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INDICE>MONDO CINESE>TRA CINA E STATI UNITI: UN CONTENZIOSO SUPERABILE

EDITORIALE

Tra Cina e Stati Uniti: un contenzioso superabile

Inattaccabile primato statunitense o "mondo multipolare"?

di Enrica Collotti Pischel

La politica verso la Cina inaugurata dal presidente Bush sta creando una grave atmosfera di antagonismo tra i due paesi, nociva a tutti. I pericoli non stanno tanto in episodi singoli e neppure in decisioni di vasta portata (come la vendita di armi aggiornate da parte degli Stati Uniti a Taiwan), bensì nell'atteggiamento psicologico reciproco. L'evolversi dei rapporti sui problemi concreti (in particolare sul progetto di scudo spaziale) dipenderà dagli orientamenti definitivi di Washington, quando si sarà dissipata l'attuale atmosfera di incertezza e di divergenze tra i vari gruppi repubblicani. L'ostilità programmatica dell'Amministrazione Bush verso la Repubblica popolare cinese è chiaramente espressa dal concetto per cui gli Stati Uniti devono considerare la Cina un "avversario strategico", mentre durante l'Amministrazione Clinton la Cina era un potenziale "partner strategico", nonostante le incalzanti critiche mosse a Pechino dai democratici in nome dei diritti umani. La Repubblica popolare cinese è vista esplicitamente nella Washington della presidenza repubblicana come l'unico avversario che insidia il potere dominante degli Stati Uniti nel mondo, ora che è stata finalmente distrutta l'Unione Sovietica. Questa linea contrappone gli Stati Uniti non solo alla Cina, ma anche all'Europa che non sembra affatto incline a vedere nella Cina un nemico, considerando ovviamente preziosa la complementarità economica con la Repubblica popolare. 
In questo senso l'antico richiamo, insistentemente svolto dai governanti di Pechino, alla necessità di un "mondo multipolare", con l'implicito riconoscimento alla presenza della Cina come grande potenza in un mondo di altre grandi potenze, potrebbe anche essere - ora che le preclusioni ideologiche sono cadute - una linea di successo più di quanto lo sia la pratica scelta da Bush di trattare come entità irrilevante l'Europa, certamente non gratificata né dalla scelta di abbandonare gli accordi di Kyoto sull'ambiente e la messa al bando delle armi batteriologiche, né dai progetti per lo scudo spaziale. Invece i governanti cinesi sembrano desiderosi di avere con l'Europa un rapporto privilegiato. Nella scelta di considerare la Cina un "avversario strategico" da perseguire ad oltranza sembra di intravedere la volontà conclamata di Bush di affermare come naturale e irrevocabile il primato degli Stati Uniti, escludendo da una condivisione di potere tutti gli altri, anche coloro che - come gli europei - sono stati per cinquant'anni gli alleati sicuri degli Stati Uniti per ragioni ideologiche e sociali. 
Quella di Bush differisce dalla politica americana dell'ultimo cinquantennio, volta sempre a cercare alleati: infatti non sono poche le voci critiche che si levano non solo da parte dei democratici, ma da molti repubblicani, che ricordano che si possono avere dei nemici, ma non tanti nemici a un tempo. 

L'antica ferita degli asiatici

Nei confronti della Cina (ma in questo caso il discorso vale anche per gli altri paesi dell'Asia orientale) è inoltre sempre indispensabile tener conto del fatto che il contatto dei popoli di quest'area del mondo con gli occidentali è avvenuto nel modo più traumatico, che non è mai stato perdonato da alcuno, al massimo sottaciuto a denti stretti. L'Asia orientale - ma soprattutto la Cina - era alla metà del XVIII secolo l'area più prospera e stabile del mondo1, poi fu depredata dal commercio occidentale dell'oppio2 e soprattutto dalle pesanti indennità imposte dalle potenze al termine di guerre delle quali la Cina era stata soltanto vittima3
Si può quindi comprendere che i cinesi, i governanti cinesi, ma anche i semplici cittadini, che abbiano studiato la storia moderna del loro paese, nella Repubblica popolare, ma anche a Taiwan o a Singapore si considerino vittime di "azioni ingiuste", dell'immorale spaccio di droga e di rapina per la vicenda delle indennità: e ciò indipendentemente dai giudizi sul sistema capitalistico. Ciò non vale solo per i cinesi, ma anche per i giapponesi4 e la politica di Bush potrebbe portare a ripetere l'esperienza tragica degli anni '20 quando un Giappone considerato "avversario strategico" dalle altre potenze finì per scegliere di costruirsi un impero tutto proprio in Asia orientale5
Nella sua scelta il Giappone compì poi ogni genere di nefandezze ai danni degli altri asiatici e avviò il processo che portò allo scontro con l'Occidente, concluso poi con i bombardamenti atomici, che ogni giapponese continua a considerare "atto ingiusto" degli americani e non naturale conseguenza dell'avventura bellicista.

