1. Vecchie paure e nuove domande
"Ciò che è buono per la Cina è buono per l'Asia, la Cina sarà il motore della crescita dell'intero continente". Così, parafrasando il noto adagio confezionato per General Motors e Stati Uniti, Justin Yifu Lin, presidente del China Center for Economic Research dell'Università di Pechino, ha cercato di spiegare ai delegati dell'Assemblea annuale della Banca Asiatica di Sviluppo riuniti a Shanghai nel maggio 2002, perché l'ingresso della Cina nel WTO (World Trade Organization) non rappresenterà una minaccia. "Abbiamo un potenziale di crescita tra il 7 e l'8% per altri due o tre decenni - aggiunse nella stessa occasione il premier Jiang Zemin di fronte a tutti i leader asiatici -, la partecipazione della Cina al WTO sarà una iniezione di fresca vitalità nell'economia
asiatica"1.
Le cifre sembrano dare ragione a Pechino: all'inizio dell'anno è stata proprio la domanda cinese ad aver trainato il boom delle esportazioni di Corea del Sud, Taiwan e Singapore e in Cina gruppi giapponesi hanno ricominciato a trasferire intere filiere produttive, dai funghi ai DVD, a dimostrazione che l'integrazione economica dell'Asia sta procedendo velocemente. Per la Cina, il valore delle importazioni dal Sud-Est eccede il valore delle esportazioni nella regione, in ogni 100 dollari di esportazioni ce ne sono 50 di input provenienti dal resto dell'Asia. Combinazione più felice, dunque, non sarebbe possibile.
Pechino rassicura i vicini. L'Amministrazione Bush rassicura i propri elettori sedotti dalla destra di Pat Buchanan e dagli argomenti anti-trade dei radical e dei sindacati: gli Usa hanno tutto da guadagnare dall'affermazione del libero mercato nell'ex Impero di Mezzo. Rassicura anche l'Europa, con francesi e tedeschi eccessivamente ossessionati dal rischio di delocalizzazione produttiva che si è dimostrata più un'arma di ricatto nei confronti dei sindacati che non un fenomeno di ampia portata. Il sogno è che pian piano l'euro sostituisca il dollaro nei ricchi forzieri delle banche centrali asiatiche2.
La strategia della rassicurazione a 360 gradi è troppo scoperta per essere del tutto convincente. Alla fine del 2001 l'ingresso della Cina nella Omc era passato in secondo piano per l'emergenza terrorismo, ma adesso, raffreddato lo shock delle Twin Towers e scampati alla quasi recessione globale, riaffiorano vecchie paure e nuovi interrogativi. Chi avrà la peggio nella guerra su scala continentale al salario più basso? Chi sarà più danneggiato dalla fatale attrazione che la Cina continua a esercitare sui flussi internazionali di investimenti diretti?
Basta scorrere qualche cifra per trovare le risposte. Un'ora di lavoro di un addetto non qualificato dell'industria manifatturiera costa 60 cent in Cina contro 2 dollari e mezzo in Malaysia, 5 a Singapore e 25 in Giappone. Di solito i salari aumentano quanto più veloce risulta la crescita complessiva dell'economia, ma in Cina questo schema funziona limitatamente. Secondo la Morgan Stanley, negli ultimi 10 anni le retribuzioni (aggiustate con l'inflazione) sono aumentate dell'88% mentre la crescita del PIL del 162%. Motivo: la vastità del mercato. Con 18-20 milioni di cinesi che si aggiungono ogni anno alla forzalavoro, l'offerta di lavoro è praticamente inesauribile.
