Dopo il quattro giugno (1989) la riforma politica è stata completamente soffocata, e l’attenzione si è spostata esclusivamente sulla riforma economica. Con la febbre per gli affari che ha contagiato l’intera popolazione, l’economia è divenuta la disciplina dominante negli anni ’90, un argomento obbligatorio nel mondo degli intellettuali, e anche coloro che non facevano parte di questo ambiente hanno cominciato a occuparsene. Quello che emerge dai dibattiti tra gli economisti appartenenti alle posizioni “della corrente dominante”, cioè funzionari che forniscono relazioni e risultati di ricerche utili per le politiche del governo, e quelli che non si rifanno alla “corrente dominante”1 sul dover affrontare o meno il problema della moralità e della giustizia in campo economico, e dalle polemiche su cosa sia prioritario tra privatizzazione dall’alto e giustizia sociale, è proprio la mancanza di alternative, oltre alla ipocrisia degli economisti della corrente dominante. Tra questi ultimi, anche economisti famosi di orientamento liberale sono stati costretti a scendere a compromessi con la realtà: mentre proclamano la necessità di accelerare il processo di privatizzazione e di introduzione dei meccanismi di mercato non riescono a dimostrare, se non ricorrendo a sofismi, le argomentazioni logiche che giustificherebbero il possesso di capitali da parte di coloro che detengono il potere e la corruzione dei pezzi grossi.
Analizzando più a fondo questa polemica, abbiamo realizzato che piuttosto che discutere di differenti percorsi nelle teorie o nelle strategie di riforma, è meglio affrontare altri aspetti come la linea di demarcazione nel ruolo sociale tra gli accademici e i funzionari nelle realtà specifiche, oppure le differenze di posizione sull’abbandonare o meno un piano di moralità e giustizia ma, soprattutto, sulla spinta verso gli interessi economici privati. Questi economisti della corrente dominante che discutono della privatizzazione dall’alto e della corruzione hanno la doppia identità di studiosi e di burocrati: nel processo di frazionamento e distribuzione dall’alto dei beni di proprietà statale, grazie al loro “padrone”, anch’essi ne ottengono una porzione rilevante e, come i suoi parenti, si mettono in affari e accumulano ricchezze illegali. Nel gruppo degli economisti-funzionari, Wu Jinglian costituisce un caso unico di economista che pur mantenendo un orientamento liberale e attenendosi a principi di moralità e giustizia, è tollerato dal partito al potere.
La teoria nazionalista di uno stato forte è preponderante nel mondo intellettuale
Anche se una rielaborazione della teoria economica liberista trasformata e riconosciuta ufficialmente sostiene lo slancio verso il mercato e la privatizzazione, gli economisti-funzionari della corrente dominante sottolineano che poiché lo scotto da pagare per lo sviluppo dell’economia di mercato è come minimo quello di tollerare e perfino assecondare la privatizzazione da parte delle famiglie corrotte dei potenti, sul piano della moralità e della giustizia la teoria economica liberista perde l’appoggio da parte delle masse e degli altri intellettuali e viene attaccata dalle due parti che difendono la giustizia sociale. Una è la nuova fazione della vecchia sinistra che sostiene lo statalismo e il populismo ereditati da Mao Zedong, l’altra è la scuola liberale orientata alla democrazia sociale. La prima, ispirandosi al modello di democrazia economica disegnato nella “Carta di Anshan sul Ferro e l’Acciaio” vuole attuare le riforme salvaguardando la proprietà pubblica e la distribuzione egualitaria e si contrappone all’egemonia del capitalismo occidentale in nome del nazionalismo e dell’interesse dello stato; la seconda invoca e difende la giustizia sociale basilare di tipo liberale in nome dell’uguaglianza dei diritti e della concorrenza leale e auspica il cambiamento del sistema politico tradizionale attraverso una globalizzazione completa. La cosa strana però è che sia la sinistra, che difende l’eredità di Mao Zedong, che la destra, che si serve delle teorie economiche del nuovo sistema occidentale (ovvero le teorie sostenute dalla corrente dominante per cui bisogna tollerare la privatizzazione dall’alto), rifiutano la riforma pubblica che privilegia l’uguaglianza dei diritti e la libertà sul modello della Russia e dell’Europa Orientale, rifiutano cioè quella trasformazione sociale completa in cui la democratizzazione politica marcia di pari passo con lo sviluppo dell’economia di mercato e la privatizzazione. Così rimane solo il gruppo liberale, con la sua predilezione per la democrazia sociale, ad avere la forza di affrontare un confronto dialettico sulla riforma secondo il modello della Russia e dell’Europa Orientale.
