"I fatti dell'11 settembre": la Cina, i dirigenti cinesi hanno usato questo linguaggio
freddo per definire un avvenimento così tragico1. Lo hanno fatto per diversi motivi, che qui vorremmo
analizzare. Innanzitutto hanno mostrato di non essere disposti a condividere "la diffusa tendenza, che lo
storico Franco Cardini rintraccia in Europa, a vedere nell'Islam un almeno potenziale
avversario"2. E in
secondo luogo non hanno inteso di dover concedere più di tanto alle preoccupazioni egemoniche della
superpotenza unica, gli Stati Uniti d'America. Quel tono neutro ha mirato insomma a negare che l'attacco
alle Torri gemelle avesse una portata politica dirompente, costringesse a ridisegnare regole e obiettivi
della diplomazia mondiale. L'analisi della situazione politica internazionale ha preso atto delle novità
negative, ma non ha corretto la convinzione cinese che il mondo si muova - anche se con percorso alterno -
verso il multiporalismo e la distensione.
L'opera di raffreddamento non ha però evitato che anche la Cina, sul fronte interno come su quello
internazionale, si vedesse costretta a compiere degli atti dettati proprio dalla clamorosa azione
terroristica. Nell'ultima settimana di dicembre il Comitato permanente dell'Assemblea nazionale del popolo
ha inserito nel codice penale nuovi reati di matrice terrorista con la sanzione, in alcuni casi, della pena
di morte. Per iniziativa del ministero della Sicurezza pubblica, nascerà una speciale organizzazione
antiterroristica che controllerà innanzitutto i movimenti alle frontiere3. A novembre, nel corso di una
sessione della Assemblea generale dell'Onu a New York, il ministro degli Esteri Tang Jiaxuan ha annunciato
la firma della Cina sotto le due convenzioni delle Nazioni unite contro il terrorismo, la prima diretta a
combattere gli attacchi armati, la seconda mirante a bloccare le centrali di finanziamento del terrore4.
È sul fronte della politica internazionale che la Cina ha però compiuto i passi più innovativi, con alcune
precisazioni significative. Nell'adesione al vasto fronte antiterroristico internazionale nato a Shanghai
durante il vertice dell'Apec di fine ottobre l'Occidente ha visto, con compiacimento, uno spostamento cinese
verso il mondo occidentale. È stata un'interpretazione abbastanza affrettata5. I comportamenti successivi
l'hanno infatti ridimensionata se non smentita. L'ambizione cinese si è presto rivelata ben diversa.
L'appuntamento dell'Apec avrebbe dovuto essere per la Cina una ribalta molto importante. Avrebbe dovuto
segnare l'incoronazione del grande paese asiatico come indiscusso leader regionale e come interlocutore ormai
forte e prestigioso della diplomazia e della politica mondiale. La Cina giungeva al vertice con alle spalle
conquiste eccellenti: risultati economici da alta congiuntura. Un'attiva iniziativa diplomatica diretta a
rassicurare i paesi del sud est asiatico che gli affari cinesi non si sarebbero svolti a loro danno. La
creazione di un dispositivo di sicurezza e antiterrorismo con Mosca e le quattro repubbliche ex sovietiche
dell'Asia centrale grazie alla nascita della Shanghai Cooperation Organization. La firma, infine, del
trattato di cooperazione strategica con il leader russo Putin. Insomma, un insieme di decisioni e di misure
che costruivano una prospettiva di più brillanti successi.
Ma il crollo delle Torri gemelle ha delineato uno scenario nuovo. Il vertice dell'Apec si è concluso
disegnando ambiziosi obiettivi di crescita economica, valorizzazione delle risorse umane, protezione
dell'ecosistema. Molte di queste affermazioni appaiono puramente declamatorie. Dettate più che altro dalla
volontà di apparire in sintonia con le esigenze di uno sviluppo attento alla qualità. Ma su quegli obiettivi
c'è stato un silenzio totale. A Shanghai la scena è stata naturalmente occupata dalla guerra che l'8 ottobre
il presidente americano Bush e il premier inglese Blair avevano intrapreso contro il regime talebano in
Afghanistan, accusato di essere la culla del terrorismo islamico. Il leader cinese Jiang Zemin ha avuto un
ruolo attivo per la nascita della dichiarazione antiterrorismo. Non ha mai fatto esplicito riferimento alla
guerra avviata dagli anglo-americani, ma ha chiarito che la Cina accettava la lotta al terrorismo con dei
vincoli precisi: consenso dell'Onu, prove certe sulle responsabilità, iniziativa circoscritta e attenta a
non creare vittime civili. A parte l'assenso dell'Onu che non ha poteri in campo militare, quei vincoli
sono stati più o meno condivisi da parte della comunità internazionale. Ma nel caso della Cina sono subito
apparsi come un abbozzo dell'offensiva diplomatica che si sarebbe dispiegata in piena indipendenza da quanto
facevano - o si apprestavano a fare - Stati Uniti, Unione Europea, Putin. Il leader russo ha un po' deluso
la Cina. L'ha delusa la fretta che Putin ha avuto nello spostarsi verso gli Stati Uniti e nel porre al
centro della sua politica estera l'ambizione di tornare a essere una superpotenza6.
