1. Un'istruzione inadeguata
"Sono veramente dispiaciuto": forse per la prima volta un dirigente faceva una dichiarazione del genere davanti a una platea di giornalisti, cinesi e stranieri. L'uomo politico era il primo ministro Zhu Rongji, l'occasione era la conferenza stampa che chiudeva, a marzo, i lavori della Assemblea nazionale, l'avvenimento cui si riferiva era l'esplosione avvenuta qualche giorno prima in una scuola elementare di un villaggio del Jiangxi. Erano morte 41 persone, bambini e insegnanti. Nel sottoscala dell'edificio scolastico si confezionavano fuochi artificiali. Vi lavoravano anche gli scolaretti? Zhu lo aveva escluso ma aveva fatto una promessa solenne: "non permetteremo più a nessuno di chiedere ad alunni o a dei minori di fare lavori pericolosi per la loro
vita"1. L'episodio aveva gettato una nuova luce sullo stato dell'istruzione in Cina, specialmente quella elementare, segnata da evasione dell'obbligo, bambini nelle ore scolastiche costretti a darsi da fare con lavoretti per integrare il magro stipendio dell'insegnante, genitori chiamati a versare dei soldi per il mantenimento di aule fatiscenti. Ora il primo ministro annunciava una svolta.
In questi ultimi anni i problemi dell'educazione hanno assunto un rilievo mano a mano crescente e sono diventati tra quelli che più hanno agitato la sensibilità dell'opinione pubblica, del governo e del partito. Sotto accusa sono stati messi l'eccessiva severità del sistema scolastico, l'ammontare quasi punitivo dei compiti a casa per i bambini delle elementari e delle medie, il severo numero chiuso per l'accesso alla università. Discussione e malcontento hanno contribuito a spingere governo e partito ad una serie di provvedimenti che almeno a partire dalla seconda metà degli anni novanta hanno abbastanza modificato la tradizionale sistemazione dell'istruzione in Cina.
Il che è avvenuto per almeno tre motivi. Il primo motivo è legato alla dimensione economica raggiunta. Si è capito quanto ormai fosse inadeguato l'apparato educativo rispetto alle esigenze dell'economia e alle sfide che la Cina deve affrontare sul mercato mondiale. Il paese è fortemente debitore all'estero, al Giappone, agli Stati Uniti, alla stessa Taiwan, per i suoi bisogni di alta tecnologia e vede in questo un rischio di eccessiva dipendenza alla quale intende fare fronte. Le sue esportazioni, pur notevoli come quantità, sono tecnologicamente molto povere e assegnano al paese un ruolo subalterno e insicuro nella distribuzione del commercio mondiale. Già nel 1995 Jiang Zemin era stato molto chiaro. "Un popolo che non possiede la capacità di innovazione - aveva detto - non troverà mai posto tra le nazioni più avanzate del mondo". Da qui la necessità di trasformare radicalmente il mondo dell'istruzione enfatizzando la preparazione tecnico-scientifica e la ricerca e procedendo a un mutamento del rapporto tra istruzione professionale, prevalente in Cina, e istruzione superiore universitaria.
2. Pesa troppo il numero chiuso
Il secondo motivo riflette la maturazione di una società civile che guarda con sempre maggiore insofferenza ai vincoli severissimi chiamati a regolare, attraverso il numero chiuso, l'accesso ai livelli più alti dell'istruzione. E vive questi vincoli come una castrazione delle proprie aspirazioni di ascesa sociale. In Cina i vari passaggi scolastici, dalle elementari fino all'università, sono scanditi da un meccanismo di esami estremamente severo che ha finora dato al sistema educativo un connotato fortemente elitario e lo ha condannato al nozionismo piuttosto che alla qualità e alla ricerca.
Il terzo motivo è rintracciabile nella necessità di frenare la fuga di giovani cervelli. Molti studenti (in primo luogo i figli dei massimi dirigenti), penalizzati dal severo numero chiuso o dotati di risorse finanziarie e di occasioni, hanno scelto di andarsene nelle università straniere e non tutti sono poi tornati. Negli ultimi venti anni si calcola che siano stati 320 mila i giovani andati a studiare all'estero. Finora sono tornati in 110 mila.
