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EDITORIALE

Il Partito Comunista a congresso
tra crisi di fiducia, nuove teorie e appelli al cambiamento

di Lina Tamburrino

Il sedicesimo congresso del partito comunista cinese è stato fissato per l'8 novembre prossimo1. Le precedenti assise si sono svolte sempre nei mesi di settembre o di ottobre. Il ritardo di questa volta ha scatenato varie speculazioni. La più scontata ha puntato il dito sulle difficoltà che il vertice uscente avrebbe incontrato nella calibratura dei nuovi organismi dirigenti. Ma non manca un'altra spiegazione più diplomatica: non intralciare il viaggio di Jiang Zemin negli Stati Uniti il prossimo 25 ottobre. Al ranch texano di George W. Bush l'ospite cinese vuole presentarsi nella pienezza delle sue tre cariche: segretario del partito, presidente della Repubblica, presidente della Commissione militare. A definire (e probabilmente consolidare) i contenuti dell'amicizia con gli Stati Uniti ci sarà dunque un uomo che appena qualche settimana dopo avrà un potere dimezzato. Ma non sarà tale la sua eredità.
Dal congresso del settembre 1997 a oggi la Cina ha accresciuto enormemente il peso geografico, politico, economico. Il 1997 è stato l'anno della morte di Deng Xiaoping e del rientro di Hong Kong. Più tardi la Cina ha riavuto anche Macao, ha intensificato le pressioni diplomatiche e le minacce nei confronti di Taiwan, è stata colpita (ma non travolta) dalla crisi finanziaria asiatica, ha mutato la composizione dei vertici istituzionali con l'arrivo di Zhu Rongji nel 1998 alla guida del governo, è finalmente entrata nell'Organizzazione Mondiale del Commercio, ha accettato, dopo l'11 settembre dello scorso anno, di fare parte della santa alleanza antiterroristica accanto alla Russia di Putin, all'Unione Europea e naturalmente agli Stati Uniti di George W. Bush. Ha dato così prova di un'apertura politica all'Occidente del tutto inusuale nella storia della politica estera cinese. Dall'esplosione della crescita la leadership è stata costretta a interrogarsi con più realismo e in misura più sofferta sui mutamenti in corso nel paese. Ha corretto- perché necessario- la strategia di politica economica, si sta rivelando sempre più preoccupata per l'acuirsi dei rischi e dei guasti del dualismo che segna oggi la realtà cinese2. Comportamenti, questi, abbastanza prevedibili e ineludibili. Meno scontato invece- e tutto sommato meno prevedibile- è il travaglio che sta attraversando il partito, colpito dall'inaridimento delle radici più profonde del suo rapporto con la società. 
Quante volte l'Occidente si è chiesto se anche in Cina l'uscita dalla stagnazione e dalla arretratezza economica avrebbe messo in moto un protagonismo sociale che a sua volta avrebbe premuto per il superamento della connotazione autoritaria dello stato cinese. In realtà il mondo occidentale ha sempre oscillato, nelle interpretazioni della Cina, tra la previsione del 'collasso' e quella più benevola della 'democratizzazione'. La curiosità e l'attenzione dell'Occidente sono naturalmente del tutto legittime, fondate, necessarie. Ma molte delle sue ipotesi interpretative si discostano da quanto realmente sta succedendo in Cina. La crescita economica non sta premendo per una democratizzazione in senso occidentale. Sta invece aprendo problemi del tutto inediti perché logora le regole e i meccanismi che hanno strutturato la società dal 1949 e dunque il rapporto di fiducia tra partito e paese. Il partito è vecchio: i membri con meno di 35 anni rappresentano appena il 15 per cento del totale degli iscritti. Non garantisce molto spazio alle donne (17,5%)e alle minoranze etniche (6,2%). E' pieno di operai e contadini (45,1%), due strati sociali che oggi attraversano in Cina una crisi di identità fortissima. Ha una consistente presenza di funzionari e militari (21,3), e una scarsa presenza invece, appena l'11 per cento, di personale