Quanto alla fatale attrazione per il capitale internazionale, secondo le stime Unctad nel 2001 gli investimenti diretti in Cina sono ammontati a 46,8 miliardi di dollari, il 15% in più rispetto al 20003. Dai primi anni '90 la Cina è la nazione che attrae più investimenti diretti dall'estero tra i paesi in via di sviluppo e seconda nel mondo solo agli Usa. Nel 2001 Corea del Sud, Filippine e Indonesia hanno visto il flusso di investimenti diretti calare, Taiwan ha chiuso l'anno senza variazioni. Ciò riflette un fenomeno reale: molti paesi in via di sviluppo stanno trasferendo o impiantando ex novo in Cina produzioni manifatturiere sia a basso che a medio ed elevato contenuto tecnologico. L'industria dell'abbigliamento del Pakistan si ritrova spiazzata allo stesso modo dell'industria del software di Giappone e India. L'anno scorso le esportazioni cinesi ad alto contenuto tecnologico pesavano per il 18,5% sul totale delle esportazioni, contro solo il 5% del 1985. Gli esperti più ottimisti sostengono che Pechino è in ritardo solo di 3 anni nella produzione di software rispetto all'India e, nonostante gli sforzi degli Usa per non farla nemmeno avvicinare alla 'curva' dell'alta tecnologia alla Cina, il paese sta guadagnando terreno nella produzione di semiconduttori4.
2. Un Vantaggio per l'Asia
L'effetto positivo del traino cinese di cui gode oggi mezza Asia non è dunque un gioco a somma zero. Malaysia, Thailandia, Indonesia, Filippine, in parte Giappone in alcune filiere a più elevato valore aggiunto e Cina non competono solo per la localizzazione manifatturiera a diversi livelli di contenuto tecnologico, competono per attrarre lo stesso capitale e mantenere relazioni privilegiate con la rete delle imprese transnazionali che guidano i flussi finanziari diretti. La Cina importa dall'Asia quattro quinti dei beni intermedi di cui ha bisogno e dirige nel continente due terzi delle esportazioni: più' si estende il fenomeno di delocalizzazione produttiva a favore della Cina, maggiori sono le probabilità di un mutamento di questi flussi. Meno la Cina importa direttamente beni intermedi, meno lavoro ci sarà nei paesi ex fornitori. Ecco perché la Cina è riconosciuta in Asia come la regione leader, è sicuramente rispettata tanto più a fronte della lunga "malattia giapponese", ma non è particolarmente amata e, anzi, è temuta5.
Per gli Stati Uniti la 'corsa' cinese propone problemi diversi. Dal punto di vista commerciale, il vantaggio dalla liberalizzazione del mercato interno è in tempi ravvicinati evidente per l'agricoltura e in prospettiva considerevole nei servizi di telecomunicazione e finanziari. Nell'opinione e al Congresso, però, ha sempre molto peso la polemica sugli effetti negativi del free trade sull'occupazione anche se in buona parte fondata su un equivoco. Gli uffici doganali statunitensi, infatti, calcolano come importazioni dalla Cina ciò che all'85% è valore realizzato altrove6. Man mano che è proseguita la delocalizzazione produttiva verso la Cina, il deficit commerciale americano nei confronti della Cina è andato sì alle stelle, ma quello con le Tigri asiatiche è declinato.
Passati dalla 'partnership strategica' di Clinton alla più delimitata e ambigua categoria di 'competizione' tra partner proposta da Bush, gli Usa rischiano di trasformare la 'vittoria' di ieri (l'accettazione di forti vincoli a favore dell'apertura dei mercati da parte della Cina) in un boomerang politico-economico. La virata protezionistica nella primavera 2002 (su acciaio e agricoltura), con l'obiettivo di rafforzare la ripresa dopo la recessione e compensare la crescita stentata del commercio mondiale nel 2002-2003, ha automaticamente posto la Cina alla testa di un fronte di grandi nazioni, Brasile e India in primo luogo, che - paradosso tra i paradossi - sembrano aver rimpiazzato gli Usa nel ruolo di strenuo difensore del free trade. Tanto che "The Wall Street Journal" ha immaginato un'Amministrazione Bush finita "nell'ignominia e nel mirino di una campagna globale in nome del libero commercio capeggiata da
Pechino"7.
