Un altro maestro se ne è andato. Giorgio Borsa (1912-2002) ci ha lasciati il 19 giugno
scorso, lontano dai suoi libri e dal suo scrittoio ma ancora pieno di vigore intellettuale. Rispetto al
mondo degli orientalisti italiani è stato una figura anomala: non un sinologo, non uno specialista di
cultura indiana. Mai pretese di arrogarsi la conoscenza di una delle lingue o dell'archeologia dell'Asia
orientale. A Borsa interessava il mondo moderno, il fenomeno della modernizzazione quale globalizzazione, se
si vuole: l'avventura che l'antica realtà dell'Asia aveva attraversato e attraversa nel suo rapporto con
l'Occidente, con il tipo di società e di pensiero emersi in Europa dal Settecento in poi.
Era certamente un uomo formato nella cultura e nel pensiero dell'Europa illuminista e liberale. La sua
famiglia era strettamente identificata con la storia del giornalismo democratico del nostro paese: suo
padre Mario Borsa, era stato negli anni '30 corrispondente del Times di Londra e nel 1945 era divenuto
direttore del Corriere tornato ad essere voce di libertà e di apertura internazionale. Giorgio aveva
ereditato dal padre la posizione di corrispondente del Times dalla "moderna" Italia del Nord e la tenne
per lunghi anni dopo la guerra. Era di formazione britannica: il Times, nel pieno dell'epoca fascista,
aveva consentito a suo padre di farlo studiare a Oxford, dove aveva acquisito la sua visione mondiale
della storia moderna, un'indefettibile coscienza liberale e un vivo interesse per i problemi dell'India e
dell'Asia in rapido mutamento in quei travagliati anni '30.
Fu quindi naturale che proprio lui fosse l'esperto incaricato di studiare l'Asia nel rinato Istituto per
gli studi di politica internazionale di Milano e di seguirne i problemi sul settimanale Relazioni
Internazionali. Ed è lì che è stato il mio, ma non solo mio, maestro: un maestro implacabile nel
richiamare alla necessità di una puntigliosa documentazione, da raccogliere, schedare, conservare sul
lungo periodo, in modo da fornire un'informazione ben fondata su precedenti capaci di offrire un filo
interpretativo, ma mai una deformazione politica e ideologica. In questo senso un maestro di stile
corretto e liberale, anche se poi nel dibattito si poteva violentemente scontrarsi con lui su tesi e
interpretazioni oltre che, naturalmente, per scelte politiche. In questo senso egli ha veramente molto
contribuito ad aprire a una visione mondiale la miserabile cultura politica del nostro paese: l'Asia
contemporanea ha cessato di essere un oggetto sconosciuto o un gingillo esotico perché Giorgio Borsa (e,
sia permesso di dirlo senza ostentazione, i suoi allievi) hanno fornito informazioni, serie, esaustive,
razionali. E magari soggette a interpretazioni diverse, ma mai copiate dall'ultimo giornale americano o
raffazzonate per seguire tendenze strumentali.
E poi gli vennero - ma quanto combattuti e quanto duramente strappati ai condizionamenti di un mondo
accademico indegno di un paese moderno - i riconoscimenti dovuti al suo valore: la cattedra di Storia
diplomatica dell'Asia orientale e di Storia moderna all'Università di Pavia, dove fu finalmente
abbracciato da una confraternita di amici e di allievi che seppe trasformare, con l'aiuto di Paolo Beonio
Brocchieri, in uno straordinario cenacolo di ricerca e di documentazione. Ciò che vi era di straordinario
in lui - a lungo professore di storia e filosofia nei licei - era la capacità di inserire la storia
dell'Asia moderna nel grande processo della storia mondiale, sia per il gioco diplomatico e politico, sia
per le vicende del pensiero. Così furono subito grandi contributi accessibili a lettori anche non
specialistici, L'Estremo Oriente tra due mondi (Laterza 1961), La nascita del mondo moderno in Asia
orientale (Rizzoli, 1977) e il recente Dieci anni che cambiarono il mondo (Corbaccio, 1995). Già nel
periodo bellico la sua biografia di Gandhi (ora ristampata da Bompiani) aveva dimostrato come si potesse
studiare un ribelle all'Inghilterra vedendo in lui un uomo libero che non si doveva o poteva
strumentalizzare. Un maestro quindi che mancherà in quest'Italia meschina e priva di una coscienza
razionale della storia.