La difesa della sovranità e dell'unità compatta i cinesi

La vittoria della rivoluzione in Cina segnò la fine della lunga umiliazione e delle depredazioni e l'inizio di una dura battaglia di Mao e dei suoi compagni per difendere l'unità e la sovranità della Cina dall'assedio e dalle minacce straniere, statunitensi o sovietiche che fossero6
A sua volta Deng Xiaoping compì la scelta della modernizzazione, dell'apertura al mercato internazionale e anche a soluzioni sociali di tipo capitalistico, non perché dubitasse del valore della sovranità e dell'identità cinesi, ma perché voleva difenderle con efficacia da un Urss allora nemica e da un Occidente sempre infido7
Ora la politica di Bush mette i cinesi di fronte a un problema che non può non suscitare in loro angoscia e indurli alla prudenza, all'esercizio di quelle arti diplomatiche e politiche ereditate dalla secolare classe dirigente dell'impero che furono messe in atto da Mao, da Zhou e da Deng. Nelle recenti vicende, la politica di Pechino è stata ad un tempo ferma nei principi, attiva nella ricerca di possibili alleati e nell'isolamento dell'avversario e duttile nell'elaborazione di convenienti soluzioni tattiche. 
La politica dell'attuale presidente Bush verso la Cina non si rifà a quella di suo padre (che fu il primo ambasciatore statunitense in Cina ed ebbe sempre con Pechino un rapporto di riguardo, anche al momento di Tian'anmen), ma piuttosto a quella di Reagan verso l'Unione Sovietica. Reagan proclamò l'Urss "impero del male" e si adoperò con successo per distruggerla, imponendole un'insostenibile corsa agli armamenti (ventilando anche uno scudo spaziale allora non realizzabile), che contribuì a minarne le basi economiche e politiche. Lo sfacelo dell'Unione Sovietica, del suo status di grande potenza, l'annientamento della sua sovranità e unità, la riduzione della sua economia a un guscio vuoto esposto a ogni ricatto e a ogni iniziativa criminale e le condizioni di miseria di vasti settori popolari sono note ai cinesi e costituiscono un fattore di consenso per i governanti. L'ipotesi che gli Stati Uniti si propongano di fare alla Cina ciò che è stato fatto all'Unione Sovietica preoccupa i cinesi: l'eventualità che ci riescano è per loro - giustamente - una prospettiva agghiacciante8.