L'insieme di questi problemi è stato variamente affrontato negli anni novanta. Le maggiori novità hanno coinvolto il mondo dell'istruzione superiore. In alcuni casi i cambiamenti sono stati limitati a singole province, in altri sono stati estesi all'intero paese. Nel 1993 il Comitato centrale del Partito comunista e il Consiglio di stato vararono il Programma per la riforma dell'educazione2. Ci furono molti segnali di novità. Si decise che lo Stato avrebbe concentrato le proprie risorse finanziarie e programmatorie solo su 100 tra istituti e progetti pilota, lasciando il resto alla responsabilità delle amministrazioni locali. Venne scalfito il principio della gratuità dell'istruzione universitaria sostenendo che le famiglie avrebbero dovuto pagare almeno parte delle tasse di iscrizione. Si annunciarono alcuni primi elementi di riorganizzazione burocratica e amministrativa sollecitando l'accorpamento tra istituti. Si sostenne il principio secondo il quale l'istruzione può essere garantita anche da istituzioni non governative e addirittura da privati, rispettosi naturalmente delle disposizioni statali. La fine della gratuità (oggi le famiglie pagano contributi anche per le elementari e le medie) veniva sancita nel 1996 con il piano economico quinquennale. In quel testo veniva confermata la scelta di concentrare le risorse centrali su 100 università e progetti pilota.
3. Fusioni e smantellamenti
I cambiamenti più corposi si sono avuti nel biennio 1998-1999. Nel 1998 il governo ha varato un'ambiziosa riforma della pubblica amministrazione con l'obiettivo di ridimensiore l'apparato burocratico, qualificarlo e renderlo più efficiente, liberarlo dai doppioni, farlo più autonomo nei confronti del partito. La riforma ha investito in pieno il mondo dell'educazione universitaria. E' di nuovo nato il Ministero dell'educazione al posto della Commisisone di stato per l'educazione. Gli istituti sono stati sollecitati a procedere speditamente sulla strada delle fusioni, pena la chiusura3. Nei decenni precedenti l'intera impalcatura dell'istruzione superiore si era basata sull'esistenza di università, collegi, istituti che facevano capo, sia al centro che nelle province, ai diversi ministeri o alle diverse commissioni governative. C'era una moltiplicazione di sedi, con un dispendio di risorse finanziarie e energie umane a scapito della qualità degli studi, della preparazione, della ricerca.
La riforma della pubblica amministrazione ha preso di petto questa struttura e ha chiesto che alla politica delle fusioni si accompagnassero misure di risistemazione del personale sia amministrativo sia docente. Si parla degli operai messi sul lastrico dalle ristrutturazioni nelle imprese pubbliche, ma ci sono prepensionamenti e riduzione di personale anche nel mondo universitario. L'Accademia delle scienze, per fare solo un esempio, ha deciso di ridurre, nel giro di appena qualche anno, il suo personale complessivo da 80 mila e 20 mila. Dai primi mesi del 1999 le università hanno cominciato a ridimensionare il personale amministrativo in alcuni casi addirittura programmandone il dimezzamento. Nel mondo universitario funzionari e impiegati amministrativi hanno sempre largamente superato il corpo insegnante che si è attestato intorno al 38%.
4. Tutto ai governi locali
Il processo di accorpamento ha lasciato nelle mani del centro, ossia del Ministero dell'educazione, solo 120 istituti pilota. Il resto è passato ai governi locali ai quali sono state delegate tutte le responsabilità amministrative e finanziarie. Le province hanno acquisito grandi poteri in materia scolastica. Con il rischio, naturalmente, di creare sensibili differenze tra una zona e l'altra del paese. Ci sono realtà, come quelle delle aree abitate da minoranze etniche, dove l'istruzione elementare obbligatoria di nove anni non è ancora generalizzata. Ci sono realtà come quelle di Pechino e Shanghai che hanno programmato di aprire l'accesso alle università al 70% dei diplomati delle medie superiori, realizzando nei fatti un'istruzione universitaria di massa4.
L'ampliamento delle strette maglie dell'accesso era stata una scelta del governo centrale. Nel 1999 si ha quella che molti studiosi in Cina e fuori hanno chiamato il grande balzo in avanti dell'istruzione universitaria. Per la prima volta il governo ha annunciato un aumento del 44% delle iscrizioni alle università. Due milioni e ottocentomila studenti hanno potuto accedere ai santuari della cultura. Il trend è continuato nel 2000 quando le matricole sono state tre milioni. A marzo scorso è stato già annunciato il dato per il prossimo anno accademico: i nuovi arruolati saranno due milioni e mezzo; gli esami di ammissione si svolgeranno due volte l'anno. Oggi l'insieme degli studenti universitari ha raggiunto i cinque milioni, una cifra comprensiva dei frequentatori delle università pubbliche, di quelle private e di quelle per adulti. Obiettivo del governo è portare dall'attuale 10 a 15 la percentuale di popolazione tra i 18 e i 22 anni che frequenta l'università. Per molti cinesi siamo ormai sulla strada che sfocierà nel giro di pochi anni in una istruzione universitaria di massa. A conferma di questa tendenza c'è da aggiungere che possono ora partecipare agli esami di accesso anche i diplomati delle scuole professionali e che è stato recentemente eliminato il vincolo dei 25 anni di età e della condizione di scapolo o nubile per iscriversi all'università.
