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Far east film 5

di Corrado Neri

Per la quinta volta, il Far East Film Festival di Udine, tenutosi dal 24 aprile al primo maggio, si è dimostrato la più completa vetrina europea delle cinematografie dell’Asia, con particolare attenzione rivolta ai prodotti popolari. Tranne qualche eccezione, infatti, la scelta si è concentrata su opere che hanno riscosso successi lusinghieri nei rispettivi paesi, e che si configurano come un universo di profonda ricchezza in cui i generi (l’orrore e la commedia su tutti, e poi i film polizieschi ed i drammi sentimentali) vengono declinati nelle loro forme più diverse. Novità di quest’anno è stata l’introduzione nel programma di film classici, segnatamente una breve retrospettiva dedicata al cineasta giapponese di culto Ishii Teruo, ed una relativa alla cinematografia coreana degli anni sessanta.

II mondo cinese non è stato ignorato dalla selezione udinese, anche se quest’anno, a causa della Sars, non erano presenti ospiti provenienti da Cina, Hong Kong e Taiwan. È la cinematografia di Hong Kong (cui le prime edizioni del festival erano quasi integralmente dedicate) ad essere in particolare sotto i riflettori, nonché a riscuotere l’apprezzamento del pubblico, che ha attribuito a Infernal Affairs il premio di miglior film. Si tratta di un’opera che ha già ricevuto ampi consensi in patria (sono in preparazione un sequel ed un prequel). Le due star che si affrontano sullo schermo sono Andy Lau e Tony Leung, leggende multimediali che prestano le loro icone ad un noir tetro e pessimista, che reinventa il tema dello scontro tra bene e male sotto la luce di classici del cinema. II regista Andrew Lau (in collaborazione con Alan Mak), artefice di alcuni dei più importanti successi degli ultimi anni (Young and Dangerous, 1996 e Stormriders, 1998), costruisce un tesissimo thriller insolitamente parco di sparatorie, che ruota attorno ad un poliziotto infiltrato nella triade che si contrappone ad un mafioso infiltrato nella polizia. II film ruota attorno al tema del doppio e dello specchio; i protagonisti dubitano della loro identità prima ancora che della loro lealtà ad un più grande potere, quasi astratto. II film ha precedenti illustri: A Better Tomorrow (John Woo, 1986), di cui ricalca una scena alla lettera; e poi il celebre City on Fire, (Bingo Lam, 1987, rifatto da Tarantino con Le iene, 1992); ed infine Face/Off (John Woo, 1997). La critica implicita alla polizia, ed all’autorità in generale, è centrale in PTU di Johnny To. Laddove i precedenti film del regista (The Mission, 2000; Fulltime Killer, 2001...) erano rutilanti, ipercinetici, sopra le righe, PTU è scuro, notturno, lento, realista. Si assiste ad una sola sparatoria, finale, risolutiva. I film neri di Hong Kong diventano meno spettacolari ma più intrinsecamente cupi, pessimisti, senza quella valvola di sfogo spettacolare che era la gunfight coreografata ed adrenalinica. Qui, tutto accade in una notte. Un poliziotto (Lam Suet) viene pestato da una banda di teppisti e perde la sua pistola; mobilita quindi la sua squadra perché la trovino prima dell’alba. In PTU non c’è nessun giusto, nessun personaggio che sia spinto da motivazioni eroiche (o perlomeno: etiche), ma tutti agiscono per proteggere il proprio gruppo di appartenenza, per spirito di corpo, e non esitano di fronte alle peggiori infamie per non far perder faccia all’istituzione che rappresentano, sia essa la polizia o la triade. La pistola è un oggetto simbolico del potere e il tema della sua scomparsa ricorre significativamente in una serie di recenti film cinesi: Missing Gun (Lu Chuan, 2002), dove dà il via ad un’indagine rocambolesca, al limite tra il grottesco e il drammatico (à la Mo Yan) in un villaggio perduto nel sud della Cina rurale; oppure l’apocalittico The Runaway Pistol (Zou huo qiang, Lam Wan-chuen, 2002).