Le radici della strategia statunitense nel Pacifico e in Asia

Per comprendere la politica di Bush al di là di quelle che possono essere circostanze occasionali e passeggere9, è necessario cercare nella storia il filone per comprendere il suo atteggiamento. In primo luogo vi è l'interesse che per gli Stati Uniti rappresenta il controllo sul Pacifico. Noi europei lo sottovalutiamo, considerando gli Stati Uniti legati soprattutto all'esperienza del mondo atlantico, mentre nella coscienza storica degli americani la lunga corsa all'Ovest formò la loro identità di popolo e di stato, staccato dall'Europa e autonomo da essa. 
Quando nel 1846 la California fu conquistata togliendola al Messico la lunga marcia verso la "frontiera" era finita? Certo che no, dichiarò subito il Congresso: ed elaborò il concetto per cui era "destino manifesto" degli Stati Uniti non soltanto possedere il territorio tra i due oceani, ma avere un potere stabile sul Pacifico10. Che il Pacifico debba essere controllato dagli Stati Uniti e che interessi vitali, "interni" degli Stati Uniti siano qui in gioco fa parte della cultura politica di ogni americano: un'interiorizzazione che ha trovato la sua definitiva conferma nella seconda guerra mondiale. 
Si può dire che il motivo vero dello scontro con il Giappone non consistette nel carattere fascisteggiante del suo regime interno e neppure nella ferocia dei suoi atti contro cinesi e coreani, bensì nel fatto che i giapponesi sfidarono il controllo statunitense sul Pacifico. Nel Pacifico gli americani combatterono e vinsero da soli: con la loro strategia aero-navale, con la potenza delle navi e degli aerei usciti dagli arsenali della California, con tanto sangue e grandi sofferenze dei loro uomini. Quindi gli Stati Uniti ritennero giusto occupare da soli il Giappone, un paese dell'Asia orientale che entrava a far parte di quell'insieme che gli americani definiscono "Western Pacific Rim", "bordo occidentale del Pacifico", strumento essenziale per assicurare il controllo americano dell'intero oceano. Sarebbe concepibile definire Portogallo, Bretagna e Cornovaglia "Eastern Atlantic Rim"? Certo che no: l'Atlantico è comune a europei e americani. Il Pacifico è "riservato" agli Stati Uniti, o almeno è percepito per tale nella cultura politica statunitense.
La vittoria e poi la resistenza all'assedio dei comunisti cinesi imposero, dopo la sconfitta subita in Vietnam, la rinuncia americana a controllare l'area continentale dell'Asia orientale. Ma intanto le vicende della guerra fredda, la guerra di Corea, il rapporto con Taiwan, l'alleanza con il Giappone del 1951, avevano consentito agli Stati Uniti di completare e consolidare il sistema del "Western Pacific Rim"11 che non è mai stato posto in discussione. Il nucleo centrale di questo sistema è a tutt'oggi il Giappone. 
I governanti giapponesi sono stati i più sicuri - o succubi? - alleati degli Stati Uniti, ma in cambio, con una lotta continua e intelligente, hanno ottenuto molto: un'autonomia dal sistema economico e finanziario mondiale controllato in sostanza dagli Stati Uniti quale nessun altro paese ha conosciuto e privilegi in materia doganale e di export-import che hanno anche danneggiato in modo sostanziale gli interessi statunitensi e hanno provocato, soprattutto negli anni '80, un sostanziale risentimento degli americani12.
Oggi il controllo statunitense sulle componenti del "Western Pacific Rim" è in pericolo, o comunque in forse. La vittoria di Kim Dae Jung in Corea meridionale nel 1997 e soprattutto la sua politica di apertura a migliori rapporti con il Nord stanno gradualmente obliterando uno dei muri della guerra fredda, nonostante il tentativo statunitense di presentare la Corea settentrionale come uno "stato mascalzone" dal quale è possibile attendersi qualsiasi minaccia, compreso un attacco nucleare al territorio degli Stati Uniti. Qualora i rapporti tra le due Coree portassero a un'ulteriore distensione ed eventuali controlli, ad essa connessi, permettessero di constatare che la Corea settentrionale non è un arsenale missilistico-nucleare, la motivazione razionale delle basi statunitensi in Corea meridionale si indebolirebbe. Una Corea non necessariamente riunificata, ma non più divisa in due stati l'un contro l'altro armati potrebbe tornare a sentirsi parte più dell'Asia orientale - della cui variegata civiltà è stato splendido esempio - che del "Western Pacific Rim". La fine della guerra fredda in Corea modificherebbe anche la situazione giapponese, nel senso che - ora che l'Urss non esiste più da dieci anni e la Russia resta in crisi - sarebbe difficile continuare a presentare il Giappone come un paese fortemente minacciato, dipendente per la sua sopravvivenza dalla copertura strategica statunitense, nella fattispecie da uno scudo spaziale che finora solo i governanti giapponesi approvano. Ma il sistema politico giapponese è in crisi e potrebbe lasciar spazio a un'ondata di nazionalismo, tanto anticinese quanto antiamericano.