5. La spesa delle famiglie
L'allentamento della severità del numero chiuso non risponde solo alle pressioni della società civile. E' presentato anche come una vera e propria misura di politica economica. Negli ultimi anni l'economia cinese si è avvantaggiata di una politica fiscale espansiva. Consistenti investimenti pubblici, specialmente nelle infrastrutture, hanno contribuito in maniera determinante alla più che brillante tenuta dell' economia. Accanto all'intervento pubblico, la leva della domanda interna ha avuto un ruolo altrettanto rilevante. Questa linea di politica economica è stata confermata per il decimo piano quinquennale approvato a marzo dalla Assemblea nazionale5. In questa prospettiva, la riforma dell'educazione, mobilitando il risparmio delle famiglie, dovrebbe dare un contributo non secondario al miracolo economico. Un figlio o una figlia all'università vengono a costare ormai 10 mila yuan all'anno, qualcosa come due milioni di lire. Alcuni osservatori stranieri non condividono però l'ottimismo cinese sull'apporto economico dell'ampliamento dell'accesso all'università. Non tutte le famiglie saranno in grado di sopportare il peso di quei diecimila yuan. E se è vero che molti genitori risparmiano proprio in vista della carriera scolastica dei figli, è pur vero che sui soldi depositati dai privati nelle banche premono le emissioni dei titoli di stato con i quali il governo deve finanziare i suoi ambiziosi programmi di opere pubbliche.
L'ostacolo che frena il percorso della riforma dell'educazione sta proprio nella scarsità dei mezzi finanziari. Tra i paesi in via di sviluppo la Cina, nonostante le consistenti risorse destinate in questi decenni, ha la più bassa percentuale di spesa per l'educazione sul prodotto interno lordo, appena il 2,5 per cento, anche se progetta di elevare questa quota al 4 per cento nel giro dei prossimi anni. L'ammissione di un numero crescente di ragazzi e ragazze all'istruzione superiore richiede imponenti investimenti. Servono nuove scuole, nuovi dormitori per gli studenti, nuove mense perché in Cina vige il sistema americano della vita nei college universitari. Il carico scolastico non può gravare solo sul governo centrale o su quelli locali. A parte le tasse pagate dalle famiglie, il governo centrale fa un grande affidamento sul ruolo delle
minban, le scuole non governative genericamente definite scuole gestite dalla società. Di solito vengono impiantate da comitati di villaggio, da professori o burocrati in pensione, da aziende, da qualcuno degli otto partiti che esistono in Cina, da cooperative.
A marzo scorso, le scuole minban erano circa 54 mila con quasi sette milioni di studenti. Quasi 1300 erano istituti di istruzione superiore, più numerosi dunque degli istituti universitari pubblici che sono meno di 1200. Ma solo poche decine delle università non pubbliche sono autorizzate a rilasciare diplomi e lauree. Per le altre, gli studenti che le frequentano devono alla fine del corso di studi sostenere uno speciale esame di stato. Naturale dunque che l'attrazione esercitata dalle università private, che pure avevano avuto un boom negli anni passati, si sia appannata quando il Ministero dell'educazione ha ampliato l'accesso alle università pubbliche6.
6. Verso i privati, con cautela
Nel documento programmatico del 1993 ci si richiamava esplicitamente ai privati, termine che poi è scomparso nelle decisioni e nei documenti successivi a favore di una più generica e onnicomprensiva "società". In sostanza sono state prese le distanze da un termine "privato" appunto che in qualche modo evocava un eccesso di mercantilismo in un settore molto delicato della vita cinese. L'orientamento delle nuove generazioni resta un compito molto caro al governo e al Partito comunista e si vede con preoccupazione il rischio che sui giovani possano esercitare una influenza negativa sia dei privati sia degli investitori stranieri.
