Per decenni la tendenza generale negli studi sulla Cina contemporanea
è stata quella di pensare la Cina, di osservarla e di rappresentarla come un'entita' monolitica e di
utilizzare il paradigma della "differenza" nella disperata, e vana, ricerca di un'assolutezza definitoria.
Il vento dell'Orientalismo così come quello dell'Occidentalismo1 hanno costruito l'idea della
"Cina" e del cosiddetto "Occidente" come due sistemi di rappresentazione distinti e incomunicabili in quanto
dominati da imperativi, prospettive e pregiudizi ideologici, razziali e religiosi, funzionali al
mantenimento di un codice binario di visione del mondo.
Recentemente, il criterio della "differenza", sia come referente concettuale che come categoria
descrittiva, è stato assorbito e sviscerato tanto dagli "Studi post-coloniali" quanto da quelli Culturali:
partendo dalle formulazioni di studiosi quali, tra gli altri, Derrida e Lyotard2, si è arrivati
a riconoscere le enormi differenze tra le modalità di indagine critica dell'Oriente rispetto all'Occidente.
Tuttavia, questa nuova visione, se non analizza COME questa "differenza" si
è prodotta e COME si configura all'interno dei rispettivi universi epistemologici, rischia di riprodurre
un'altra versione della dicotomia proiettiva tra un Oriente creato ad uso e consumo dell'Occidente e il suo
alterego.
Marie Louise Pratt3 sostiene che la globalizzazione,
così come la democratizzazione e la
decolonizzazione, costituisce uno dei tre processi storici che stanno cambiando il nostro modo di studiare
la letteratura e la cultura. Nel caso della Cina, la narrativa del "villaggio globale", la cui visione era
stata anticipata da Marshall McLuhan4 negli anni Sessanta, fornisce, a nostro avviso, un interessante campo
d'indagine, che consente al contempo di sfatare lo stereotipo della Cina "Impero immobile" e di indagare il
terreno dialettico tra le diverse posizioni del Governo cinese e degli intellettuali.
1 - Il Lessico della globalizzazione
In Occidente la globalizzazione viene solitamente presentata, da un punto di vista storico-geopolitico,
come il nuovo ordine mondiale che ha sostituito il periodo della guerra fredda e, nell'immaginario
collettivo, la parola globalizzazione evoca immediatamente tre capisaldi: vittoria del modello capitalista,
rapidità della comunicazione tecnologica e internet. A cavallo del XXI secolo, il capitale
è divenuto l'icona suprema della globalizzazione e si è diffusa una visione che celebra la crescita degli
scambi del capitale globale e l'integrazione di tutti i paesi (ma proprio tutti?) nel commercio
internazionale. Sembra che la globalizzazione, con il conseguente corollario dell'onnipresenza e onnipotenza
del mercato a livello planetario, abbia reso irrilevante la consistenza degli stati nazionali. Ma
è proprio vero che la globalizzazione, che non è solamente un fenomeno economico ma ha assunto sempre
più
una forte e precisa valenza politica e culturale, comporterebbe una nemesi storica dei governi nazionali e
un loro superamento grazie alla costruzione di un'unica e universale identità sovranazionale? L'analisi
del discorso sulla globalizzazione in Cina, a partire dalla decostruzione semantica, sembrerebbe indicare
esattamente il contrario.