A questo punto l'esigenza che Taiwan non si unisca alla Repubblica popolare cinese resta più che mai fondamentale per la strategia degli Stati Uniti13. Orbene, negli ultimi anni la possibilità di migliori rapporti tra Taiwan e la Repubblica popolare cinese è divenuta sempre più concreta, non tanto perché Pechino - al di là della riaffermazione teorica del proprio diritto a intervenire militarmente sull'isola - ha prospettato ipotesi immaginose di riunificazione che vedono l'unica Cina come un'entità di radici storiche antiche, comune terra di entrambi i regimi. In effetti i rapporti tra il Guomindang e la terraferma sono divenuti negli ultimi anni frequenti, ma anche il partito di Chen Shui-bian, eletto presidente un anno fa con l'evidente favore degli Stati Uniti e l'ostilità di Pechino, ha dovuto di fatto ridimensionare le sue tendenze indipendentiste che porterebbero a uno scontro, forse anche militare, con la Cina, sia per carente sostegno parlamentare, sia per pressioni degli ambienti economici che lo sostengono. Infatti la realtà nuova consiste nella larga integrazione tra l'economia taiwanese e quella delle regioni cinesi sudorientali, soprattutto per il trasferimento da Taiwan al continente delle lavorazioni ad alto contenuto di lavoro, poco costoso in Cina. Un quinto degli investimenti taiwanesi si dirige, direttamente o con triangolazioni complesse, verso la Cina popolare ( si tratta di 40 miliardi di dollari statunitensi negli ultimi dieci anni e di 10 miliardi negli ultimi due anni) e un terzo del commercio estero dell'isola (30 miliardi di dollari solo nel 2000) avviene sulla stessa rotta. E poi ci sono i turisti, le fondazioni per le università, le visite alle tombe degli antenati e tutto quanto collega alla Cina un'isola la cui società ne differisce profondamente, ma la cultura e l'identità molto meno. 
L'eventualità di un'intesa, anche non istituzionale, anche non formale e il conseguente depotenziamento della "mina Taiwan" spaventano gli Stati Uniti che potrebbero perdere un altro punto d'appoggio al largo dell'Asia e un pretesto per denunciare la Cina popolare come un paese aggressivo. È possibile che la recente fornitura di armi all'isola mirasse proprio da un lato a consolidare il legame con Taipei, dall'altro a inasprire i rapporti con Pechino e non è certo che sia stata salutata come una benedizione da tutti i taiwanesi per la necessità di pagare tra 70 e 90 miliardi di dollari per sottomarini e aerei. Quanto allo scudo spaziale, su di esso a Taiwan si resta nel vago, in quanto segnerebbe la fine di ogni prospettiva di collaborazione e distensione con la Cina popolare.
Come è noto infatti lo scudo spaziale per l'Asia orientale, voluto fortemente da Bush, coprirebbe Giappone, Corea meridionale e Taiwan, interferendo in modo sostanziale con lo spazio territoriale cinese. Inoltre toglierebbe al (ridotto) arsenale missilistico e nucleare cinese ogni capacità di "deterrenza" nei confronti di un attacco statunitense alla Cina, sempre ipotizzato a Pechino, soprattutto dopo l'esperienza della guerra mossa alla Jugoslavia al di fuori del controllo dell'Onu e delle tradizionali norme di diritto internazionale. 
Fu il principio della deterrenza, della cosiddetta "mutua distruzione assicurata", a impedire che i colossali arsenali nucleari statunitense e sovietico portassero il mondo alla catastrofe. Forse Bush non si propone di attaccare la Cina: ma si comporta come se prevedesse che un giorno si potrà farlo. In realtà è forse soprattutto preoccupato dalla salvaguardia del controllo statunitense sul Pacifico, che la Cina non insidia oggi e difficilmente lo farà in futuro, per il tradizionale disinteresse per il mare tipico della sua cultura. Per mantenere quel controllo egli conta su strumenti militari, generatori di tensioni, mentre potrebbe essere importante per gli Stati Uniti avere rapporti normali e non conflittuali con i paesi che sono, per storia secolare, parte dell'Asia orientale e non del "Western Pacific Rim". 

