I prodotti alimentari italiani esportati in Cina rilevano valori marginali, pur in presenza di una dinamica di mercato che vede i loro volumi in crescita. Questo fenomeno è comune all'intero macrosettore dei beni di consumo. L'export italiano verso la Cina è tradizionalmente caratterizzato dalla meccanica strumentale: macchine dell'industria leggera e per la trasformazione delle materie prime che hanno assecondato le necessità del paese, dopo la svolta denghista del 1978, di una veloce modernizzazione produttiva. Macchine, parti e semilavorati mantengono una posizione inattaccabile nella composizione dell'export italiano, risultato di una lungimirante scelta aziendale e di una valida strategia di sostegno pubblico. Questo impegno combinato ha avuto negli anni '80 un esito spettacolare. Ogni manifestazione promozionale si trasformava in un successo commerciale; nelle prime fiere in Cina i macchinari erano venduti quasi automaticamente: il marketing era un'opzione ma non una necessità. I beni di consumo hanno registrato al contrario valori modesti. Raramente appaiono nelle statistiche dell'import cinese i prodotti che hanno reso il Made in Italy conosciuto al pubblico internazionale: abbigliamento, moda, tessuti, pelletteria, calzature, gioielleria, vino e prodotti alimentari1. Questa lontananza deriva dall'incrocio di una serie di fattori.
In primo luogo va considerata la capacità d'acquisto dei consumatori cinesi. I prezzi dei prodotti italiani, gravati in aggiunta da dazi, sono eccessivi per la grandissima maggioranza della popolazione. Sono dunque accessibili solamente ad alcune decine di milioni di consumatori che comunque non costituiscono un mercato organizzato2. Ugualmente importante è la mancanza di un'efficace distribuzione. La rete commerciale in Cina è agli albori e costituisce l'ostacolo principale all'introduzione di qualsiasi bene proveniente dall'estero. Agenti, importatori e distributori sono figure nuove, spesso di derivazione burocratica e fortemente despecializzate. Questa arretratezza, sopportabile nel caso dei beni strumentali (dove c'è un rapporto diretto tra produttore ed utilizzatore) diventa esiziale per prodotti destinati al grande pubblico e per i quali l'intermediazione è necessaria. Un'offerta locale, di basso prezzo ma qualitativamente in crescita, costituisce inoltre una forte concorrenza. Va infine menzionato il ritardo delle aziende nell'aver affrontato le pur oggettive difficoltà della Cina, spesso lasciata ad un inefficace controllo da parte dei propri distributori di Hong Kong. Il risultato finale è che i beni di consumo italiani in Cina sono spediti, venduti, ma non esportati. Sono mancanti cioè di una continuità e di una strategia di penetrazione capaci di farli radicare e dare al loro flusso una forte connotazione economica.
Se questo Made in Italy è lontano dalla Cina, non è tuttavia sconosciuto. Se ne apprezzano il prestigio, la qualità e l'eleganza; gli vengono riconosciuti immagine e status symbol; viene ricercato ed ostentato perchè garantisce visibilità. Nell'immaginario collettivo dei consumatori più giovani ed abbienti sembra non avere rivali. Forse i profumi della Francia o l'abbigliamento casual degli Stati Uniti possono vantare supremazie specifiche, ma i prodotti italiani vengono percepiti come i più adatti nella ricerca di una migliore qualità della vita. I beni di consumo italiani vivono dunque in Cina una situazione paradossale: sono ricercati ma non si trovano. Si tratta di una chiara perdita di opportunità. La domanda di "italianità" viene così lasciata a produttori locali, specializzati nell'imitazione o nella disinvolta invenzione di nomi che riecheggiano quelli degli stilisti più famosi. Borse, calzature, abiti ed accessori di nome italiano sono su ogni scaffale di grande magazzino o su ogni banco di mercato. La Cina è l'unico paese al mondo dove il Made in Italy non è italiano.