All’inizio di questo nuovo secolo, in Cina un gran numero di economisti dei circoli intellettuali e la nuova sinistra hanno definito la difesa della proprietà pubblica e la lotta all’egemonia americana “la guerra del secolo”. Essi ritengono che, dopo la disgregazione della ex Unione Sovietica, la recessione economica interna della Russia e la democratizzazione del suo sistema politico, abbiano reso la Russia sempre più parte della cultura occidentale facendole perdere la capacità del periodo della guerra fredda di reprimere l’egemonia americana. Nel nuovo secolo quindi, sia dal punto di vista delle differenze culturali che dei sistemi sociali, sia dai ritmi di sviluppo che dalle potenzialità future è soltanto la Cina che sta attualmente emergendo come unico Paese che possa può contrastare e quindi porre fine all’egemonia americana. Spinti da questo grandioso obiettivo nazionalista, essi portano avanti il sistema politico di Mao Zedong e la sua eredità teorica, si oppongono alla privatizzazione dall’alto e alla evoluzione pacifica sul modello economico capitalista e fanno della strategia del paese politicamente forte, della democrazia economica e della distribuzione egualitaria gli obiettivi prioritari della riforma interna. Ma, ammettendo che la privatizzazione sia già una realtà di fatto, per raggiungere questi obiettivi bisogna innalzare la difesa della proprietà statale a livello di “battaglia decisiva del secolo” e arrestare il processo di privatizzazione dall’alto che continua a minare l’economia statale. Essi affermano inoltre che: “La Cina per oltre mille anni è stata sempre la prima superpotenza mondiale, la sua disfatta risale solo agli ultimi 150, massimo 300 anni. Nonostante ciò, sul piano della potenza globale del paese, rimane la seconda superpotenza, subito dopo gli Stati Uniti. Il rapido sviluppo del paese nei 50 anni dalla sua fondazione e la rinascita della cultura nazionale sono già prossimi a dare frutti, su quale base proprio nel momento cruciale della svolta tra il decollo o la disgregazione si dovrebbe scegliere l’auto-disgregazione?” A questo punto però non si tratta più di teorie economiche o di strategie di governo, ma di cieca arroganza provinciale, di una specie di nazionalismo meschino simile a quello della campagna dei Boxer.
Dopo i fatti del 4 giugno (1989), questo fanatismo nazionalista prevale tra gli intellettuali cinesi senza eccezione, persino negli ambienti più liberali. Essi hanno vissuto esperienze come le direttive accademiche a “coltivare la propria identità nazionale per opporsi all’egemonia della cultura occidentale”, poi la moda del post-modernismo, il dibattito sulla perdita della sensibilità culturale o la moda dell’oriente e così via; e nonostante siano molto diversi fra loro, sono tutti fortemente accomunati nel rifiuto della globalizzazione, nella lotta all’egemonia occidentale e nell’appello a un popolo forte e prosperoso.