manageriale, i cosiddetti 'tecnici' delle imprese e istituzioni pubbliche3. Eppure una struttura cosi chiusa è stata percorsa da fremiti di novità nella recente preparazione congressuale. In molti villaggi i contadini hanno voluto scegliere loro i locali segretari di partito. Non lo hanno fatto naturalmente nell'illusione di pesare sulle scelte di Pechino, obiettivo del tutto irrealizzabile nei meandri del 'centralismo democratico'. Lo hanno fatto per una rapace voglia di garantirsi i vantaggi locali della crescita economica: il frutteto al posto della coltivazione del grano, le abitazioni nuove, l'offerta turistica della seconda casa per gli abitanti delle città4. Qualcosa di nuovo è successo anche ai livelli più alti nella designazione dei delegati al congresso, eletti a voto segreto e su liste aperte. Il 63 % ha meno di 55 anni rendendo così l'età media dei delegati più bassa della età media degli iscritti al partito. Fortunatamente, anche se non sappiamo ancora quanti di questi cinquantenni o poco più arriveranno oltre che nel Comitato centrale anche nell'Ufficio politico e nel Comitato permanente, gli organismi ai quali, in tempi più ravvicinati e con misure più incisive, toccherà dare prova di grande fantasia per risanare il rapporto con la società cinese. Ammesso che sia un obiettivo raggiungibile. 
Il distacco tra partito e società è profondo. I commentatori cinesi si irritano quando leggono libri, articoli, analisi occidentali sull'inevitabile 'collasso' della Cina5. Naturalmente è impossibile prevedere se ci sarà o meno il 'collasso'. Ma perché non riflettere anche su un'altra ipotesi, e cioè che un giorno in Cina possa aversi una qualche moderna forma di 'rivolta dei Boxer'?. La pressione del modello americano è ormai fortissima, dal cibo all'uso del tempo libero, dalla cultura di massa ai comportamenti sessuali delle giovani generazioni urbane. Il fastidio antiamericano non è confinato tra i vecchi della 'sinistra interna' di partito, lambisce anche strati dell'intellettualità più giovane che è solleticata dal nazionalismo ufficiale ma si sente umiliata da quella che giudica l'eccessiva 'accondiscendenza' cinese nei confronti degli Stati Uniti. Ecco una prima sfida per i nuovi dirigenti del partito. La seconda rinvia a quella che Edoarda Masi ha chiamato la 'istituzionalizzazione delle gerarchie'6. Il partito è stato lo strumento e il soggetto di questa 'istituzionalizzazione, ma proprio quest'ultima viene oggi messa radicalmente in crisi dallo sviluppo economico. In una società percorsa da ondate sempre più profonde di crescita, e quindi di consumismo, la struttura gerarchica non regge più e in questo la Cina è terribilmente vicina a quanto accade nelle realtà avanzate dell'Occidente, segnate da atomismo individuale e fluidità sociale. Ma rispetto all'Occidente è meno dotata degli strumenti e delle idee utili a impedire che dalla fluidità si precipiti nel caos. Non è un caso allora che gli interrogativi sul 'che fare' siano partiti dall'urgenza di una revisione ideologica, avviata naturalmente da Jiang Zemin, nella sua veste di segretario interessato a riportare (e a esaltare) nell'alveo della tradizione tutto quanto è successo nel paese in questi ultimi anni. Va letta in questa ottica l' 'invenzione' da parte di Jiang della teoria delle 'tre rappresentatività': il partito rappresenta le forze produttive più avanzate, l'antica civiltà cinese, gli interessi della maggioranza della popolazione. Dal febbraio del 2000, quando è stata per la prima volta enunciata, la teoria delle 'tre rappresentanze' è diventata la frase magica della vita del partito, il simbolo dell'unità interna, la chiave di volta per esorcizzare le difficoltà, il veicolo dell'alfabetizzazione politica degli iscritti dovunque essi si trovino, negli uffici di Pechino o nel più remoto villaggio contadino7. Il richiamo alle forze produttive e alla antica civiltà serve a disperdere il timore cinese di una resa incondizionata alla 'apertura' all'Occidente, il quale viene avvertito di non illudersi che la Cina possa svendersi o si stia svendendo. Il richiamo agli interessi della maggioranza del popolo è servito invece a Jiang Zemin per preparare la svolta che ha compiuto un anno e mezzo dopo aprendo le porte del partito comunista agli strati sociali produttivi, gli imprenditori privati, nati grazie alla riforma economica, i cosiddetti 'capitalisti' (ma il segretario non ha mai usato questo termine)8