In Cina il termine che è stato coniato all'inizio degli anni Novanta per tradurre il concetto di
"globalizzazione" è quanqiuhua. Si tratta di un neologismo con un'apparente vaga e forse sinistra risonanza
taoista che, ad un'analisi piu' accurata, rivela in
realtà una precisa connotazione di stampo confuciano. è un composto di tre caratteri, il primo dei quali
significa "tutto (quan)", il secondo "globo terrestre (qiu)", accompagnati dal suffisso finale equivalente
all'italiano -zione (hua in cinese). Questo composto sembra fare da contraltare al concetto della "Cina
intera", espresso nella lingua cinese come quanzhongguo che significa letteralmente "tutto il Paese di
mezzo" ma anche "tutto il centro del mondo (civile)". Quest'analisi lessicale ci riconduce, in maniera
inequivocabile, a quello che rappresenta l'altro polo per eccellenza dell'acceso dibattito innescato negli
anni Novanta sul tema della globalizzazione: l'idea dell'individualità nazionale che, nel caso della Cina,
assume una precisa valenza nei termini di
integrità culturale e politica.5
Ma vediamo innanzitutto la posizione ufficiale: dal 1998 a oggi il Presidente della Repubblica Popolare
cinese (nonchè Segretario generale del PCC) Jiang Zemin e il Primo Ministro Zhu Rongji hanno trattato il
tema della globalizzazione in numerose occasioni, associando il termine "quanqiuhua" alla controversa
questione dell'ingresso della Cina nell'Organizzazione Mondiale per il Commercio
(OMC/WTO)6 e sottolineando
la necessità di prepararsi per adeguarsi alla non meglio precisata "nuova situazione". Nei discorsi
ufficiali, la globalizzazione è presentata sempre e in ogni caso nell'ambito del programma di "riforme e
apertura (gaige kaifang)", iniziato a seguito dello storico III Plenum del dicembre 1978, come se fosse il
suo approdo naturale e obbligato. Nel linguaggio ufficiale, il termine globalizzazione sembra essere il
degno sostituto dell'ormai obsoleto e logoro "modernizzazione", anche se poi entrambi sembrano poter essere
identificati con l'introduzione di capitali stranieri e tecnologie all'avanguardia, considerati necessari
per creare una Cina moderna, prospera, forte e, soprattutto, stabile (wending). "L'Occidentalismo" della
leadership post-maoista sembra aver sposato la tesi del pensiero economico dominante (ma dominato da
Washington) secondo la quale la globalizzazione dei mercati garantirà alle imprese i benefici delle
accresciute economie di scala e porterà a un diffuso miglioramenti dei redditi medi.
Tuttavia, la globalizzazione é un'arma a doppio taglio soprattutto perché la Cina rimane a tutt'oggi un
paese con 1.286.000.000 di abitanti, caratterizzato da un'economia in transizione, che dovrà affrontare
nei prossimi anni una serie di sfide di carattere sociale (in primis la crescita della diseguaglianza) e
politico (la corruzione innanzitutto) celate, malcelate ormai, dietro le vaghe raccomandazioni di "riforme
sistemiche" di tipo puramente economico.
2 - I linguaggi della globalizzazione
Gli intellettuali della "nuova sinistra (xin zuopai o xin
Maopai)" condannano la globalizzazione associandola a un'idea di capitalismo sfrenato e identificandola, sostanzialmente, con l'occidentalizzazione o, ancor peggio, l'americanizzazione
(quanqiuhua jiushi meiguohua).7 Alcuni di loro, tra i quali emerge Han
Yuhai8, denunciano quella che definiscono una globalizzazione capitalista che porterà alla restaurazione del capitalismo in Cina, mettendo l'intero paese sotto il controllo delle multinazionali. L'elemento più interessante di questa posizione è che proprio dinanzi alla sfida della globalizzazione questi intellettuali mostrano di condividere una visione liberale che presuppone un rispetto e una pratica concreta dei principi fondamentali della giustizia sociale e della democrazia politica, anche e soprattutto nel campo economico. Questi intellettuali esprimono, in sintonia con le tesi emerse in altre parti del
pianeta9, una dura condanna di un mondo dominato e controllato dalle oligarchie finanziarie e politiche. "Il consenso di Washington", che vede nella duplice ricetta della presunta riduzione del ruolo dello stato e dell'internazionalizzazione dei liberi mercati la chiave per il superamento delle differenze economiche, sembra un tentativo volontario di trascurare le prove che indicano come la globalizzazione aumenti,
anzichè diminuire, il divario tra paesi ricchi e paesi poveri.