Le misure fin qui descritte riguardano la struttura burocratica e amministrativa del mondo della scuola. Restano in ombra, almeno finora, due aspetti fondamentali di qualsivoglia riforma che sia veramente tale. Il primo aspetto è quello del grado di autonomia che si è disposti a riconoscere al mondo dell'istruzione superiore. Le università private godono nei fatti di una autonomia finanziaria, di gestione e di programmi superiore a quella di cui gode il settore pubblico. Ma sono penalizzate da altri fattori: l'età avanzata dei docenti, spesso in pensione dal mondo dell'istruzione pubblica, o gli scarsi riconoscimenti da parte del governo. All'ultima sessione annuale dell'Assemblea nazionale, nel marzo scorso, si sono levate delle voci, anche se non numerose, a favore di una vera e propria autonomia delle istituzioni universitarie pubbliche e private. E' stata sollecitata una nuova legge sulle università private che riconosca loro il ruolo di soggetti economici che fanno profitti.
Il secondo aspetto riguarda i programmi di studio. Hong Kong e Taiwan, la prima dopo il ritorno alla Cina e la seconda con il procedere del processo di democratizzazione, hanno operato, per ragioni diverse, una riscrittura radicale dei
programmi7. In Cina questo problema è avvertito ma finora lo si vive sostanzialmente come revisione del numero delle materie da portare agli esami, come alleggerimento dei compiti da fare a casa, come inserimento obbligatorio fra le materie fin dalle elementari della lingua inglese e di nozioni di informatica. Si insiste sulla necessità di passare da un insegnamento di tipo nozionistico a un'istruzione orientata alla qualità, capace di sviluppare lo spirito creativo dell'alunno e di stabilire un rapporto di dialogo reale e costruttivo tra studente e docente. Ma le modifiche sono solo alla fase di studio. Un cambiamento dei programmi chiama in causa anche la formazione e le abitudini degli insegnanti. Finora gli insegnanti si sono sentiti un settore della società particolarmente trascurato. Salari miseri, appiattimento retributivo, assenza di meccanismi di valutazione meritocratica, povere prestazioni del welfare state (dalla casa alla sanità alle integrazioni salariali) hanno alimentato malcontenti che trovano di solito sfogo in occasione delle sedute annuali della Assemblea nazionale.
Il governo centrale ha deciso di operare una correzione di rotta programmando aumenti salariali differenziati, adottando uno stile quasi americano di valutazione annuale delle prestazioni professionali, creando corsi di riqualificazione per gli insegnanti. Nel 1999 il Ministero dell'educazione aveva deciso che per avere un punteggio positivo gli insegnanti dovessero realizzare almeno al 70% i loro adempimenti scolastici. Nel gennaio di quest'anno ha emanato un progetto per la riqualificazione del corpo docente. I requisiti per essere definito un ottimo insegnante sono i seguenti: nazionalità cinese, moralità impeccabile, laurea, buona attitudine all'insegnamento8. Anche in questo campo, comunque, c'è il rischio che i poteri riconosciuti ai governi provinciali creino differenze sensibili nel paese. Shanghai, sempre all'avanguardia, ha deciso di creare nelle scuole medie superiori la figura del direttore didattico con il compito di sovraintendere alle prestazioni di qualità del corpo docente. In cambio di uno stipendio annuo di 80 mila yuan, diecimila dollari. Una cifra favolosa per gli standard cinesi, che non tutti i governi provinciali potranno permettersi.
MONDO CINESE N. 107, APRILE 2001
1 Cfr. "Full Text of Premier Zhu Press Conference",
Renmin ribao, internet
edition, 15.3. 2001.
2 Cfr. "Education Reform Program", BBC Worldwide
Monitoring, 5 marzo 1993.
3 Cfr. Reform Trends of Education in China from 1998 to
1999, Ministry of Education, Beijing,
2000.
4 Cfr. in particolare sull'educazione in Tibet: Catriona Bass,
Education in Tibet, Zed Books,
London-New York, 1998.
5 Zhu Rongji, "Report on the Outline of the Tenth Five-Year Plan for National Economic and Social
Development", Xinhua News Agency, internet edition, 5 marzo 2001.
6 Sulle scuole private in Cina, cfr. Jing Lin, Social Transformation and Private Education in
China, Praeger, Westport, 1999.
7 Christopher Hughes and Robert Stone, "Nation-Building and Curriculum Reform in Hong Kong and
Taiwan", The China Quarterly, Dec. 1999, n. 160, pp.977-991.
8 cfr. Guanming ribao, 5 gennaio 2001, riportato in
The Bulletin of the CREC (Centre of Research
on Education in China), internet edition, 19.1.2001.