MONDO CINESE N. 107, APRILE 2001

Note

1 La Cina aveva sempre avuto una bilancia commerciale a proprio favore nei confronti dell'Europa, dove le merci cinesi erano un lusso ed era necessario ricorrere pagarle in argento, l'enorme quantità d'argento accumulata nelle casse dello stato cinese nel 1700. Anche dal punto di vista culturale la Cina era stata guardata con interesse per le sue istituzioni statali centrali e per il reclutamento di una burocrazia laica e meritocratica in un'Europa alla ricerca delle forme di uno stato moderno.
2 Tra la fine del '700 e l'inizio dell'800, in pochi decenni, il contrabbando dell'oppio condotto dai mercanti inglesi e il suo collegamento con la rete di malavita organizzata in vaste regioni della Cina rovesciarono la bilancia commerciale cinese a favore degli occidentali e contribuirono a destabilizzare le istituzioni dello stato.
3 La Cina represse il contrabbando dell'oppio con mezzi che gli Stati Uniti considerano perfettamente legittimi per contrastare il commercio di droga: ma nella situazione del tempo scatenarono una serie di guerre nelle quali gli occidentali erano indubitabilmente gli aggressori, ma alla Cina fu imposto di pagare pesanti indennità. E quando il tesoro del grande impero fu svuotato dalle indennità, altre ne furono imposte nel 1901 catturando la Cina in un sistema di debito internazionale del quale oggi siamo in grado di constatare la gravosità considerando la sorte dei paesi poveri indebitati.
4 La classe dirigente giapponese nel 1868 scelse un programma di modernizzazione rapida e forzosa, non perché affascinata dai "valori" dell'Occidente, che infatti non fece mai propri, o dal significato umano intrinseco della cultura occidentale, ma perché, terrorizzata della sorte toccata alla Cina, decise di pagare qualsiasi prezzo per evitare la subordinazione all'Occidente. Da questo accolse la tecnologia, le pratiche finanziarie e in parte le istituzioni (ma non la democrazia) ritenendole più efficienti per perseguire rapidamente il fine della difesa del Giappone: "paese ricco, esercito forte".
5 È infatti opportuno ricordare che negli anni '20 del XX secolo il Giappone conobbe una fase di parlamentarismo conservatore ma illuminato durante il quale chiese che venisse riconosciuta la sua parità da parte delle altre potenze, ma fu respinto dall'Occidente, in particolare dagli Stati Uniti.
6 A Mao in Cina oggi vengono rimproverati molti errori e anche crimini, ma egli resta il patriota che difese con ogni mezzo la sovranità e l'unità della Cina. Quella lunga e tenace lotta condotta da lui e dai suoi compagni (in assoluta unità, non esistente su altre scelte decisive), continua ad essere accettata e riconosciuta da tutti i cinesi: è un fattore di unificazione psicologica e culturale. I governanti cinesi, in particolare Zhou Enlai, spesero ogni loro energia e tesori di "arte dello stato" nel difendere la sovranità e l'unità della Cina, dapprima contro l'assedio imposto dagli Stati Uniti dal 1950 al 1970, poi contro l'ostilità congiunta degli Stati Uniti e dell'Urss. L'"europeo" Kissinger al servizio del repubblicano Nixon comprese che gli Stati Uniti, battuti in Vietnam, dovevano accettare la Cina sovrana nata dalla rivoluzione. Con lui fu avviato da Mao e da Zhou Enlai il processo di reciproca accettazione tra la Repubblica popolare e gli Stati Uniti. 
7 In ciò fu allievo del Giappone Meiji, anche se analizzò soprattutto i casi della Corea meridionale e di Taiwan, non certo l'esempio degli Stati Uniti, troppo diversi dalla Cina.
8 Del resto non è irrilevante che la maggior parte degli asiatici ritenga che per gli occidentali sia inaccettabile che essi siano giunti (o piuttosto ritornati) a una condizione di prosperità. Questo atteggiamento è stato evidente nelle "risposte" alla crisi del 1997: per molti statisti asiatici, anche di parte conservatrice, essa fu provocata da manovre finanziarie occidentali. La Cina - che del resto seppe con sagacia tenersi al riparo dagli effetti più devastanti della crisi, al pari di Taiwan e del Giappone - non fece proprie queste sommarie dichiarazioni che ponevano volutamente in secondo piano le responsabilità delle classi dirigenti della Corea meridionale, della Thailandia, della Malesia e soprattutto nell'Indonesia per aver contratto debiti a breve non coperti da attività produttive. Comunque esse sono indicative di stati d'animo diffusi. La politica di Bush non va quindi soltanto contro il senso di identità dei cinesi, ma anche contro convinzioni condivise da dirigenti che in passato Washington aveva sperato di usare contro la Cina nell'Asia sudorientale.