Come parte della coalizione mondiale antiterrorismo, la Cina ha dovuto gestire un incrocio politico
complesso. Non poteva identificarsi del tutto con le posizioni statunitensi. Se lo avesse fatto avrebbe
smentito la sua tenace ricerca di un mondo multipolare e la sua ambizione a delinearsi come potenza regionale
in un'area segnata dall'esistenza di stati arabi e islamici. Sentiva però di dover fare parte del fronte
dei paesi sostenitori degli Stati Uniti. Perché in caso contrario sarebbe ricaduta nell'isolazionismo degli
anni cinquanta e avrebbe ferito a morte l'ingresso nella World Trade Organization. Paradossalmente chi ha
meglio capito e più ha tentato di fare leva sulle implicazioni della scelta cinese a Shanghai è stato il
Vaticano. Dura e irrispettosa nei confronti dell'attuale realtà cinese si era rivelata la decisione dei
vertici cattolici di elevare agli altari i 120 martiri proprio il 1 ottobre del 2000. Di sofisticata finezza
politica è stata invece la decisione di papa Giovanni Paolo II di chiedere perdono alla Cina con un messaggio
singolare e complesso. Intanto è la prima volta che questo pontefice, così fieramente avversario del mondo
comunista dell'est europeo, offre a uno stato comunista (tale la Cina si autodefinisce) il riconoscimento
di meriti presenti (e passati), verso i quali esprime "un profondo rispetto". Come conseguenza di questo
inatteso kowtow, il papa ha chiesto alla Cina, al popolo cinese, il perdono per gli errori commessi dalla
chiesa cattolica nei loro confronti. Ma Giovanni Paolo II non si è fatto forte dell'atto di contrizione per
ripetere l'offerta di un dialogo e di normali rapporti diplomatici. Sarebbe stato troppo banale. Per
convincere la Cina a dialogare, il papa ha fatto appello al comune impegno per la pace. Nel messaggio ai
dirigenti cinesi, Giovanni Paolo II non ha avuto alcun cenno per il terrorismo. Il suo ragionamento è stato
più coinvolgente e dal respiro millenario. Ha detto alla Cina che "il momento attuale di profonda
inquietudine della comunità internazionale esige da tutti un appassionato impegno per favorire la creazione
e lo sviluppo di legami di simpatia, di amicizia e di solidarietà tra i popoli. In tale contesto la
normalizzazione dei rapporti tra la Repubblica popolare cinese e la Santa Sede avrebbe indubbiamente
ripercussioni positive..."7.
Non è del tutto azzardata l'ipotesi che la Cina, anche per effetto delle pressioni di papa Wojtyla, abbia
avvertito come rischioso un coinvolgimento antiterroristico troppo segnato da una egemonia occidentale. E
abbia accentuato le iniziative dirette a far emergere con chiarezza il proprio obiettivo strategico: fare da
ponte, agire da mediatrice tra l'Occidente (sostenendo l'impegno antiterroristico) e il mondo arabo (in
nessuno dei documenti ufficiali cinesi del dopo 11 settembre è stata mai usata la parola islamico perché la
Cina ha voluto evitare la identificazione del terrorismo con un'area territoriale o una fede religiosa).
Quali risultati concreti possa portare la scelta "mediatrice" della Cina è, per il momento, difficile dirlo.
In questa fase si possono solo segnalare i passaggi attraverso i quali essa è venuta maturando. Il ricorso
all'espressione "i fatti dell'11 settembre" si è rivelato niente affatto casuale. Ha voluto allontanare
dalla Cina il rischio di essere coinvolta nel dibattito che ha accesso l'Europa e l'Occidente sullo "scontro
di civiltà". È servita a sottolineare la rinnovata amicizia con il mondo arabo (e islamico). Il viaggio che
il ministro degli esteri Tang Jiaxuan ha compiuto, a fine dicembre, in Siria, Giordania, Libano ed Egitto
ha avuto proprio questo scopo. Mentre Tang volava in Medio Oriente, Pechino fondava la Associazione di
amicizia con il mondo arabo, accoglieva il presidente pakistano, stanziava a favore del nuovo governo
afghano tre milioni e mezzo di dollari per aiuti umanitari, convocava un incontro della Shanghai Cooperation
Organization per discutere quali misure adottare contro il terrorismo nell'area e per il futuro
afghano.