Wang Hui, editore della rivista Dushu (Studiare), si domanda se sia possibile creare una società moderna in
una forma storica che si allontani dal capitalismo o seguire un percorso di modernizzazione che possa
riflettersi sulla modernità. La sua risposta è univoca: recuperare l'eredità di Mao. Wang Hui sostiene, in
un saggio pubblicato nel maggio 1997, che il pensiero socialista di Mao incarna una teoria della modernità
in aperta e compiuta antitesi rispetto alla modernizzazione di stampo
capitalista.10
Le posizioni espresse da Wang Hui e da Han Yuhai11 hanno dato il via, negli ultimi anni, a un accesso
dibattito scatenato tra i campioni del "liberismo (ziyouzhuyi)" e la "nuova sinistra" su diversi modelli
di modernizzazione. I pensatori liberisti sono particolarmente numerosi all'interno dell'Accademia Cinese
delle Scienze sociali12: esultanti dinanzi alle politiche riformiste di stampo liberista intraprese dalla
leadership politica post-maoista, specialmente negli anni Novanta, questi intellettuali le sostengono e
propongono un'ulteriore espansione (anche in senso politico) ritenendo che questa modernizzazione - alias
globalizzazione - porterà l'economia cinese alla completa integrazione nel mercato globale e la Cina a far
parte della cosiddetta civiltà universale.13 Gli intellettuali "liberisti" procedono da una rivalutazione
dell'espansione del capitale internazionale, contestualizzandola nello sviluppo storico degli ultimi quattro
secoli, e presentano la vittoria del capitale globale come la vittoria della
civiltà sull'ignoranza nella lotta tra le forze della modernizzazione e quelle del sottosviluppo.14
Dall'altra parte della barricata, la tesi di Wang Hui non costituisce un caso isolato, ma al contrario si
trova in linea con altri esponenti della "nuova sinistra", alcuni dei quali lavorano anch'essi all'interno
dell'Accademia Cinese delle Scienze sociali.15 La principale accusa mossa nei confronti dei "liberisti"
è quella di eludere i punti salienti della discussione sull'adozione di un modello di sviluppo sociale ed
economico liberista che genera numerosi problemi a livello locale, in particolare la diseguaglianza sociale.
Li Tuo, per esempio pone una provocatoria serie di domande: "Di fronte alla
'globalizzazionè, in quale tipo di contesto si deve posizionare lo sviluppo del nostro paese? Come deve (la
Cina) trattare la questione della
'globalizzazionè? Come deve rispondere (la Cina) ai vari quesiti sollevati dal processo di modernizzazione?
Come devono essere trattate le diverse teorie sulla modernizzazione e sviluppo? Dobbiamo formulare una
posizione di auto-coscienza dopo un'analisi critica di queste teorie cosicché possiamo decidere quale di esse meglio risponde alle nostre necessità? O dobbiamo formulare
gradualmente una nostra personale teoria dello sviluppo?"16
La resistenza all'influenza della Globalizzazione (con la G maiuscola) rappresenta certamente un agente
catalizzatore e, sul finire degli anni Novanta, sembrerebbe avere accomunato su posizioni sostanzialmente
analoghe neo-maoisti e nazionalisti radicali. Tuttavia, all'interno del discorso sulla globalizzazione si
raccolgono numerose sotto-tematiche, sfaccettature che richiedono un'analisi più approfondita e sulle quali
le posizioni di questi intellettuali si trovano in disaccordo. Li Tuo, per esempio,
è stato più' volte criticato in quanto ritenuto portavoce di una posizione elitistica e autoreferenziale,
considerata, dai suoi detrattori, tipica di intellettuali che risiedono e lavorano a Pechino o all'estero.
Dopo aver destrutturato i valori dell'Illuminismo, Li Tuo, assorbito nel progetto di formulare un'idea unica
ed esclusiva della "Cinesità", sembra in questo modo ripercorrere gli stilemi della "differenza"
ad ogni costo e, quando giunge a teorizzare l'unicità del percorso cinese alla modernità e allo sviluppo,
rischia di creare la visione di un nuovo assoluto: l'unico (nuovo) "corretto"
illuminismo.17
3 - Globalizzazione e/o globalizzazioni possibili
Così come accade in molti articoli ufficiali, anche nelle posizioni di numerosi intellettuali il termine
quanqiuhua viene utilizzato per riferirsi a quella che potremmo definire "globalizzazione economica",
limitata all'idea della creazione di un mercato globale che sembrerebbe avere una specificità e
un'assolutezza meramente economico-finanziaria.18 Tuttavia, altri intellettuali, quali ad esempio Han
Shaogong, sembrano suggerire una distinzione tra il termine quanqiuhua che si riferisce alla sfera
economica e l'espressione quanqiuyitihua, utilizzata per indicare una globalizzazione integrale che comporta
un'omogeneizzazione economico-politico e culturale.19 Artisti, quali Ren Jian e Wang Jin, con le loro opere,
puntano anch'essi il dito contro la perdita di identità culturale e denunciano la seduzione del consumismo
sfrenato e del materialismo individualista che la modernizzazione globale (e globalizzante) ha portato con
sè, rischiando di "McDonaldizzare" ogni aspetto della vita pubblica e culturale.20
Nel dibattito aperto tra gli intellettuali meno legati all'establishment, il termine quanqiuhua giunge a
toccare il nodo del rapporto tra globalizzazione del mercato e quella che è la sua forza motrice, la
conditio sine qua non per la sua esistenza e il raggiungimento dei suoi obiettivi: la globalizzazione
dell'informazione. Quest'ultima richiede a sua volta libertà di stampa, di pubblicazione, libertà d'accesso
alle nuove tecnologie multimediali; si è allora cominciato a parlare anche di "istruzione internazionale
(guoji jiaoyu)" e alcuni intellettuali hanno sottolineato come la globalizzazione debba necessariamente
prevedere un cambiamento del sistema giuridico e delle istituzioni politiche in senso democratico.