9 La scarsa esperienza internazionale dell'attuale presidente degli Stati Uniti, le pressioni che egli può ricevere da forze che hanno sostenuto la sua campagna elettorale e della destra repubblicana e soprattutto della situazione di confusione che tuttora sembra regnare sulle scelte internazionali dei diversi e divergenti gruppi dei suoi collaboratori.
10 Quel controllo fu ottenuto entro la fine dell'800 con l'assoggettamento delle Hawai, l'acquisto dell'Alaska dalla Russia nel 1867 e, dopo la guerra con la Spagna nel 1898 e al termine di combattute discussioni, con la decisione di porre sotto dominio statunitense le Filippine. Con il potere su questo territorio al margine dell'Asia il Pacifico cominciava ad apparire come un "lago americano".
11 La Corea meridionale, legata agli Stati Uniti dal patto del 1954, ospita oggi le più importanti basi statunitensi in Asia, circa 60 mila americani. Allo scoppio della guerra di Corea nel 1950 l'ordine impartito alla VII flotta statunitense del Pacifico di pattugliare lo stretto e il successivo patto di alleanza del 1954 inclusero la Cina nazionalista, cioè Taiwan, nel sistema strategico statunitense, nonostante la prudente decisione di non stanziare soldati americani sull'isola impegnata nella non risolta guerra civile con il continente. Anche le Filippine continuano a far parte del sistema strategico statunitense, nonostante la liquidazione delle basi di Subic Bay e Clark Field avvenuta per consenso negli anni '80
12 A fronte di questi vantaggi economici i governanti giapponesi hanno permesso l'inclusione totale del loro paese nel sistema strategico degli Stati Uniti nel Pacifico: i loro porti per la flotta americana (senza indagare se a bordo vi fossero armi nucleari, pur messe al bando dal territorio giapponese) e soprattutto le basi di Okinawa, l'arcipelago al largo della Cina ritornato soltanto gradualmente al Giappone. Nelle basi di Okinawa vi sono 30 mila americani, estremamente invisi alla popolazione che preme su Tokyo per il loro allontanamento.
13 L'isola fu il centro della guerra fredda in Asia orientale in quanto gli Stati Uniti la riconobbero come rappresentante dello stato cinese fino al 1978 e fino al 1971 ne imposero la rappresentanza all'Onu. Nel 1978 riconobbero la Repubblica popolare secondo la formula di Pechino per cui "esiste una e una sola Cina e Taiwan fa parte di essa". Già nel 1979 tuttavia veniva approvato dal Congresso, con forti modifiche imposte dai repubblicani, il Taiwan Relations Act, che regolava i rapporti, di fatto diplomatici, tra quella che continua a chiamarsi "Repubblica di Cina" e gli Stati Uniti. Questi si impegnavano a rifornire l'isola di armi e dichiaravano di considerare un attacco a Taiwan (ovviamente da parte della Cina popolare) una "minaccia per la pace e la sicurezza nel Pacifico occidentale e una seria preoccupazione per gli Stati Uniti". Il Taiwan Relations Act è stato ovviamente - insieme all'insistenza americana nel denunciare la violazione dei diritti umani nella Cina popolare - il costante terreno di scontro tra Washington e Pechino, soprattutto per la fornitura di armi e gli inviti negli Stati Uniti a governanti di Taiwan. La denuncia dell'intenzione della Cina popolare di voler procedere all'annessione militare di Taiwan è stata a più riprese occasione per la stampa e i governanti statunitensi di presentare la Repubblica popolare come fattore di pericolo per la pace in Asia e al margine del Pacifico. Per un'ampia analisi sul problema di Taiwan si veda: L. Tamburrino, Taiwan, tra missili e computer, Milano, Angeli, 2001.

 

 


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