Lo scorso marzo la medievale Sala Gatti di Viterbo ha ospitato una collettiva di arte cinese contemporanea realizzata con foto, video ed un’installazione fotografica, incentrata sulla rappresentazione del Tempo associato all’immagine dell’universo femminile ed alla cadenza ciclica dei suoi ritmi.
Realizzata sotto la direzione artistica di officina, una società con sede a Pechino che cura scambi culturali tra l’Italia, la Cina ed altri paesi europei ed inserita in un evento generale dedicato alla donna1 , la mostra riassume nel titolo guangYIN, che vuol dire Tempo, ma è parola formata dai caratteri guang (luce) e yin (ombra) il senso di un divenire inteso come successione alternata di luce ed ombra, giorno e notte.
Combinando la produzione di artisti emergenti come Cui Xiuwen, Wang Ning, Han Lei, Chen Lingyang a quella di altri come Yin Xiuzhen ed Hai Bo già noti presso il pubblico e la critica per aver preso parte ad importanti rassegne internazionali, la mostra schiude un itinerario visuale e psicologico le cui immagini, contrassegnate da forti toni chiaroscurali ed illuminate ad arte in un ambiente scuro, descrivono sia nella forma che nei contenuti il rapporto incrociato del chiasmo tra luce ed ombra. II tempo è il comune denominatore di queste opere che sono frutto di eterogenee individualità artistiche, realizzate con linguaggi espressivi diversi ma contigui allorché si riportano tutti - anche i video - alla matrice fotografica; un genere che si presta più di altri a cogliere l’attimo del fluire temporale.
All’ingresso della mostra, si libra improvvisa - nel riquadro scuro dello sfondo di un grande monitor al plasma collocato a mezz’aria nel buio dello spazio espositivo - l’immagine leggera di un corpo avvolto in un bendaggio di carta: scorre il video Toot (3’30’’, 2001) al ritmo in crescendo di un antico motivo musicale, il quale, cedendo all’effetto dissolvente dell’acqua che lo bagna si libera, svelando un corpo di donna. Delicata apostrofe sul concetto di scarcerazione del corpo, a livello fisico e psicologico, l’opera registra l’impalpabile essenza del divenire attraverso un processo di crescita interiore. Ricorrente, nella produzione di Cui Xiuwen, video artista e pittrice, l’incursione nelle pieghe di momenti "privati" del mondo femminile, indagati attraverso l’occhio della video-camera. Qui l’acqua funge da agente liberatorio e trasformatore che, nell’eterno fluire, provoca una metamorfosi: si compie un’alchimia per mezzo della quale essa si fonde col velo di carta e questo col corpo umano: tre elementi dalla natura morbida e duttile. Nel frattempo, l’aria di sottofondo2 - sfruttando le potenzialità del pipa, strumento a corde simile alla chitarra - consegna all’orecchio il senso del movimento di impetuosi eserciti impiegati in battaglia.
Malgrado la loro diversità, anche le altre opere in mostra rappresentano essenzialmente un "tempo della coscienza", una dimensione privata. Quadri che si aprono sull’abisso del tempo, le fotografie di Hai Bo, noto per aver partecipato nel 2001 alla 49° edizione della Biennale di Venezia, nascono dall’urgenza interiore di ricreare, nel presente, identici ritratti del passato, accostarli al loro originale, e consegnarli, nell’istante infinitesimale di uno scatto, all’eternità dell’arte (l’m Chairman Mao’s Red Guard, 2000 e Three Sisters della serie They, 1999). Oltre il tempo assoluto, ritratto nel suo incedere impietoso, si percepiscono in queste immagini - attraverso il confronto tra il prima e l’ora - i singoli momenti dell’esistenza, i frammenti relativi che ne segnalano l’inesorabile caducità. la dialettica tra provvisorio ed eterno si ripropone nella serie Dusk (1993-2002) -intimisti ritratti di corrispondenze tra persone e luoghi familiari esposti con questa mostra per la prima volta all’estero - dove l’ineluttabilità del divenire si compendia nell’ora crepuscolare, nell’istante che precede la fine. I vari momenti del processo di esplorazione antecedente la realizzazione dell’opera, la scoperta di vecchie foto significative, la ricerca delle persone che vi sono ritratte e la "ricomposizione" delle pose, rappresenta per l’artista un’esperienza importante, come se egli potesse - in questa maniera - rivivere un’esperienza già trascorsa e colloquiare con il passato.