2 - Ristorazione e franchising
La cucina italiana non sfugge a queste restrizioni ed i numeri confermano l'esiguità di tutte le sue componenti: prodotti alimentari, vini e ristorazione. Pur in presenza di variazioni percentuali di tutto rispetto, i valori assoluti si confermano limitati. Il consumo di cibo italiano rimane confinato alle comunità di occidentali ed ai Cinesi che hanno viaggiato o lavorano in joint venture: la stessa minoranza che è cliente dei ristoranti italiani. Le ultime statistiche del 2001 rilevavano incrementi per la pasta, il caffè, il cioccolato e l'olio d'oliva, ma si tratta di fenomeni ancora da far crescere prima di poterli giudicare economicamente rilevanti3. Anche in questo caso il mercato cinese è potenziale prima ancora che reale.
Gli spettacolari successi economici della Cina negli ultimi 25 anni hanno avuto conseguenze anche nelle abitudini alimentari della popolazione: è cambiata la dieta e ci si avvicina alle cucine straniere con maggiore apertura. L'occupazione femminile, l'affermazione del terziario, la politica demografica, gli spostamenti dalle campagne alle città hanno imposto dei cambi nella conduzione familiare. Sono ormai un'acquisizione comune i frigoriferi4, i cibi precotti, le porzioni già confezionate. Questa domanda è stata tuttavia soddisfatta prevalentemente da produzioni locali, spesso in joint venture con aziende dei Cinesi d'oltremare. Nella ristorazione il risultato più visibile è stata la diffusione del fast food ad opera dei grandi nomi internazionali.
Le municipalità di Pechino e Shanghai formano i 2 mercati più strutturati della Cina, con 30 milioni di consumatori, distribuzione sufficiente, relativa apertura internazionale, discreta presenza straniera, rilevante numero di turisti, buona capacità d'acquisto della popolazione. Ciò nonostante i ristoranti italiani nelle due città sono complessivamente 355. A Roma sono attivi con successo circa 200 ristoranti cinesi; poco meno se ne trovano a Milano ed in tutte le città la cucina cinese è diffusa ed apprezzata. La ristorazione italiana è la più diffusa in Cina tra quelle non asiatiche; comunque la sua consistenza impallidisce di fronte alla crescita degli outlet del fast food. Mac Donald's vanta 70 ristoranti a Pechino e 377 in Cina. Kentucky Fried Chichen, pioniera ad aprire nel 1992 a Piazza Tian An Men, ha 65 ristoranti a Pechino e 475 in Cina. Il volume d'affari del fast food è impressionante: 25 miliardi Usd nel 20006. Il fenomeno si è recentemente spinto verso terreni gastronomici tipici della cucina italiana. Il successo della catena statunitense "Pizza Hut", unito ad altre di proprietà asiatica, ha fatto smarrire la sicura percezione della pizza come specialità italiana. L'origine del piatto è ormai consegnato al "new world order of international standard cuisine". Ancora più eclatante è il successo della catena "Starbuck" che è riuscita a far avvicinare i consumatori cinesi al caffè, una bevanda a loro estranea. Contando su un menù tutto in italiano la società di Seattle ha conquistato successo e riconoscibilità riuscendo in due anni ad aprire 35 locali a Pechino ed a Shanghai7.
3 - Ideologia e commercio
Sarebbe comunque affrettato classificare queste esperienze come una "success story" da prendere ad esempio per il radicamento italiano, sia dei prodotti alimentari che della ristorazione. I mezzi finanziari messi in campo non sono paragonabili, senza dimenticare che comunque la penetrazione del fast food occidentale in Cina è frutto di joint venture con aziende locali e risultato di lunghissime trattative. Al di là delle cifre rilevate, l'essenza del fenomeno va ricercata nelle capacità delle catene statunitensi ad intercettare l'aspirazione a diversificare le abitudini alimentari. Questo è stato il loro vero successo: interpretare al meglio le necessità di un paese in crescita, con una classe media che ha bisogno di distinguersi ed una clientela che si avvicina a gusti finora estranei con curiosità e benevolenza. Si è trattato della migliore applicazione dell'aggressione ad una nicchia di mercato, tanto piccola in percentuale quanto vasta in valori assoluti. È stata una strategia che ha fatto leva su uno dei by-product più importanti della politica di apertura al mondo esterno: l'accettazione della diversità.