Se siano sufficienti queste mosse è difficile dirlo. Nella ricerca di vie di uscita, i vertici del partito hanno preso delle iniziative interessanti e singolari, segnate anche da una certa umiltà. Per la prima volta infatti hanno accettato di uscire dalla loro autarchia ideologica per confrontarsi con il mondo esterno su un tema estremamente delicato, il loro modo di "essere comunisti". Nel luglio scorso hanno invitato a Pechino i rappresentanti dei partiti socialisti e socialdemocratici europei e dei Ds italiani, per avere con loro un confronto sulla sorte (o meglio sulla crisi) che interessa anche in Occidente i partiti di massa (ammesso che si possa ancora usare un termine del genere). E per capire se le esperienze del socialismo occidentale possano essere d'aiuto alla Cina9.Le analisi che hanno ascoltato probabilmente non li hanno rassicurati. Gli interlocutori occidentali arrivavano da paesi con società civili dove il patrimonio di diritti e di doveri si è strutturato nel corso di secoli, ha una sua autonomia e funziona con regole non dettate o non identificabili con quelle degli apparati di partito. A loro volta i partiti rappresentati venivano da esperienze tormentate, con alle spalle dei mutamenti radicali nelle finalità programmatiche (l'abbandono della prospettiva comunista), nella denominazione, nel modo stesso di essere un partito. Niente di più lontano dall'esperienza cinese dove, per fare solo l'ultimo esempio, la designazione delle candidature al vertice dirigente e alla carica di segretario anche questa volta, grazie proprio al centralismo democratico, è rimasta circondata di una aura di mistero e di sacralità. I comunisti cinesi hanno ricevuto informazioni su paesi dove -come hanno confermato le ultime esperienze elettorali negative prima in Italia e poi in Francia- l'adesione alle forze di sinistra non ha più niente di ideologico, è fortemente ancorata ai programmi, ha un certo tasso di flessibilità e di mobilità. Difficile dire se i dirigenti che hanno preso l'iniziativa di invitare i rappresentanti della sinistra europea ritengano valida o auspicabile anche per il loro partito un tale tipo di rapporto con la società. 
La leadership cinese si trova a dover affrontare una contraddizione forse paralizzante. Nell'orizzonte del partito, anche se con tempi non precisati, resta l'obiettivo del comunismo. Nell'attesa, il 'socialismo con caratteristiche cinesi' di oggi altro non è che l'accettazione delle regole della produzione e del consumo del sistema capitalistico, quelle stesse regole che rendono difficile (se addirittura non distruggono) la vita del protagonista della futura società comunista. Anche per sfuggire a una tale contraddizione in questi ultimi due anni si sono levate dall'interno stesso del partito voci che in maniera più realistica e meno ridondante hanno chiesto ai vertici dirigenti di dichiarare ufficialmente chiusa la lunga fase del partito ancora 'strumento ed erede della rivoluzione' e sancire il passaggio al 'ruling party', al partito di governo. Il Pcc naturalmente è già da lungo tempo, almeno dalla svolta denghista della fine del 1978, partito di governo. Sanzionarlo ufficialmente servirebbe, agli occhi di chi caldeggia una dichiarazione del genere, ad affrettare i tempi delle necessarie correzioni ( le cosiddette riforme) nel partito, nelle istituzioni, nei loro rapporti con la società10