3. Il rapporto tra yuan e dollaro
Ma c'è un altro fattore che per gli Usa ha un peso rilevantissimo, il fattore stabilità. Confermando l'aggancio dello yuan al dollaro, la Cina ha agito da ancora del sistema finanziario e valutario asiatico all'epoca della crisi del Sud-Est nel 1997-1998, ha dimostrato di essere in grado di 'calmierare' le tensioni che si possono propagare in (o possono arrivare da) altri mercati emergenti (America Latina, Est Europa). Inoltre, a Washington non si sottovaluta certo il ruolo decisivo che ha avuto il capitale cinese nel sostenere la forza del dollaro fino alla primavera 2002. Nel 2001 la Cina, tra i paesi in via di sviluppo il maggior investitore e 8° su scala mondiale, ha investito 51,8 miliardi di dollari in titoli federali e obbligazioni private, contro i 15,5 miliardi del 2000. A questi vanno aggiunti i 40,3 miliardi di dollari investiti da Hong Kong in titoli nei 2 anni. Nello stesso periodo, la quota europea dei flussi verso gli Usa scendeva dal 66% del 2000 al 51% del 2001 e rallentava il ritmo di crescita dei flussi dal Giappone8.
Tutto questo non mette in discussione la leadership dell'economia americana, ma certamente delimita il perimetro entro il quale questa può essere liberamente esercitata senza dover tenere conto degli interessi altrui. Rende la Cina una nazione dalla quale non si può prescindere anche per la stabilità finanziaria globale.
Da parte cinese i ragionamenti sono di tutt'altra natura. L'ingresso nel WTO non è stato il naturale ed automatico coronamento dei precedenti vent'anni di "socialismo di mercato" come non è neppure, di per sé, una garanzia di successo economico futuro. La novità degli ultimi anni è scaturita proprio dalla crisi delle Tigri del Sud-Est dopo la quale Pechino non è più sicura di poter mantenere a lungo l'attuale regime di cambio agganciato al dollaro (8,27 yuan per dollaro) e di potersi considerare al riparo da una nuova tempesta finanziaria e valutaria originata altrove. Non solo: ora si teme più il rallentamento del processo di riforma interna che non i rischi, sociali e politici determinati da questo stesso processo se condotto in profondità. Ecco perché la Cina per ottenere lo status di global player nelle relazioni economiche internazionali (di cui il WTO è l'istituzione chiave) ha accettato condizioni ben più gravose di quelle sostenute da altri paesi in via di sviluppo. E' il caso della fine della fornitura ai contadini poveri di input (come i fertilizzanti), dell'accesso condizionato ai mercati esteri per cui gli altri membri WTO fino al 2013 possono imporre barriere protettive contro merci cinesi dimostrando che provocherebbero seri danni all'economia interna.
La Cina ha rafforzato il suo storico vantaggio comparato in quattro settori, tessile, abbigliamento, materiale elettrico ed elettronico ed è destinata a trarne beneficio, in parte limitato dalle perdite nel settore agricolo. Secondo l'Ocse, l'ingresso nel WTO aggiungerebbe l'1% di crescita del prodotto ogni anno e non é poco se si pensa che dal 1996 la crescita del PIL é stata di poco superiore alla media dell'8% annuo, il 2% meno della media dei 15 anni precedenti. Ma questo traguardo non é vicino, dal momento che fra il 2004 e il 2008 sarà l'unico paese al mondo potenzialmente soggetto all'imposizione di quote sul tessile e per altri 15 anni sarà soggetto alle misure anti-dumping (vendite sottocosto) con grande soddisfazione di Usa, Messico e India9.
4. La sequenza dei circoli viziosi
Pechino era riuscita a conciliare la transizione verso l'economia di mercato combinando un forte incremento del PIL, il mantenimento della struttura della grande impresa statale garantendo così l'impiego e il relativo sistema di Welfare. Ora si accorge che risulta più difficile una significativa partecipazione alla divisione internazionale del lavoro in altro modo che in termini "totalmente" capitalistici10. Inoltre, vero paradosso in tempi di globalizzazione, scopre gli effetti dell'interdipendenza non solo relativamente al mercato mondiale (suo vero punto di forza), ma anche relativamente ai fattori che interagiscono nel mercato interno. Il funzionamento dell'intero sistema dipende da passaggi di natura istituzionale e da riforme strettamente concatenati, che non possono più essere rinviati. Senza un intervento sulla struttura industriale statale che oggi ha costi ormai insostenibili, le stesse zone speciali in presa diretta con il mercato internazionale risulterebbero prive del sostegno di un mercato interno omogeneo e pronto ad aggiungere domanda o ad alimentarla di fronte a peggioramenti della congiuntura internazionale (va tenuto presente che la Cina è al primo posto per sovracapacità produttiva, emersa fin dai primi anni '90 nel settore tessile e nei macchinari elettrici, a metà decennio emerse nell'industria manifatturiera)11.