Un approccio differente - conquistare la Cina alimentare, tentando di imporre gusti nuovi e sapori differenti - sarebbe stato ambizioso ed impraticabile. Avrebbe significato tentare di incidere sul corpo vivo del paese. L'alimentazione e la cucina sono, insieme all'arte, ai culti, alla lingua, l'espressione più forte della visione del mondo cinese. In esse si riflettono la tradizione contadina ed il rapporto con il territorio; il rispetto dell'ambiente e la ciclicità delle stagioni; la ricerca dell'armonia e la conservazione delle regole. Questo è l'ostacolo per ora insormontabile per la diffusione di cucine di altri paesi. Laddove queste fossero accettate senza resistenza, ed al di là delle motivazioni sopra riportate, sarebbe messa in discussione l'intera weltanschaung della quale l'alimentazione in Cina è uno dei pilastri. Essa riflette dunque una cultura sinocentrica, con forte attaccamento alle proprie radici, isolata nella sua conservazione, alimentata dalla esclusività etnica, convinta infine della propria unicità8.
4 - I ristoranti italiani: curiosità o convinzione.
Forti del loro numero e della loro sopravvivenza, inorgogliti da lunghi periodi di chiusura, gli abitanti della Cina non sembra abbiano sentito fino ad oggi né la necessità né la volontà di cambiare. I Cinesi mangiano cinese, in qualsiasi parte del mondo. Le altre cucine sono considerate non salutari, eccessivamente caloriche, povere di verdure e di fibre, di difficile digeribilità. In esse sembra prevalere la quantità a scapito della ricercatezza e dell'equilibrio. Vengono giudicate ripetitive e di scarsa applicazione in cucina. Se ne lamenta l'uso di prodotti congelati e l'eccessiva cottura degli alimenti. Intollerabile viene infine giudicata l'irregolarità degli orari dei pasti ed in generale la mancanza di abitudini.
In questa situazione poco promettente, la cucina italiana sta guadagnando apprezzamenti lenti ma puntuali, anche per lo sforzo di alcuni imprenditori che pioneristicamente cercano di combinare il proprio successo con la autenticità della cucina nazionale. Nei ristoranti italiani la clientela cinese è stimabile intorno ad ? del totale: business people, famiglie benestanti, turisti da Hong Kong, persone attratte dall'Italia e consumatori curiosi. L'aspetto economico è ancora ridotto ma comincia a mostrare dinamiche interessanti. Alla cucina italiana vengono riconosciuti indubbie qualità, le stesse che, sotto forme diverse, caratterizzano quella cinese: la tradizione, la varietà, la bontà. Essa è la prima ad esser presa in considerazione, laddove si decida di derogare dalla tradizione locale. Mangiare italiano fa acquisire inoltre uno status symbol oggi ricercato, facile suggestione di un paese in crescita.
Non mancano tuttavia gli ostacoli, di natura sia prettamente economica che culturale. I ristoranti italiani sono cari e percepiti come eccessivamente formali. Soprattutto quelli negli alberghi di lusso hanno prezzi inaccessibili anche alla nuova classe abbiente cinese. Più economici sono i ristoranti indipendenti, anche se l'alto costo dei prodotti d'importazione si ripercuote sul prezzo finale. L'atmosfera è giudicata seriosa : il pasto monopolizza l'attenzione del cliente. Non c'è musica ad alto volume, mancano ovviamente gli spettacoli ed il karaoke. Nei ristoranti italiani si va solamente per mangiare e ciò scoraggia il pubblico più giovane. Inoltre l'attesa per il cibo è eccessiva per chi è abituato a consumare i pasti velocemente e nelle situazioni a prima vista più scomode. I Cinesi mangiano dappertutto. Quando non è espressamente formale il pasto si consuma in pochi minuti, negligendo le situazioni esterne, trascurando la tavola imbandita e privilegiando le caratteristiche del cibo. Si pranza fuori casa frequentemente: nelle grandi città le cucine sono molto piccole ed i piatti cinesi non si prestano per porzioni piccole, adatte ad una sola famiglia. È più comodo e conveniente mangiare nei ristoranti, nelle mense o nei banchetti lungo la strada.
