità di un mondo multipolare. La Cina ne ha preso atto e sta agendo di conseguenza. È questa la vera novità del dopo Iraq rispetto al dopo 11 settembre, novità dalla quale si dipartono gli aggiustamenti di cui si parlava all’inizio di questo articolo.

2. II primo viaggio di Hu Jintao

Poco dopo il suo insediamento alla testa della repubblica, Hu Jintao ha compiuto la mossa classica della diplomazia cinese intraprendendo il 27 maggio il viaggio che lo ha portato prima a Mosca da Putin e poi al ‘dialogo informale Nord Sud’ (come lo ha definito la stampa cinese) di Evian dove, su invito del presidente francese Chirac, il 1 giugno e cioè alla vigilia del vertice del G8, i rappresentanti dei paesi in via di sviluppo hanno discusso di aiuti, fame, malattie endemiche da debellare. È sorprendente e istruttiva la differenza notevole nel rilievo che la stampa cinese ha dato ai due avvenimenti3 . L’incontro con il presidente russo è stato particolarmente fruttuoso. Sul fronte economico si è finalmente deciso di avviare i lavori per l’oleodotto Angarsk-Daqing che nel 2010 porterà in Cina 20 milioni di tonnellate di petrolio russo. Sul fronte politico Putin e Hu hanno firmato una dichiarazione comune che suona come una implicita presa di distanza dalla politica e dalla dottrina di Bush. I due statisti hanno espresso l’impegno a sostenersi reciprocamente nella difesa dell’unificazione nazionale, dell’indipendenza sovrana e dell’integrità territoriale’. Difficile non vedere in queste frasi dall’apparenza generica un riferimento ai problemi di sovranità territoriale aperti in Russia con la guerra cecena e in Cina con l’ancora irrisolta questione taiwanese e con il ciclico irredentismo di frange della popolazione tibetana. Non ché un avvertimento a quanti pensassero dall’esterno di interferire.

Ma ancora più sostanzioso è il ruolo istituzionale confermato alla Shanghai Cooperation Organization (Sco) come strumento di stabilità e sicurezza regionale e quindi come sede per la prevenzione (per via politica o per via di intelligence) delle minacce terroristiche4 . Anche questo secondo impegno è una implicita presa di distanza dalla visione puramente militarista della lotta al terrorismo sostenuta dal presidente americano. II vertice di Mosca ha detto dunque che la relazione tra i due paesi - peraltro già avviata da tempo proprio da Jiang Zemin - si consolida e diventa ora una carta importante da giocare contro I’unilateralismo americano.

A Evian un Hu un poco a disagio e abbastanza isolato - almeno stando alle immagini trasmesse dalle televisioni internazionali - ha avuto un breve incontro con il presidente americano, avvenimento al quale è stato dato in Cina un rilievo minore, considerato quasi di routine. In effetti ci si è limitati a ripetere affermazioni sul ruolo della Cina e degli Usa per la pace mondiale assolutamente prevedibili: non c’erano infatti dissensi come con la Francia o la Germania da riassorbire e nemmeno nuovo consensi da forgiare. A Hu premeva ricordare a Bush che Taiwan è parte della Cina e il presidente americano non ha fatto obiezioni. Singolare è apparsa la reazione cinese all’invito al ‘dialogo informale’. C’è stata naturalmente soddisfazione per il riconoscimento del peso della Cina e per il fatto che fosse un esponente della ‘quarta generazione’ a presentarsi per la prima volta su un palcoscenico mondiale così appariscente. Però si è letta una certa tiepidezza nei confronti della possibilità di un ingresso formale a breve termine della Cina nel G8. Almeno per due ragioni: la Cina perderebbe il suo status di paese in via di sviluppo con tutti i vantaggi che al momento ne derivano; la Cina non ha un interesse spasmodico a entrare in un organismo dominato e svilito dagli Usa, espressione di un mondo ‘unipolare’, quello dei ricchi, senza poteri nella gestione delle relazioni internazionali. E meno che mai lo vede come un’alternativa a un Onu in difficoltà. La prima missione estera di Hu Jintao ha comunque mandato un messaggio chiaro: la fase della politica estera cinese ispirata al principio ‘l’America prima di tutti’ è chiusa o almeno viene meno enfatizzata. E ora? Già ai primi di gennaio quando la guerra in Iraq ancora non era scoppiata c’erano in Cina studiosi di relazioni internazionali che fornivano una lettura abbastanza delusa della situazione che si veniva profilando5 . Per la nascita di un mondo multipolare i candidati a formare l’altro o gli altri poli venivano individuati naturalmente nella Russia, l’Unione europea, la Cina. Ma si ammetteva che era una prospettiva del tutto ipotetica. Si prendeva atto infatti che nessuno dei tre candidati ha l’interesse a privilegiare i rapporti con gli altri due a scapito di quelli con gli Stati Uniti e meno che mai ha la forza o la volontà di sfidare la supremazia economica e militare americana. Inevitabile la scoraggiata conclusione: ‘è ancora molto lungo il cammino da percorrere prima di arrivare a un mondo multipolare’. Dall’interno del fronte cosiddetto nazionalista si sono levate voci con l’invito a rompere ogni legame con gli Usa, concentrare l’attenzione sull’Asia, allearsi con la Russia e l’Europa6 . Ma non pare che una strategia del genere - abbastanza semplicistica e orientata nei fatti verso un nuovo bipolarismo - possa avere un ragionevole tasso di realismo. Per quanto siano stati brillanti i risultati del vertice con Hu Jintao, la Russia non sembra così convinta di pendere solo dalla parte asiatica; caso mai vuole essere un punto di bilanciamento tra Asia e Europa, trova vitale per i suoi interessi economici e politici una sua proiezione verso l’Unione europea e un più saldo inserimento nella Nato, degli Usa vuole essere un forte partner non un antagonista. A sua volta l’Unione europea è divisa proprio sul rapporto con gli Stati Uniti e si vede costretta anche per questo motivo a interrogarsi su se stessa, sulla propria identità, sulla propria collocazione nel nuovo futuro assetto mondiale. Ma si dividerebbe ancora di più un’Europa che ritenesse di trovare risposte ai propri interrogativi imboccando la via dei l"orientalizzazione’. Più realisticamente la Cina ha sempre mostrato interesse a dialogare con un’Europa che sia la più unita possibile, in economia come in politica.