La vergognosa oppressione di un secolo si è consolidata diventando contemporaneamente complesso di inferiorità e voglia di recuperare e superare; stati d’animo che, nell’attesa che la Cina ridiventi una potenza, si sono dilatati diventando statalismo che non bada ai diritti fondamentali dell’uomo, e sfrenata ambizione nazionalista che pretende di dominare il mondo. Dai tempi della “guerra dell’oppio”, questo è diventato oggi “l’oppio dello spirito” della classe intellettuale cinese. Ed è stato proprio perché erano intorpiditi da questo “oppio dello spirito” che gli intellettuali negli anni ’40 hanno potuto elogiare quel movimento teppista che è stata la lotta contro i signorotti locali per distribuire la terra, e negli anni ’50 hanno potuto acclamare il saccheggio incivile perpetrato con lo slogan “se le mitragliatrici sono posizionate in tre direzioni, non rimane che procedere in una sola direzione”. E’ sempre avvolti in questo torpore che hanno potuto parlare dei vantaggi della nazionalizzazione forzata della terra, il modello delle comuni popolari, hanno potuto considerare il grande balzo in avanti come una grandiosa esperienza, senza precedenti nella strategia dello sviluppo accelerato; hanno potuto appoggiare la politica di uno stato forte che sviluppava l’industria pesante e le armi nucleari a costo del sacrificio dei diritti, del tenore di vita e dell’esistenza stessa delle persone; e durante la rivoluzione culturale hanno potuto calpestare senza scrupoli l’esistenza, la dignità e i diritti fondamentali degli individui partecipando alla mobilitazione popolare, e dopo il quattro giugno hanno potuto abbracciare la bandiera nazionalista che rifiuta l’egemonia occidentale e inneggia allo statalismo. E’ veramente come se ci si trovasse di fronte a una fase che ritorna ciclicamente ogni 100 anni, dove i vecchi moniti, “l’insegnamento cinese come struttura fondamentale, l’insegnamento occidentale per le applicazioni pratiche” e “conoscere i barbari per controllare i barbari”, tornano a dominare il mondo intellettuale cinese. E tutto questo all’avvento del nuovo secolo, del secolo in cui “i diritti umani sono più importanti della sovranità”.
Io ritengo che nel quadro specifico del sistema cinese, se è vero che al tempo di Mao Zedong l’iniziale industrializzazione e la nazionalizzazione realizzate con la forza e la mobilitazione ideologica fanno parlare di un’ “economia del macellaio” che non si cura della vita, della dignità e dei diritti dell’uomo, è altrettanto vero che ai nostri giorni qualsiasi teoria che tradisce la dignità e i diritti fondamentali dell’uomo e qualsiasi dibattito in favore della distribuzione egualitaria forzata e della nazionalizzazione è definibile come “economia del macellaio”. Un’economia del genere viola la natura elementare dell’uomo persino di più di quell’ “economia mercenaria” che dibatte sulla corruzione diffusa e sulla privatizzazione dall’alto e il cui sangue freddo e la cui crudeltà non sono diversi dal fascismo economico.
In conclusione, il mondo intellettuale degli anni ’80 nel suo complesso non presentava divisioni nette e vi predominava l’idea di incamminarsi verso una riforma sia economica che politica improntata sui principi di libertà e democrazia. Negli anni ’90, dopo il grande massacro, il mondo intellettuale si è disgregato e ciascuno parla per conto proprio; ma tra le tante voci, quelle che si fanno sentire più forti propugnano insieme le teorie della riforma centralizzata e del nazionalismo. In particolare, dopo le bombe sganciate per sbaglio dalla NATO sull’ambasciata cinese in Yugoslavia, e l’avvento al potere del Partito Progressista Democratico a Taiwan, il mondo intellettuale e le istituzioni hanno rispettivamente incoraggiato e stimolato il nazionalismo più represso, radicale e cieco. Questo nazionalismo insieme all’appello pretestuoso al principio di sopravvivenza di “un paese che ha sofferto la conquista e il genocidio” hanno monopolizzato l’ideologia e sono stati al centro dei dibattiti diventando le voci più forti che schiacciano le voci discordanti e gli altri orientamenti. Nel mondo intellettuale queste voci sono quasi diventate un ordine tassativo informale, diretto alla coscienza di ciascun individuo: per porre fine alla sottomissione occorre un paese forte, per avere un paese forte occorre dare priorità allo sviluppo economico, per dare priorità allo sviluppo economico occorre mantenere la stabilità sociale, per mantenere la stabilità sociale occorre da una parte rifiutare lo sviluppo pacifico occidentale, dall’altra salvaguardare e rafforzare il sistema politico in essere. Come tutti gli ultra-nazionalismi della storia, basta far leva sull’interesse del popolo e quello dello stato perché, con un pretesto qualsiasi, l’escalation della repressione violenta da parte delle istituzioni e la decisione di aumentare alla cieca la competitività militare senza tenere conto delle forze del paese, diventino una scelta inevitabile di chi governa. E gli intellettuali cinesi, che hanno fatto il bagno di sangue del quattro giugno, si sono ritrovati ancora una volta a servire da complici o da mercenari assoldati dal potere assoluto.