La difficoltà maggiore è comunque concettuale. Spesso gli avventori cinesi non sanno ordinare. La loro cucina è orizzontale: si mangia tutti insieme e contemporaneamente. La sua epitome è il movimento della "lazy susan", il disco centrale che, girando, fa mangiare ad ognuno ciò che desidera, indipendentemente dalla scansione dei cibi e da ciò che mangiano i commensali. Garantisce l'intercambiabilità dei sapori e la sovranità del consumatore. La cucina italiana è invece verticale, scandita da un ordine numerico delle pietanze. Un ricevimento cinese è composto da 15 piatti, un pranzo italiano da 4, anche se più cospicui. Non saper scegliere, unitamente al disagio di usare le posate, favorisce l'approccio al buffet, dove si raggiunge una mediazione tra i cibi italiani ed il metodo cinese di gustarli.
5 - Vino di riso e di uva
Anche la diffusione del vino soffre delle stesse difficoltà. Non si tratta solamente di consumo frenato dagli alti costi, quanto di abitudini alimentari che non lo contemplano. Vino si traduce putao jiu, che letteralmente significa "vino d'uva". La specificazione è necessaria: in Cina il vino deriva dai cereali: riso, sorgo, miglio. Si beve caldo e zuccherato9. Marco Polo ne ha dato una testimonianza precisa: "Egli fanno una posgione di riso e con molte altre buone spezie, e concianla in tale maniera ch'egli è meglio da bere che nullo altro vino: egli è chiaro e bello e inebria più tosto ch'altro vino, percicoch'è molto caldo"10. Il vino d'uva è conosciuto dalla dinastia Tang, ma è sempre stato riservato ai nobili. La sua produzione industriale è vecchia di un secolo, ma solo da pochi anni, la Cina è riuscita a produrre vini di qualità discreta. I consumi sono in aumento, ma denotano valori ancora bassi: 0,3 litri pro capite all'anno, contro i 58 in Italia ed i 7,5 nel mondo. Si beve vino per celebrare le festività, nei banchetti, durante i pasti con gli stranieri. Il vino è apprezzato, soprattutto se rosso e dolce, per il sapore, il colore, le proprietà salutari. Il suo consumo è infine accostato ad uno stile di vita moderno e dispendioso.
L'Italia è il quarto paese esportatore di vino in Cina, dopo il Cile, la Spagna e la Francia. Quest'ultima detiene la leadership qualitativa, mentre i primi due dominano per la fornitura di vino sfuso11. La sua diffusione è stata finora un fenomeno economico e di costume, ma sicuramente non ha determinato una "cultura del vino" nella società. Esso viene percepito con un bene capace di soddisfare un bisogno, materiale o psicologico. I tentativi di abbinare al vino connotazioni storiche od intellettuali sarebbero inefficaci. La Cina è depositaria di un'antica civiltà e non appare sensibile ad approcci basati sull'identità tra prodotto e cultura. Il vino derivato dai cereali è considerato un alimento energetico, come accade tipicamente nelle società non ricche. Il vino d'uva è invece un fenomeno d'élite. Un ruolo importante è stato svolto dai produttori europei che hanno introdotto in Cina le tecniche di vinificazione ed i macchinari più moderni. I vini cinesi più famosi -Dynasty, Dragon Seal, Great Wall - sono prodotti di joint venture con le case francesi Rémy Martin e Pernod Ricard.