Come il noir, anche il genere horror viene rivisitato dai registi contemporanei. Una delle caratteristiche più evidenti degli horror hongkonghesi era la mescolanza dei generi: un caotico ed iconoclasta inseguirsi di scene di efferata violenza e siparietti comici, scatologia e violenza, illuminazioni poetiche e volgarità gratuite. II regista Soi Cheang vuole invertire questa tendenza, dirigendo un film che faccia paura, un horror "serio". Dopo Horror Hotline: Big Head Monster (presentato un anno fa), Soi firma New Blood: tre malcapitati donano il loro sangue per salvare una coppia di amanti suicidi. Lui sopravvive, in coma, lei no. E torna per vendicarsi di chi ha impedito il rituale suicidio d’amore. Tradizionalmente (come per esempio nel melodrammatico Visibile Secret 2, di Abe Wong, ugualmente a Udine), la donna fantasma torna per punire chi impedisce il suo amore, mentre qui l’invenzione dello sceneggiatore le rende inviso chi ha tentato di salvarle la vita. Questo diverso atteggiamento nei confronti della paura, che non è più possibile esorcizzare con una risata, viene forse da un mutato clima sociale e politico (è già in pre-produzione Sars, una "comedy drama" di Steve Cheng), ed in buona parte dall’influenza dei successi giapponesi di autori come Shimizu, Nakata, Kurosawa, Miike. Interstiziale tra horror e commedia è The Stewardess (Sam Leong, 2002) che pasticcia con i generi raccontando la storia semiseria del casanova Sam Lee invaghito di una hostess giapponese. La scena "d’amore" è girata come una scena di guerra in cui infine la Cina prende la sua rivincita sul Giappone. The Stewardess è stato ignorato dal pubblico locale, così come due commedie che trattano della crisi economica: il tetro Frugal Affairs (Derek Chiu, 2002) e Shark Busters (Hermann Yau, 2002, regista di storici film exploitation come la famigerata serie The Untold Story). La commedia romantica, genere privilegiato a Hong Kong, si declina ad Udine in due film, interpretati entrambi dalle Twins, coppia femminile di star della musica leggera. Summer Breeze of Love (Joe Ma, 2002) è un filmetto ad uso e (rapido) consumo degli adolescenti prepuberi fan del duetto, mentre Just One Look (Riley Ip, 2002) è un’opera leggera ma significativa, ricchissima di citazioni cinematografiche (da Wong Kar-wai a Zhang Che, da King Hu a Tsui Hark), parte di una corrente nostalgica che rievoca il passato: qui siamo negli anni settanta ed il film narra la crescita di un gruppo di adolescenti tra pulsioni amorose e passioni cinefile. II cinema di Hong Kong si conferma dunque in continua evoluzione: oltre ad essere fucina di storie, personaggi e forme, nonché macchina parodica (in senso bachtiniano) e postmoderna, si rivela anche conservatore del proprio patrimonio filmico. Testimone ne è l’iniziativa della Celestial Pictures, che sta restaurando i grandi classici della Shaw Brothers. Ottima scelta, dunque, quella di chiudere il festival con la riproposta di uno storico capolavoro del 1967 di Zhang Che, The One-Armed Swordsman, emblema dei wuxiapian sadomaso, fiammeggianti e iperbolici che fecero la gloria del cinema hongkonghese.

La selezione dei film provenienti dalla Cina popolare non è così rappresentativa. Non sono stati presentati, infatti, i film più popolari dell’anno (Nero di Zhang Yimou) né quelli "d’autore" che finiranno in competizione in festival internazionali più blasé (Wang Xiaoshuai, Lou Ye). Infine, bisogna anche ricordare che in Cina non fioriscono i generi come invece avviene ad Hong Kong, Corea e Giappone. Tranne alcuni goffi tentativi: Red Snow (Zhang Jiaya, 2002) è una megaproduzione con la stella hongkonghese Karen Mok che sopravvive hollywoodianamente a slavine e incidenti aerei in Tibet. Manhole (Chen Daming, 2001) presenta tre classici personaggi: il poliziotto sensibile e deluso in amore, il delinquente di mezza tacca appena uscito dalla prigione, I’entraineuse innamorata. Con una reticenza tipica del cinema cinese, il tentativo di costruire un film di genere (sorretto da una struttura narrativa solida ed una presa sul pubblico grazie alla suspense) viene deluso da un approccio morbido ed artistico, che smussa i confini ed ambisce a muoversi nei territori della critica sociale. Molto più sicuro di sé è Life Show, del veterano Huo Jianqi, che descrive la vita del tradizionale mercato notturno dove lavora una donna sola (Tao Hong). A tratti il narrato ricorda certe suggestioni di Zhang Ailing, segnatamente nella ricostruzione di un presente che già sembra passato, destinato ad una prossima estinzione e dunque osservato con malinconica nostalgia. La protagonista ricorda i personaggi della celebre scrittrice nella fine caratterizzazione psicologica: è una donna che ha sofferto le prove più dure ed al contempo non esita, assumendo a sua volta un ruolo repressivo, a creare attorno a sé e a chi le sta vicino una gabbia dorata di obblighi e costrizioni sociali e psicologiche. Sempre al femminile un’altra opera notata per la sua misura, nonostante tratti un tema difficile: il rapporto madre/figlia alle soglie della morte dell’anziana signora. Gone is the One Who Held Me Dearest in the World, film d’esordio della regista Ma Xiaoying, tratto dal romanzo autobiografico della scrittrice Zhang Jie, è di impressionante rigore e presenta una coppia di attrici straordinarie: Siqin Gaowa e Huang Suying. Gli ultimi due film sono complementari. Uno, Chen Mo and Mei Ting (Liu Hao, 2002) è una coproduzione (poco dispendiosa, per la verità) sino-tedesca che narra la precaria quotidianità di due giovani figli di elementi reazionari perseguitati durante la rivoluzione culturale. II film si innesta nella tradizione "neo-realista" di Jia Zhangke e Wang Chao: film lenti, minimali, profondamente implicati nella descrizione della (misera) realtà quotidiana attraverso piani sequenza con telecamera fissa. Di tutt’altro genere è Where Have All The Flowers Gone, opera prima di Gao Xiaosong, autore di pubblicità e videoclip. La vicenda onirica ed immaginifica ruota attorno ad un triangolo studentesco-amoroso. L’interesse del film è tutto nel montaggio allusivo, nelle sequenze poetiche ed astratte in cui si scioglie un’opera destinata ad un giovane pubblico di nuovi ricchi assuefatti ad MTV.

Bisogna infine ricordare l’unica pellicola proveniente da Taiwan, Better Than Sex di Su Chao-pin. Si tratta di una commedia fortemente debitrice dall’estetica dei manga e che, coerentemente, parla tra le altre cose dell’influenza della cultura popolare giapponese sui giovani taiwanesi. II ritmo è sfrenato e, nonostante alcune grossolanità, il film offre anche spunti divertenti. Per la cronaca, meglio del sesso è l’amore, come recita anche il titolo originale: la medicina dell’amore.
Per concludere, è da segnalare il doppio omaggio che il festival rende a due importanti e compianti personaggi, Alberto Farassino e Leslie Cheung.

 

MONDO CINESE N. 115, APRILE-GIUGNO 2003

 

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