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Nanjiecun, dove vince ancora l'utopia maoista: ma è vero?

di Barbara Alighiero

NANJIECUN (HENAN, CINA CENTRALE) Trasmesse dagli altoparlanti, le note dell' 'Oriente è rosso' svegliano all'alba gli abitanti di Nanjiecun, che escono alla stessa ora da palazzine moderne tutte uguali, tutte linde, affacciate su strade immacolate, a raggiera intorno ad una piazza dove domina fra aiuole di multicolori portulache una statua di Mao Zedong, circondata dai ritratti di Stalin, Lenin, Engels e Marx. In bicicletta o a piedi - le auto sono bandite - i genitori portano i bambini in scuole perfette, dai tavolini rosa e i lettini celesti e il prato verde, con statue di Paperino e Topolino. Poi vanno a lavorare nelle stesse fabbriche dove hanno tutti identico stipendio, minimo, perchè l’amministrazione di questo villaggio della Cina centrale provvede a ogni cosa, dalla sanità, al cibo alla lavatrice. Dalla culla alla tomba.

''Ognuno sceglie il suo modello da seguire e noi abbiamo deciso di mantenere quello di Mao Zedong'', dice il segretario della cellula del Partito comunista locale Wang Hongbin. 52 anni portati con grazia, Wang è dal 1977 il capo incontestato di Nanjiecun. Tre anni fa - disdetta della corruzione delle riforme economiche - è stato costretto a cambiare i due ideogrammi del suo nome: erano gli stessi di un banchiere arrestato per frode.

''A Nanjiecun ci si arricchisce tutti insieme'', dice, implicitamente criticando Deng Xiaoping, che dopo l’arrivo al potere nel 1978 rimosse i ritratti dei padri del marxismo dalla piazza Tiananmen e, pur lasciando Mao ad essere omaggiato dalle masse nella bara di cristallo nel Mausoleo, smantellò la società egualitarista maoista e, per dare impulso allo sviluppo, benedì chi diventava ricco per primo, da solo. ''Qui l'economia privata è proibita, tutto è collettivo'', dichiara Wang, che a novembre, per la terza volta, è stato delegato ad un Congresso del Partito comunista. ''Non vogliamo essere un modello per nessuno, soltanto seguire la nostra strada, diversa''. Difficile d’altronde anche solo proporre il modello Nanjiecun ad un Congresso, il 16° negli 81 anni di storia del Pcc, che si è concluso aprendo le porte ai capitalisti, purché rossi e purché politicamente corretti. Wang, nella settimana di riunione, ha rifiutato interviste, scegliendo il silenzio. Forse sdegnato. Forse stupito. Ma il Congresso ha solo preso atto di una realtà - e tutti lo sanno, anche a Nanjiecun - che non è quella artificiale del regno di Wang.
Basta uscire di una decina di passi dall'area di 1,8 chilometri quadrati dell'ex comune popolare per rendersene conto. Nanjiecun è un'isola, assediata dalla sporcizia, la miseria, gli affanni di una delle regioni, lo Henan, più antiche culturalmente e più povere della Cina, dove a migliaia muoiono nelle miniere illegali, a milioni sopravvivono a fatica con i prodotti di una terra troppo sfruttata e sminuzzata o si avvelenano in città inquinate da fabbriche sorte selvagge. Il nome del villaggio significa ''a sud della strada'', ci sono quello di nord, est e ovest, confinanti. Un altro mondo. Nanjiecun è un'illusione, una finzione.

Il villaggio ha oltre 12 mila abitanti, ma solo 1.100 sono residenti veri, di cui 285 iscritti al Partito. Gli altri sono immigrati, che vivono e lavorano nelle fabbriche di Nanjiecun, ma sono cittadini di seconda categoria. La fama della città viene dalla produzione di spaghetti e birra, rigorosamente prodotti in joint-venture con l'estero. Contraddizione accettata di buon grado. Gli immigrati creano ricchezza, ma non hanno nessuno dei privilegi concessi all'eletto dieci per cento della popolazione. Non hanno una casa gratuita - 92 metri quadri, arredati, per famiglia - la scuola, la sanità, l'ospizio, il cibo. Il reddito procapite annuo è di 6.700 yuan (850 euro) per i residenti, leggermente inferiore per 'gli altri'. In ambedue i casi, più alto della media dei contadini dello Henan.

Per le vie si aggirano bambini cenciosi, degli altri villaggi, che cercano nei sempre lustri bidoni in acciaio della spazzatura materiale da rivendere, bottiglie in plastica o vetro. I 'vicini' fanno servizio di trasporto con tricicli a motore, privati. 'Straniere' sono anche le commesse del negozio di souvenir - che vende tutto quanto si possa desiderare su Mao, dagli orologi alle catenine bagnate in oro con la medaglietta del Grande timoniere - e della libreria, vuota di clienti e piena di testi sul comunismo, ma anche di libri sul Wto e di traduzioni di Harry Potter.

Trovare un residente è difficile, e i pochi incontrati non sembrano particolarmente felici. Eppure sono ammirati e invidiati dai derelitti confinanti che ogni sera vanno a passeggiare sulla piazza, illuminata a festa, con i riflettori di luce bianca ai piedi della statua di Mao. Per la verità malfatta e spoporzionata. ''Qui i dirigenti sono più in gamba dei nostri'', dice una contadina di mezza età, di Xijiecun, il villaggio dell'ovest.

E mentre a Pechino, a 850 chilometri a nord, il Partito sta cercando di controllare la nascita della nuova classe borghese, l'utopia di Nanjiecun conquista. Turisti arrivano a frotte per vedere questo esempio di come la Cina avrebbe dovuto essere, ai tempi di Mao, e non è mai stata. È venuto anche il primo ministro Zhu Rongji, che ha dato l'ultimo colpo all'egualitarismo costringendo a chiudere le fabbriche statali in costante perdita per la sovrabbondanza di manodopera voluta dall'occupazione totale del comunismo: 26 milioni di persone sono state licenziate negli ultimi cinque anni. Lo zar dell’economia cinese ha ascoltato i canti rivoluzionari, osservato le citazioni di Mao sui muri delle abitazioni, e se n'è andato. Senza commenti, ricorda il segretario Wang: ''Non aveva niente da dire''.


MONDO CINESE N. 117, MAGGIO-AGOSTO 1994


 

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