Il messaggio politico di questi atti sembra abbastanza chiaro: l'affaire terrorismo in Asia è innanzitutto
affare dei paesi asiatici. I quali - e questa è la proposta portata al fronte arabo da Tang Jiaxuan -
lavoreranno insieme perché sia l'Onu la sede di tutte le decisioni che si rendessero necessarie8. Se
poi basteranno le conferenze internazionali o le risoluzioni dell'Onu a bloccare - come ritiene la Cina -
il terrorismo è tutto da provare. Ma intanto la Cina ha delineato un percorso antiterroristico che si
distanzia certamente da quello intrapreso almeno finora dalla Amministrazione americana e da Blair, quasi
una terza via rispetto alle bombe di Al Qaeda e quelle del fronte anglo-americano.
Quando nel 1996 il poco letto e molto criticato Samuel P.Huntington scrisse il suo "The Clash of
Civilizations" individuò i protagonisti dello scontro nel blocco occidentale da un lato e in quello
islamico-confuciano dall'altro9. Oggi per quanto grande sia l'attenzione della Cina verso il mondo arabo
e il Medio Oriente appare poco fondata l'ipotesi di una alleanza tra seguaci di Maometto e discendenti di
Confucio contro l'intero mondo degli "infedeli". Se ha interesse a un proprio ruolo indipendente la Cina non
ha alcun interesse a una contrapposizione frontale all'area occidentale. Proprio negli ultimi giorni
dell'anno appena passato ci sono stati due avvenimenti, fortunatamente non di natura drammatica, che hanno
provato una ormai salda compenetrazione tra Cina e Occidente. Finalmente il presidente Bush ha fatto quello
che il presidente Clinton non aveva mai fatto: ha concesso alla Cina in maniera permanente, non soggetto a
rinnovo annuale, il trattamento commerciale di favore. Finalmente, l'11 dicembre del 2001, la Repubblica
popolare cinese è formalmente diventata membro della World Trade Organization. Un obiettivo che l'attuale
gruppo dirigente - e innanzitutto Jiang Zemin e Zhu Rongji - hanno voluto con grande determinazione.
L'ingresso è un loro successo politico personale. O meglio è un successo della stabilità politica del paese
che questo gruppo dirigente ha saputo creare e garantire. La stampa di partito ha esaltato l'evento perché
l'ingresso nel WTO aiuterà la Cina "a svolgere un più importante ruolo negli affari internazionali
specialmente in quelli economici e nello stesso tempo ne accrescerà il prestigio mondiale"10. Sappiamo
che l'ingresso in questo organismo - del quale, per inciso, ancora non fa parte la Russia - è il suggello
trionfante della scelta fatta da Deng Xiaoping nel lontano 1978. Ma oggi che l'obiettivo è stato raggiunto
sarebbe sbagliato per l'Occidente guardare al futuro della Cina solo con gli occhi delle multinazionali,
eccitate dalle occasioni di investimenti in quelle terre lontane, così allettanti anche come mercati di
consumo, visto che il resto del mondo sviluppato langue avvolto in congiunture economiche molto
anemiche.
Quell'ingresso parla all'Occidente non solo in termini di statistiche economiche. Suona un campanello di
allarme. Segnala paradossi. Dalle sacche di marginalità delle aree opulente, dai giovani che in Occidente si
ergono a coscienza critica del capitalismo, viene, come è noto, una accusa rovente alla globalizzazione che
fagocita il terzo o quarto mondo povero. Ma è stato proprio un paese del terzo mondo, o in via di sviluppo
che dir si voglia, qual è - o è stato - la Cina a volere con una determinazione totale l'accesso alle regole
ineguali del mercato mondiale e a dare prova di saperle piegare a proprio vantaggio. Nelle future analisi
degli schieramenti mondiali l'impatto economico e politico del prepotente arrivo cinese non potrà essere
ignorato o sottovalutato. L'Occidente non potrà aspettarsi e non potrà pretendere dalla Cina quella sobrietà
nei consumi che per quanto lo riguarda non ha saputo o voluto adottare. Ma il futuro dell'economia mondiale -
e dell'ecosistema - è segnato, anche grazie alla crescita cinese, dalla moltiplicazione di comportamenti e
eventi negativi che già fanno sentire il loro peso: l'inquinamento, i cambiamenti climatici, la
desertificazione dell'intera area. Se veramente ogni famiglia cinese volesse un'auto? L'arrivo della Cina fa
diventare più urgente una concertazione mondiale che regoli l'economia per proteggere l'ecosistema. Esigenza
forse altrettanto utopica di quella di debellare il terrorismo, ma altrettanto irrinunciabile.