L'affermazione del vino italiano in Cina è iniziata per le sue caratteristiche intrinseche, soprattutto la qualità ed il prestigio. Ad esse si sono aggregate, valorizzandole, le inziative di alcuni produttori ed il forte intervento pubblico. Le prime si sono arricchite di nuovi strumenti per l'internazionalizzazione del settore: l'esportazione di vino sfuso e l'imbottigliamento in Cina di vino "Made in Italy" e la messa a cultura di vigne con metodi e tecnologie italiani. Il secondo ha espresso modalità d'intervento efficaci a sostegno dei produttori. Si può oggi affermare che il mercato in Cina inizia a strutturarsi, dotandosi di strumenti, come le fiere, che ne misurano e ne trainano le potenzialità.
Contemporaneamente sono sorti anche i tradizionali supporti al mercato: la stampa specializzata, gli enologi, le degustazioni, i wine lover. Essi rappresentano gli strumenti per consentire al vino di decollare verso un consumo più ragionato ed in linea con le sue proprietà. Sono le leve per inserire il vino nella cucina cinese. È un'operazione difficile ed ambiziosa, nella quale l'aspetto educativo è cruciale. Lo è per i consumatori cinesi, sollecitati ad un cambiamento senza rinnegare nulla della propria tradizione culinaria, ma lo è anche per i custodi dei capisaldi gastronomici della cucina italiana. In essa alcuni piatti richiedono vini specifici, ma soprattutto la crescita dei sapori scandita dalle pietanze impone un'analoga progressione dei vini. La gradazione alcolica sale con i sapori. Nella cucina cinese l'andamento non è ascensionale ma altalenante. Ogni sapore smentisce il precedente. I piatti si alternano con altri criteri: il colore, l'odore, il modo di cottura. L'abbinamento più agevole è quello con un vino leggero che possa accompagnare l'intero pasto, risultando gradevole con tutti i sapori. Si tratta sostanzialmente di un'operazione forse dolorosa ma redditizia: far perdere al vino le sue vesti culturali e trasformarlo in bevanda.
6 - Conclusioni
La penetrazione dei prodotti alimentari, del vino e della ristorazione italiani in Cina presenta rischi ed opportunità. Gli ostacoli sono duplici: quelli commerciali di un paese ancora non inserito pienamente nel consesso internazionale e quelli conseguenti a secoli di chiusura e di autovalorizzazione. Questi ultimi , perchè fortemente ideologici, sono più robusti. È più agevole sviluppare i canali distributivi che sradicare convinzioni ataviche. I successi fin qui raggiunti sono dovuti essenzialmente al miglioramento delle condizioni economiche del paese. Una conseguenza è stata l'apertura a cucine straniere, senza che queste potessero insidiare la supremazia di quella locale. Ciò nonostante il significato economico dell' ingresso di consumi differenti è stato imponente, come dimostra l'esperienza del fast food nord-americano. Il paese sta attraversando una rivoluzione silenziosa, della quale il costume rappresenta il fenomeno forse più visibile. Carpire le opportunità economiche di questo cambiamento è un'operazione difficile ma è l'unica praticabile per una strategia aziendale o di intervento pubblico. Ritagliarsi un terreno di intervento nei prodotti alimentari non preclude, anzi moltiplica, le possibilità di concludere affari. Diffondere la tipicità e la qualità del Made in Italy alimentare è un'operazione solo apparentemente circoscritta; essa è invece tesa ad essere protagonista di una delle dinamiche sociali. Più che in altri settori, in quello alimentare vale la regola che il mercato deve essere aiutato a crescere prima di essere aggredito. L'altro tipo di approccio - convincere i consumatori, sostituire le abitudini, dare un taglio culturale al marketing - è più eclatante ma meno promettente, ambizioso ma non efficace. Per essere consumata, la cucina italiana non ha bisogno di essere compresa. Farsi accettare è propedeutico a lasciarsi acquistare. Di un cambiamento così vasto come quello in atto, è meglio rimanere, almeno per ora, "attori non protagonisti".