Ecco nascere una sequenza infinita di circoli viziosi. Le attuali politiche rafforzano le disparità regionali che hanno già oggi un effetto destabilizzante (il pil procapite di Shanghai è 12 volte quello della provincia di Guizhou nel sud-ovest)12. L'industria statale non è stata riformata anche per evitare tensioni sociali (che peraltro scoppiano una dopo l'altra), ma ora un intervento è necessario se si vuole evitare una vera e propria crisi generale di crescita. Questo a sua volta può essere socialmente destabilizzante. Quanto alle banche, la debole performance delle imprese statali fa aumentare i prestiti rischiosi degli istituti statali che le sostengono rendendole incapaci di finanziarne la ristrutturazione (la ristrutturazione delle banche e la realizzazione di un sistema di Welfare sganciato dalle imprese costerebbe l'equivalente del 50% del PIL)13. L'ingresso nel WTO costituisce il solo modo per limitare gli intoppi alle importazioni di cui la Cina ha estremo bisogno per alimentare il circuito delle esportazioni. La Cina deve difendere un ruolo chiave nella divisione del processo produttivo globale: il processing trade conta per il 50% delle esportazioni totali e per poco meno della metà delle importazioni. L'80% delle esportazioni di acciaio, ferro, macchinari elettrici, prodotti elettronici e più di due terzi di articoli in pelle e fibre chimiche sono processing export. E' questo il canale attraverso cui la Cina accumula valuta estera, acquisisce know-how tecnologico, trasmette all'interno impulsi competitivi, mantiene un costante flusso di capitali dall'estero. L'unica possibilità per assicurare che tutto fili liscio in questo ramificato complesso di scambi, riducendo la vulnerabilità alle pratiche discriminatorie, è la partecipazione alle decisioni sul commercio multilaterale. Ciò è tanto più necessario se si pensa che sulla Cina si addensa il maggior numero di proteste anti-dumping del mondo, 450 casi nei soli primi nove mesi del 200114.
Nessuno naturalmente si aspetta che la Cina mantenga un profilo basso accettando supinamente le regole del WTO. E' già chiaro che si destreggerà in uno slalom tra le convenienze della disciplina esterna (contro chi all'interno ritarda le riforme), la propria agenda politica e le strettoie del consenso sociale. D'altra parte dall'Ovest non arrivano pressioni né a procedere a terapie più o meno shock né a precorrere i tempi della liberalizzazione del movimento dei capitali, contrariamente a quanto avvenne nel decennio '90 per l'ex Urss.
Segnali in questa direzione ce ne sono parecchi. I più recenti riguardano gli ostacoli della burocrazia nell'accesso ai servizi di telecomunicazione (c'è un progetto di costituire non più di 4 grandi società tlc - che saranno cinesi - al posto delle attuali 7, finanziari e della distribuzione, che dipende più dalle regole scritte e non scritte dai regolatori a vari livelli delle istituzioni che non da tariffe, quote e licenze stabilite dal ministero del commercio estero; il vincolo alle banche estere di ricapitalizzare le succursali e limitarne l'apertura di nuove a una all'anno.
E un profilo dichiaratamente assertivo la Cina lo ha presentato durante le assemblee della primavera 2002 del Fondo Monetario, quando il governatore della banca centrale Dai Xianglong ha chiesto uno stretto coordinamento tra le politiche economiche dei maggiori paesi sviluppati allo scopo di evitare ampie fluttuazioni tra le valute internazionali (riferendosi al deprezzamento dello yen), e di garantire ai paesi in via di sviluppo trasferimento di tecnologia e accesso pieno ai mercati ricchi. E ha pure chiesto di modificare il sistema di rappresentanza al FMI visto che "la partecipazione dei paesi in via di sviluppo all'economia mondiale non è adeguatamente riflessa nella loro quota del capitale e nel sistema di voto"15. Insomma, un attacco a fondo per affermare una fisionomia multipolare dell'economia mondiale.