Note

1Alle conclusioni del sedicesimo congresso sarà interamente dedicato il prossimo numero di Mondo cinese. I delegati al congresso sono 2120, scelti in 38 'unità' elettorali, a voto segreto e su liste con più candidati. Le donne sono pari al 18 per cento del totale, quasi mezzo punto in più rispetto alla percentuale di iscritte al partito. 

2Per le correzioni di politica economica rese necessarie nel vivo della crisi asiatica e adottate dal primo ministro Zhu Rongji cfr. Laurence J. Braham, Zhu Rongji & the Transformation of Modern China, John Wiley & Sons (Asia) Pte Ltd, Singapore 2002. Il primo ministro ha spostato l'accento su una strategia che privilegia i consumi interni e un massiccio impegno di investimenti nelle infrastrutture e nelle opere pubbliche. 

3Gli iscritti al partito sono 66milioni e 355 mila, sei milioni in più rispetto al 1997. Tra il 1997 e il giugno del 2002 , ci sono stati 12 milioni di nuovi membri. E' da sottolineare che tra i nuovi iscritti sale al 75,2 per cento la percentuale di quelli con età inferiore ai 35 anni. E sale anche la percentuale delle donne che raggiungono il 25,4. Cfr. "Ranks of Cpc Members Full Life and Vigor", People's Daily Online, 2 settembre 2002.

4Cfr. Charles Hutzler, "Winding Road To Reform", Far Eastern Economic Review, 5 settembre 2002.

5Cfr. Xiao Ding "Is China about to Collapse?" in Beijing Review, vol. 45, n.27, 4 Luglio 2002. Nell'articolo oggetto della polemica è stato innanzitutto il libro di Gordon Chang, The Coming Collapse of China, (Random House, New York) pubblicato nel luglio 2001. 

6In realtà Edoarda Masi utilizza questa definizione analizzando il sistema imperiale. Ma non vi è dubbio che essa si adatti perfettamente anche al sistema creato dal partito comunista. Cfr. Edoarda Masi, Storie del bosco letterario, Libri Scheiwiller, Milano, 2002.

7Jiang Zemin ha enunciato la teoria delle 'tre rappresentatività' per la prima volta nel febbraio del 2000 mentre si trovava a Gaozhou, nella provincia del Guangdong. Nei discorsi successivi l'ha ulteriormente puntualizzata. La raccolta dei suoi testi sul tema è stata tradotta in lingua inglese e pubblicata a maggio, a Pechino, dalla Foreign Languages Press. In vista del congresso, è stato invece dato alle stampe, a luglio, il volume che raccoglie tutti i discorsi tenuti dal segretario dal suo insediamento nel giugno del 1989 a oggi. 

8Cfr. Jiang Zemin, Speech at the Rally in Celebration of the 80th Anniversary of the Founding of the Communist Party of China, New Star Publishers, Beijing luglio 2001.

9Si è svolto a Pechino, il 2 e il 3 luglio di quest'anno, l'incontro internazionale sul tema "Cambiamento sociale e costruzione del partito", organizzato dalla sezione Europa Occidentale del dipartimento di Politica estera del Comitato centrale del Pcc. 

10Cfr. Pan Yue "Riflessioni sul passaggio da partito rivoluzionario a partito al potere (o di governo)". Il testo è stato pubblicato sulla rivista Kaifang, n.7, luglio 2001, ma in Cina ha avuto una circolazione solo all'interno del Pcc. La voce di Pan Yue, vice presidente della Commissione di Stato per la riforma del sistema economico, non è isolata. L'economista Hu Angang, docente del Centro per la riforma della pubblica amministrazione alla università Qinghua di Pechino, si aspetta che il partito diventi più democratico e che l'Assemblea nazionale del popolo si trasformi in un vero e proprio Parlamento. Il Pcc, ha dichiarato Hu, deve trasformarsi da partito rivoluzionario in partito di governo e mirare a diventare un partito democratico di governo. Cfr. Mark O'Neill "More democracy needed in party", South China Morning Post , 8 luglio 2002.

 

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