In Asia il declino giapponese, che sembra inarrestabile, offre alla Cina grandi occasioni ma è nello stesso
tempo un elemento di freno, che condiziona le mosse cui la Cina è tenuta per rispettare gli impegni del WTO.
La svalutazione dello yen, l'ultima arma nelle mani del governo giapponese, rendendo le merci meno care e
più competitive sta creando difficoltà ai paesi dell'area e alla stessa Cina. Alla quale ha suggerito una
grande cautela nei passi che riguardano la liberalizzazione dei mercati finanziari, veri e unici indicatori
del grado di apertura e internazionalizzazione di un'economia. Secondo le autorità monetarie saranno
necessari non meno di dieci anni prima che la Cina completi il processo di liberalizzazione della sua moneta,
aprendo del tutto lo yuan alla convertibilità con la valuta estera. Saranno necessari cinque anni prima che
la Cina completi l'autorizzazione alle banche estere a operare in valuta straniera con il mondo cinese, a
commerciare in yuan, a concedere prestiti a privati cittadini per l'acquisto di automobili. Come dire,
entrati nel WTO si apre ora la fase della trascrizione degli accordi appena firmati in leggi, regolamenti,
decisioni cinesi. Quanto tempo questo processo richiederà non lo sanno nemmeno i dirigenti. Dipenderà dalla
saldezza politica interna, dal ruolo che si ritaglierà l'Assemblea nazionale che dovrà approvare le leggi,
dalle dinamiche della situazione internazionale. Molte energie cinesi saranno assorbite dalle vicende
asiatiche: la tensione tra Pakistan e India, il futuro dell'Afghanistan non più talebano, i contraccolpi
della crisi giapponese, l'insoluta questione mediorientale che vede la Cina schierata con risolutezza contro
Israele.
Se la Cina ha avuto fretta e tenacia nel perseguire il suo inserimento nel mercato mondiale, non altrettanta
fretta mostra e mostrerà nell'adeguamento interno alle nuove regole. Questo "prendere tempo" servirà ai
dirigenti cinesi per fronteggiare e gestire le tensioni sociali prodotte dalla mondializzazione. Ma è da
vedere se sarà sufficiente. Con l'apertura delle file del partito comunista, Jiang Zemin ha operato una
sorta di riforma politica alla cinese, dando rappresentanza agli strati emergenti della società, alla "nuova
classe" di produttori11. Ma dovrà dare rappresentanza politica anche agli strati sociali che vengono
emarginati, per i quali finora l'unica strada per farsi sentire sono state le manifestazioni di piazza o le
rivolte nelle campagne. L'urgenza di articolare diversamente l'organizzazione politica del paese non è una
concessione alle pressioni dell'Occidente. È un passaggio obbligato per non rallentare l'inserimento concreto
nel WTO e per cogliere della modernizzazione non solo i vantaggi economici, buoni per le statistiche
congiunturali.
La giovane scrittrice Mian Mian, a Roma il 3 dicembre per un incontro con scrittori italiani, a una domanda
del pubblico sulle caratteristiche esistenziali dei suoi personaggi, ha risposto: i miei giovani non hanno
niente di diverso da quelli del resto del mondo, i giovani sono dovunque gli stessi. Non era chiaro se ne
fosse contenta o preoccupata. Ma senza forse nemmeno volerlo, Mian Mian stava elevando un inno alla
omologazione che ormai tocca anche la terra cinese, o almeno quella parte della Cina più coinvolta
nell'esplosione economica. Produzione letteraria, cinema, stampa e televisione ci informano con dovizia
sempre maggiore su questo trend giovanile cinese che risveglia i ricordi occidentali della "gioventù
bruciata" o i romanzi giovanili della francese Françoise Sagan. Come dire, i passaggi da una fase storica
a un'altra sostanzialmente presentano ovunque gli stessi connotati. Probabilmente i problemi nascono nelle
fasi successive, quando quei processi si consolidano o minano le basi della preesistente organizzazione della
società. È allora che sorgono tensioni e l'omologazione tocca un livello oltre il quale non è più tollerata,
può avere o ha effetti devastanti. Sarebbe interessante per l'Occidente conoscere a tempo se e quando in Cina
sarà toccata la soglia di sopportazione.