Li Shenzhi e i vecchi intellettuali liberali
Nonostante che il massacro e il sacrificio di sangue abbiano castrato l’iniziativa dei cinesi ed il loro entusiasmo politico, infiammato dall’idea della libertà, nonostante che la corruzione diffusa, la sete di ricchezza e l’apatia in tema di giustizia sociale abbiano fatto dell’affannosa ed esclusiva ricerca del profitto l’obiettivo più desiderato e più alla moda degli anni ’90, e nonostante che il mondo intellettuale sia dominato da teorie di statalismo e populismo che rasentano l’irrazionalità, rimane ancora una ristrettissima élite di intellettuali liberali che a loro modo difendono con fermezza le idee liberali e cercano tutte le occasioni possibili per esprimersi e risvegliare la coscienza sociale per promuovere la riforma politica del paese.
Gli esponenti di questa élite liberale si dividono in tre fasce di età collegate tra loro: i vecchi, quelli di mezza età e i giovani. I vecchi provengono principalmente dalle istituzioni, erano in gran parte membri del partito, avevano un certo potere all’interno del regime e godevano di una certa reputazione sociale; dopo il quattro giugno con una scusa o con l’altra il partito al potere li ha fondamentalmente estromessi dal sistema, e adesso vivono da pensionati o quasi. Anche se tutti loro usufruiscono ancora dello stipendio e degli altri benefici del regime, concettualmente sono in rotta con l’ideologia del Partito Comunista e con il suo sistema. La loro esperienza può essere sintetizzata con la storia personale del vecchio Li Shenzhi che afferma: “da giovani dovevamo credere nel marxismo e diventare membri del partito comunista, alla mezza età dovevamo diventare ‘di destra’, da vecchi dobbiamo intraprendere la strada del liberalismo”.
Pur condividendo la stessa mentalità di fondo, i vecchi liberali hanno modi diversi di gestire le relazioni con il partito al potere: alcuni hanno un atteggiamento di aperta rottura, come Bao Tong, Li Shenzhi, Ding Zilin, Jiang Peikun, Bao Zunxin, Wang Ruoshui e Xu Liangying; mentre altri hanno un atteggiamento piuttosto moderato come Li Rui, Hu Jiwei, Zhu Houze, Du Runsheng, Yu Guangyuan, Wu Jiang, Wang Yuanhua, Qin Chuan, Cao Siyuan, Shao Yanxiang, Dai Huang e Wang Guixiu. Tutti però appoggiano le idee liberali e ritengono che il sistema politico cinese sia ormai arrivato al punto da dover necessariamente essere riformato. Questo gruppo comprende elementi collaudati dalla rivoluzione, molto colti, ricchi di intuito e non privi di saggezza, che hanno avuto del sistema un’esperienza diretta, incisa nelle loro menti in maniera indelebile. Quasi tutti hanno tratto ispirazione dal movimento del quattro maggio (1919) e dopo il quattro giugno (1989) sono saliti alla ribalta dell’opposizione esercitando una potente influenza nei circoli intellettuali e nel mondo industriale e commerciale. Soprattutto Ding Zilin, Li Shenzhi e Bao Tong con la chiarezza del loro atteggiamento, la nobiltà della loro personalità e il loro vigore, possono veramente essere riconosciuti come la coscienza del mondo intellettuale cinese del nuovo secolo. Le loro opinioni hanno una vasta risonanza in Cina e all’estero attraverso i media internazionali e Internet.