In realtà la Cina sta ora dedicando sforzi maggiori alla situazione regionale. E almeno per due ragioni: per cogliere le occasioni che stanno maturando copiose sul fronte economico; perché stanno acquistando più consistenza questioni che per essere risolte richiedono da parte cinese un più diretto impegno, un ruolo da protagonista, una capacità di iniziative regionali e di vigilanza che non era così necessaria e stringente ai tempi di Jiang Zemin. L’emersione del problema nucleare nordcoreano coinvolge la Cina non solo per i vecchi rapporti di amicizia con quel sistema comunista ma anche perché costituisce una minaccia per la sicurezza cinese e un rischio di destabilizzazione di quella parte dell’area. La Cina dunque non può - come pure ha tentato in una prima fase - tirarsi da parte e si è vista chiamata dagli sviluppi della situazione a svolgere un attivo ruolo politico-diplomatico a diretto contatto con gli Stati Uniti. I nuovi sussulti indipendentisti taiwanesi riaprono tensioni tra i due lati dello stretto7 e dopo una lunga fase di stallo ripropongono il problema di quale possa essere la strategia vincente per raggiungere un’intesa e riaprire canali di dialogo. Come già aveva fatto Jiang Zemin, è ora Hu Jintao in prima persona a scrutare le mosse di Taipei8 . Infine anche questa volta, come già nel 1991, la conclusione della guerra in Iraq sta spingendo la Cina a interrogarsi sulle debolezze dei propri dispositivi militari. Si è preso atto che la guerra è stata combattuta manovrando per vie telematiche strumenti di estrema sofisticazione. Nel confronto, l’apparato cinese si è sentito ancora più vecchio e vulnerabile e Hu Jintao, in una riunione dell’Ufficio politico del Pcc, ha posto all’ordine del giorno il tema di un nuovo balzo in avanti della modernizzazione delle forze armate del paese. L’Asia è una polveriera9 ha scritto ‘ll Quotidiano del popolo’. E certamente il nuovo panorama, anche alla luce della politica asiatica americana, non spinge in direzione di un miglioramento delle relazioni con gli Stati Uniti. Più probabile il contrario. Per un paradosso, è dall’interno dell’Asia che viene una smentita alla grande aspirazione di Jiang Zemin convinto - come aveva detto a Bush nell’incontro di Pechino del febbraio del 2002 - che le relazioni tra Cina e Usa fossero indispensabili per ‘la pace nel mondo e il progresso della civiltà umana’.