Un tratto comune alle varie posizioni - ufficiale e non - è rappresentato dall'enfasi posta sul
"comportamento": per non perdere il treno della "quarta ondata della
globalizzazione"21 occorre
"congiungersi e muoversi in sintonia con le norme internazionali (yu guoji
jiegui)", come recita uno degli
slogan più in voga degli ultimi anni.
Globalizzazione significa quindi internazionalizzazione? E se così fosse, che cosa significa
"internazionalizzazione" in una Cina nella quale il nazionalismo rappresenta ormai l'unico collante dopo
il vuoto creato dalla progressiva de-ideologizzazione e depoliticalizzazione della vita sociale?
Su questo punto esiste probabilmente una scollatura tra la posizione ufficiale e la tensione soggettiva
rappresentata da alcuni intellettuali.
Nel mese d'aprile 2001 a Shanghai, la città internazionale per eccellenza, nonché sede nell'ottobre dello
stesso anno del vertice APEC, venne lanciata una vera e propria campagna di "educazione civica". L'obiettivo
dichiarato era quello di preparare i cittadini alla "nuova civiltà" (xin wenming), in altre parole di
"propagare e promuovere" (questo è il significato etimologico del termine cinese xuanchuan da noi
volgarmente tradotto "propaganda") i "valori" necessari per accogliere il "nuovo soffio" che avrebbe
investito il paese ora entrato a pieno titolo nell'OMC. Soffio, così come tutta l'ampia gamma di agenti
atmosferici, nel machiavellico glossario politico cinese significa "linea politica" più' adatta al momento
e, in questo caso, sta per "globalizzazione" alla cinese.22
Ma per alcuni - pochi - pensatori liberali23 questo tipo di "globalizzazione" rappresenta un limite: essi
propongono una "globalizzazione a tutto campo (quanfangweide quanqiuhua)" e si fanno promotori dei
cosiddetti "valori globali (quanqiu jiazhi)", teoricamente condivisi da tutte le nazioni del mondo. Questi
intellettuali sembrano andare aldilà del preteso sillogismo "norme internazionali" = "alta tecnologia e
riforme economiche", così come riescono ad andare oltre la critica e il ripudio dei cosiddetti "valori
occidentali (xifang jiazhi)", alimentata dal crescente trend nazionalista da loro considerato "irrazionale"
(feilixing minzhuzhuyi).24 Dall'altra parte della barricata - ma in una specie di continuum tipicamente
cinese che consente la quadratura del cerchio - troviamo altri intellettuali (assai più numerosi) che
sottolineano la vicinanza del concetto di "globalizzazione" con l'ideale confuciano del raggiungimento
della "Grande armonia (datong)". Quella che era la "preoccupazione finale
(zhongji guanhuai)" secondo il
confucianesimo, viene associata da questi esponenti del "liberalismo confuciano
(rujia ziyouzhuyi)" ai
concetti occidentali di libertà e democrazia. La globalizzazione, sostenuta e diretta dall'ideale della
"grande armonia" e dai "valori asiatici (yazhou jiazhi)" è diventata, in questo modo, una globalizzazione
dalle caratteristiche cinesi, finalizzata a garantire la "stabilità e armonia" interna e, al contempo,
tesa (quantomeno fino al fatidico 11 settembre 2001) a segnare il nuovo mainstream per la cultura mondiale
del XXI secolo, opportunamente, ma forse prematuramente, ribattezzato il "secolo cinese".
La sfida della globalizzazione è aperta, e le recenti decisioni di approvare l'ingresso della Cina nell'OMC
e di destinare a Pechino le Olimpiadi del 2008 forniranno nei prossimi anni nuovi interessanti elementi di
indagine per valutare l'attendibilità dell'una o dell'altra posizione. Non dimentichiamoci, tuttavia, che la
posta in gioco è molto alta: si tratta del costo sociale che la globalizzazione comporterà per un paese che
sta assumendo sempre maggior peso nel panorama internazionale ma che rimane governato da un Partito unico,
la cui legittimità poggia su una strenua difesa dell'individualità nazionale in funzione stabilizzatrice.