Il gruppo dei liberali di mezza età che sta maturando velocemente
La maggior parte degli intellettuali liberali di mezza età hanno avuto tutti esperienza della rivoluzione culturale, hanno interrotto gli studi alle scuole superiori e sono entrati all’università alla fine della rivoluzione culturale. Essi hanno per fortuna fatto in tempo ad agganciare il periodo dell’apertura e delle riforme e, pieni di entusiasmo, si sono buttati nel “movimento di illuminazione del pensiero” degli anni ’80 e nel movimento dell’’89; alcuni di loro tra l’altro hanno esercitato una notevole influenza nel mondo intellettuale degli anni ’80. Le loro convinzioni liberali si sono formate nella prima metà degli anni ’80 e si sono consolidate e sono maturate dopo il massacro del quattro giugno (1989). Ciò che dispiace è che la maggior parte degli intellettuali liberali di maggior spicco nel mondo della cultura e del pensiero degli anni ’80, dopo il quattro giugno sono andati in esilio all’estero, anzi, alcuni di loro da liberali sono diventati esponenti della nuova sinistra e nazionalisti, mentre il limitatissimo numero di quelli che sono rimasti nel paese hanno perso il diritto di esprimersi apertamente. Gli intellettuali liberali di mezza età che attualmente in Cina hanno una certa influenza e possono parlare apertamente sono tutti diventati celebri nel corso degli anni ’90 e provengono principalmente da università e istituti di ricerca del regime; alcuni hanno anche lo status di funzionari di alto livello e solo una piccola parte sono liberi professionisti esterni al sistema che collaborano con i giornali. Studiosi come Wang Xiaobo (defunto), Wang Lixiong, Liao Yiwu, Liu Junning, He Qinglian, Qin Hui, Zhu Xueqin, Xu Youyu, Qian Liqun, Xu Jilin, Tao Dongfeng, Lin Zhixian, Dang Guoying, Xie Yong, Lei Yi, Wu Si, Ding Dong, Wang Dingding, Zhao Cheng e Fan Baihua lavorano tutti nel campo delle scienze umane e comunque, qualsiasi sia il contenuto dei loro scritti, la loro posizione liberale è sempre molto chiara. Essi vogliono sfruttare i valori del liberalismo maturo occidentale e i suoi principi organizzativi per risolvere i problemi della realtà cinese.
Riguardo al problema del nazionalismo, di fronte al fanatismo patriottico incoraggiato dalle autorità di partito, apprezzato dagli intellettuali di sinistra e seguito alla cieca dai giovani, essi mantengono un atteggiamento aperto e di lucida calma, e sostengono la riaffermazione della cultura cinese autoctona attraverso la globalizzazione in tutti i sensi; auspicano cioè una cultura i cui valori abbiano come nucleo il rispetto della dignità e dei diritti fondamentali dell’individuo, una cultura che ama la pace e non la guerra, che reclama l’uguaglianza senza complessi di inferiorità né arroganza, che ama il pluralismo e non procede a senso unico. Riguardo al problema della stabilità sociale e della riforma politica, essi ritengono che, nel graduale processo di democratizzazione del potere politico, di sviluppo del mercato e di privatizzazione, si debba pensare a costruire un giusto; si oppongono perciò risolutamente al mantenimento di una stabilità temporanea iniqua che fa leva sulla violenza del potere, sull’indottrinamento ideologico e sul favoritismo. Riguardo al problema della giustizia sociale e della lotta alla corruzione, essi propongono di sostituire l’egualitarismo inteso come risultato della distribuzione imposta con il concetto di uguaglianza basato sui diritti civili fondamentali; sostengono un concetto di mercato in cui lo sviluppo del mercato promosso dal potere politico viene sostituito dalla libera concorrenza nel pieno rispetto dell’uguaglianza dei diritti; prospettano di sostituire la privatizzazione operata dai potenti con la garanzia dei diritti della proprietà privata; propongono di sostituire il motto rivoluzionario “togliere ai ricchi per dare ai poveri” con l’elargizione di un contributo adeguato a favore dei gruppi sociali più deboli e infine propongono di reprimere la corruzione a partire dal regime attraverso l’applicazione delle leggi, con un governo eletto dal popolo, con la libertà di parola e con l’equilibrio del potere.