3. Un nuovo impero commerciale

Mentre l’Unione europea e gli Stati Uniti sono distratti dal Medio Oriente, silenziosamente la Cina sta costruendo in Asia un nuovo impero commerciale, ha scritto la Far Eastern Economic Review citando gli accordi economici che Pechino ha siglato o si appresta a siglare con i paesi vicini, il più importante dei quali è certamente quello raggiunto con I’Asean per la formazione entro il 2010 di una area comune di libero scambio10 . I dati ufficiali cinesi dicono che nel 2002 le importazioni della Cina dai paesi Asean sono aumentate del 34,4 per cento e le esportazioni del 28,3 per cento. In questa area il renminbi, per quanto solo in parte convertibile, è già una valuta largamente utilizzata. E non è escluso che in un futuro non lontano possa diventare la moneta guida di un’Asia pronta a imboccare, su iniziativa della Cina, un percorso simile a quello dell’Europa che, partita da progetti di integrazione economica, ha compiuto i passi verso l’unificazione politica. Ma, come si è visto, non c’è solo l’economia: il dinamismo diplomatico cinese che non è una novità sta dedicando un’attenzione crescente ai temi della sicurezza, ormai sempre presenti nell’agenda degli incontri che la nuova dirigenza sta avendo in Asia.

Ad aprile il primo ministro Wen Jiabao ha incontrato il primo ministro giapponese e, alla luce delle storiche difficili relazioni tra i due paesi, non si può dire sia stato un incontro di routine. Anzi anche in quella sede si è parlato apertamente di una interdipendenza tra i due paesi che non si limiti all’economia ma affronti il tema della sicurezza e della crisi delle relazioni internazionali. II Giappone è saldamente inserito nelle rete degli accordi militari degli Stati Uniti e perciò è stato sempre criticato dalla Cina. Ben si comprende dunque la novità dirompente dei contenuti di questo contatto tra i due primi ministri. Altri passi e altre iniziative stanno dando forma a una nuova scacchiera regionale.

Per la prima volta dal 1988 un primo ministro indiano si è recato a Pechino a fine giugno per incontrare il primo ministro cinese e firmare una serie di accordi di cooperazione economica e culturale. Cina e India hanno finalmente convenuto che la prima riconoscerà formalmente la sovranità indiana sul Sikkim, ex territorio cinese, e la seconda, in cambio, accetterà formalmente che Taiwan è parte della Cina. Pechino ha commentato con favore il viaggio del presidente pakistano a Mosca (il primo di un capo di stato da trenta anni a questa parte) perché rappresenta, anche se per vie traverse, un rafforzamento della propria amicizia con la Russia e perché a Mosca anche i pakistani si sono impegnati a iniziative bilateriali comuni per la sicurezza e contro il terrorismo.

Molte delle iniziative fin qui citate sono delle semplici mosse diplomatiche che possono anche non avere nessun effetto di sostanza. Sono però la spia della preoccupazione cinese di costruire una nuova grande muraglia difensiva a protezione della sicurezza del paese, fatta questa volta non di pietre o di forti, ma di accordi e di scambi con i paesi che circondano tutta intera la Cina.
 

MONDO CINESE N. 115, APRILE-GIUGNO 2003


Note

1  "New Leadership Continues Former Diplomatic Policies", People’s Daily on line, 13.6.2003.
2  Zhou Bian, "Does the Iraq War Anticipate a Change in World Order?", Beijing Review, n.17, 24.4.2003; "Oil and Votes, Two factors Fueling the War: Analysis", People’s Daily on line, 26.3.2003.
3  Sotto il titolo "China and Russia, Good Neighbors", il numero 23 di Beijing Review ha dedicato alla visita di Hu a Mosca sei pagine. All’incontro con Bush il numero 24 della stessa rivista ha fatto solo un accenno nel primo dei due articoli dedicati al G8: "Rich Country Club Courts China".
4  La Shanghai Cooperation Organisation, nata su iniziativa di Jiang Zemin per controbilanciare il peso degli Usa nell’area, è formata, oltre che da Russia e Cina, da Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Usbekistan. Durante la visita di Hu Jintao a Mosca, primo segretario è stato nominato Zhang Deguang, ex ambasciatore in Russia.
5  Liu Hongchao, "Three Maior Roles in the Global Arena", Beijing Review, n. 3, 16.1.2003; Willy Wo-Lap Lam, "China’s Media Slams Us ‘Arrogance’ In Iraq", CNN on line, 25.1.2003.
6  Ivi
7  Alcune recenti mosse hanno particolarmente irritato e preoccupato i cinesi quali, tra le altre, la richiesta taiwanese, respinta, di diventare membro della Organizzazione mondiale della sanità e il progetto, per ora accantonato, di stampare sulla copertina del passaporto ‘emesso in Taiwan’. Si veda a tal proposito la collezione di giugno del Taipei Times, il quotidiano taiwanese on line in lingua inglese.
8  Si veda la nota precedente.
9  "Iraq War Reshapes Military Landscape: News Analysis", People’s Daily on line, 29.4.2003.
10  Michael Vatikiotis e David Murphy, "Birth of a Trading Empire", Far Eastem Economic Review, 20.3.2003.

 

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