Di Yin Xiuzhen viene presentata un’installazione del 1998 che porta il suo nome e presenta dieci paia di scarpe in stoffa in cui l’artista ha racchiuso altrettante foto che la ritraggono nel periodo dall’infanzia all’età adulta, corredate di scatole realizzate a mano sul cui coperchio sono state riprodotte le medesime foto. L’incontro con una forma artistica non cinese come l’installazione, verso la metà degli anni ‘90, ha fornito a Yin Xiuzhen nuove possibilità espressive, rappresentando un mezzo in cui far confluire i criteri di armonia spaziale e spirituale tradizionali ed adattabile al reimpiego di simboli cinesi3 . L’artista utilizza spesso oggetti "familiari" e comuni ed in quest’opera il percorso che si compie tra i ricordi - attraverso la rievocazione di varie fasi della propria esistenza di donna - è affidato alle tradizionali buxie (scarpe di stoffa), le uniche calzature indossate dalle donne cinesi nate negli anni ‘60 e cucite a mano. Contrariamente al solito, qui l’artista non ricicla scarpe di seconda mano (si veda ad es. Cemented Shoes, 1995), ma decide di cucirle ex novo, per ritrovare - come afferma la stessa artista - in compagnia della madre, il tempo di una personale esperienza passata e riappropriarsi della memoria. Questo lavoro di ago e filo con cui materiali diversi vengono legati insieme acquista così una valenza simbolica. Si nota infatti, nella scelta degli elementi che formano le installazioni di Yin Xiuzhen, una inclinazione all’equilibrio ed al contrasto, una tendenza ad abbinare forme sottili (corde) e solide (secchi), fragili (specchi) e dure (cemento)4 , in quanto, come lei stessa ha affermato, descrivendo un’altra opera: "cose rigide e morbide, freddo e caldo, ragione e sentimento formano combinazioni antitetiche che producono sensazioni ineffabili".5
Nel video 1201 la rappresentazione delle antitesi assume una dimensione iperbolica compresa tra chiasso e silenzio, tra il peso di gesti estremi affioranti dalle profondità della coscienza e la levità fugace di un sorriso di donna, quello di Wang Ning, la video-maker stessa. In apertura, si stagliano le rovine di un quartiere notturno di Pechino demolito di recente (marzo 2002) e sfila, in chiusura, un’inquadratura rallentata dei suoi locali, filmati un mese prima (febbraio 2002). In questa cornice, si dipana un racconto, una storia di incomunicabilità. Da un angolo di un locale del medesimo quartiere, una giovane donna - seduta ad un tavolo - si estranea seguendo il flusso dei suoi pensieri. L’intercalare di questo monologo interiore è fatto di immagini reiterate, memorie dolorose che si materializzano dal subconscio e vagano tra l’indifferente euforia dei presenti in sala. Ogni ritorno alla realtà stimola nuovi flashback della mente attraverso l’osservazione dei gesti e l’ascolto delle voci degli altri. I frammentari stati della coscienza si compenetrano dando luogo ad un amalgama in evoluzione. La messa a fuoco alternata di diverse dimensioni temporali ed il senso di crescente alienazione individuale vengono scanditi, durante l’intera durata del video (12’01’’), dal ticchettio di un orologio in sottofondo. La solitudine della donna nell’epilogo fa da controcanto alle macerie urbane dell’incipit. Le angolazioni plurime da cui muove l’osservazione risultano in una rappresentazione polifonica del divario tra tempo cronologico e tempo interiore, in senso bergsoniano, del volo della memoria che connette i frammenti dell’esistenza e li chiude in un cerchio, destinato a rifrantumarsi nell’istante successivo.
Risponde ad una scelta stilistica precisa, rintracciabile già nella serie di foto di paesaggio (Fictional Scenery 1999 e Fictional Chinese Landscape, 2001) la tecnica con cui Han Lei6 ritaglia immagini all’interno di sagome circolari. Nella serie di vecchi ritratti femminili (Fictional Portraits, 1999) in mostra, la luce indefinita dei volti tolti dal mondo reale e racchiusi nella perfezione senza tempo del cerchio con l’ausilio del computer, evoca un illusorio sentimento di eterno. Le figure specchiate entro le forme rotonde, allusioni al tempo che i cinesi, in virtù della sua natura ciclica, associano tradizionalmente al tondo, sembrano sospese in una dimensione onirica. Comunicano sentimenti profondi ma indistinti che appartengono al regno della memoria, riposti nelle pieghe del tempo, traccia di esistenze senza nome.
Intensa rappresentazione polifonica in cui simbolismi ed echi della tradizione si fondono con una tematica di dirompente realismo, 12 Flower Months della giovane Chen LingYang7 , segna secondo quanto afferma l’artista "una pietra miliare lungo il processo di sviluppo dell’arte cinese contemporanea" in quanto "rompe la tradizione, facendo uso della stessa"8 . La ciclicità dell’essere viene qui interpretata registrando un processo fisiologico, dove il corpo femminile diventa depositario dei meccanismi che regolano l’armonia con l’universo. II gruppo di dodici foto, ciascuna associata ad un mese dell’anno e quindi al periodo mestruale, riproducono l’organo genitale dell’artista in una cornice di multiple associazioni tra i fiori - diversi nelle varie stagioni - i piccoli specchi in cui il corpo si riflette e dai formati stessi delle fotografie che imitano quelli delle porte e delle finestre dell’architettura dei giardini tradizionali. Paradigma dell’affiliazione dell’uomo alla Natura, quest’opera ne segue i ritmi sin dalla sua genesi e nel corso, durato dodici mesi, della sua composizione. Nata dal vissuto stesso dell’artista, l’opera conserva nella rappresentazione del soggetto la maniera allusiva e la tendenza alla metafora propria della cultura tradizionale cinese. I medesimi toni nostalgici con cui i poeti antichi descrivevano la transitorietà delle cose, osservando fenomeni naturali come il movimento delle nuvole, il crepuscolo, i fiori che sbocciano, l’acqua che scorre, percorrono questa serie fotografica nella quale gli intensi cromatismi ed il ripetuto ossimoro compreso tra luci fioche ed ombre intense parafrasano le multiformi tinte della ritmica temporale.
MONDO CINESE N. 115, APRILE-GIUGNO
2003