Il contributo che essi hanno dato nel campo teorico, nel riesame critico della storia, nelle risposte alla realtà e nella diffusione del sapere comune, va ben al di là degli anni ’80. Ma rispetto agli anni ’80 oltre che a mancare di entusiasmo e di coraggio, essi mancano anche di un po’ di impulsività e leggerezza pur disponendo di maggiore freddezza, profondità e diplomazia.
I giovani intellettuali liberali si sono per la maggior parte laureati negli anni ’90 dopo il massacro del quattro giugno, hanno subito l’influenza della corrente “illuminata” degli anni ’80 e lo shock dei fatti di sangue del quattro giugno, hanno sperimentato il materialismo e l’utilitarismo in voga tra i giovani sull’onda dell’entusiasmo economico. Essi sono emersi nel 1998, nel cosiddetto periodo del “tardo autunno del pensiero”, i loro esponenti più rappresentativi sono Yu Jie, Ge Hongbing,Mo Luo, Ren Bumei, Luo Shuang, Xiao Shu, Huang Qi, Li Yonggang, He Xiongfei, Yang Zili, Yu Shicun e Kong Qingdong. Essi, diversamente dagli intellettuali di mezza età, hanno un bel ricordo del periodo “illuminato” degli anni ’80, mentre, con impeto tipicamente giovanile, sono pieni di indignazione e persino di disprezzo nei confronti della vigliaccheria e della sfrontatezza del mondo culturale degli anni ’90. Eccetto Ge Hongbing con i suoi scritti piuttosto accademici, tutti questi giovani intellettuali sono critici nei confronti della realtà e divulgano i valori del liberalismo adottando uno stile informale e breve, penetrante e violento, sul modello di Lu Xun. Essi criticano in maniera particolarmente violenta gli intellettuali cinesi e ritengono che gli anni dopo il 1949 abbiano rappresentato un mezzo secolo di sconfitte per l’intera categoria degli intellettuali. La loro comparsa ha portato un respiro critico fresco e pieno di nuovi fermenti nel mondo culturale cinese depresso e mediocre, correggendo e riequilibrando la sfrontatezza del pensiero strumentalizzato e frivolo della cultura di massa.
I giovani intellettuali liberali hanno il coraggio di resistere
Quello che è più ammirevole è che quando i loro diritti personali fondamentali vengono infranti dal potere totalitario, essi riescono a unirsi e sostenersi reciprocamente per sfidare apertamente e all’unisono i governanti. Yu Jie, per esempio, dopo essere stato privato ingiustamente del diritto al lavoro, come prima cosa ha sfidato apertamente in prima persona l’Associazione degli Scrittori Cinesi ormai strumentalizzata, poi ha ottenuto anche il sostegno di Mo Luo e di Ge Hongbing che hanno firmato congiuntamente una petizione. Quando il Partito Comunista ha vietato la pubblicazione ufficiale in Cina delle opere di Gao Xingjian, tutti insieme hanno sfidato la famigerata Associazione degli Scrittori Cinesi firmando ancora una volta un documento congiunto. Essi non solo sono liberali come atteggiamento mentale, ma si sforzano tatticamente di essere tali anche nel loro comportamento. Huang Qi e Li Yonggang ad esempio hanno propagato e dato impulso alle idee liberali attraverso la creazione di siti in rete e, nell’era di Internet, il valore di questa loro iniziativa supera di gran lunga quello dei loro scritti.
Nel 1998, in seguito alla repressione del Partito Democratico e del Falungong da parte del partito al potere, anche il mondo intellettuale liberale, che dava segnali di ripresa, ha subito un’ennesima campagna di “rettifica ideologica”. Al partito comunista è molto chiaro chi è più utile alla causa dell’attuale establishment politico, perciò l’oggetto della rettifica sono esclusivamente gli intellettuali che hanno una posizione liberale, mentre le modalità sono sempre quelle tradizionali: carcere, lista nera, intercettazioni, pedinamento, esclusione dai pubblici uffici, critica ideologica di massa con riferimento esplicito o meno … ecc. Bao Tong da quando è uscito dal carcere è sempre rimasto sotto stretta sorveglianza; Li Shenzhi, Mao Yushi e Cao Siyuan della vecchia generazione sono stati ammoniti; Liu Junning è stato privato del suo impiego all’Accademia di Scienze Sociali; Qin Huang, He Qinglian e Qian Liqun hanno subito in misura diversa richiami all’ordine da parte delle rispettive unità di lavoro e Yu Jie, appena terminato il dottorato, è stato privato del lecito diritto al lavoro; il sito Internet di Li Yonggang “I confini del pensiero” è stato bloccato, quello di Huang Qi “Cercare le persone in rete” non solo è stato costretto a chiudere, ma Huang Qi stesso è caduto in disgrazia finendo in carcere.
L’ansia di potere del partito fa sì che esso non riesca ad abbandonare la tradizione di dominare reprimendo con la forza, ma ciò ne accresce anche la incertezza di fronte a un corso storico inarrestabile, alimentandone il timore di perdere la legittimazione al potere politico e la preoccupazione di fronte alle pressioni dell’opinione pubblica internazionale. Senza contare che il trasferimento dell’autorità di governo da un livello all’altro comporta in fin dei conti una notevole minimizzazione dei risultati reali e della capacità deterrente della repressione stessa. Per esempio il divieto N°305/A del Dipartimento di Propaganda del Partito Comunista Cinese, non è riuscito a tappare completamente la bocca e a fermare la penna degli intellettuali liberali che riescono tuttora a esprimere apertamente le proprie opinioni politiche su influenti giornali e riviste cinesi. Il fatto che alcuni riescano a pubblicare editoriali su giornali molto grandi e conosciuti è una riprova della forza del gruppo dei liberali. Attraverso i venti anni del movimento “illuminato”, e la dura prova del movimento dell’89, i concetti economici e il pensiero politico liberale si stanno diffondendo gradualmente nel mondo culturale non solo giovanile e tra gli imprenditori privati, cosi come il concetto di democrazia sta diventando sempre più comune tra la popolazione cittadina più interessata.
Questi gruppi sociali che credono nei valori liberali, anche se nei loro comportamenti devono scendere a compromessi in nome degli interessi generali, sul piano concettuale e interiore si riconoscono sempre più difficilmente in un sistema dittatoriale a partito unico, e per quanto possibile rispondono passivamente al controllo politico del Partito Comunista, confermando così che l’ipocrisia è già diventata la tattica esistenziale comune dei cinesi in Cina.
Questa doppia personalità cinica non è in grado di fornire un sano sostegno etico alla formazione di un nuovo sistema, ma la sua diffusione in questo momento dimostra che la legittimità del potere del Partito Comunista è ormai distrutta nell’animo delle masse. Proprio come ha evidenziato l’attuale presidente della Cecoslovacchia, Havel, la maggior parte di coloro che erano rimasti in silenzio sotto la pressione del potere sono stati poi proprio quelli che hanno posto le basi del successo della “rivoluzione di velluto” ceca.
In questo senso, la resistenza tenace degli intellettuali liberali non potrà non dare frutti, proprio come sta dimostrando la resistenza non violenta del Falungong: la maggioranza di coloro che rimangono in silenzio sotto il giogo del potere e dei favoritismi non potrà rimanere in silenzio per sempre. L’orientamento generale della storia e il corso della civilizzazione mondiale non si possono più ostacolare, basta solo che in Cina le voci liberali non si estinguano completamente, e che il liberismo economico continui ed allora l’idea di democrazia si diffonderà sempre di più e la necessità della riforma politica si farà sempre più urgente. Se ha potuto farcela il popolo ceco, perche il popolo cinese non potrebbe fare altrettanto, e se i cinesi di Taiwan hanno potuto fare il miracolo politico, perché non potrebbero riuscirci anche i cinesi della Repubblica Popolare?!