La politica verso la Cina inaugurata dal presidente Bush sta creando una grave atmosfera di antagonismo
tra i due paesi, nociva a tutti. I pericoli non stanno tanto in episodi singoli e neppure in decisioni
di vasta portata (come la vendita di armi aggiornate da parte degli Stati Uniti a Taiwan), bensì
nell'atteggiamento psicologico reciproco. L'evolversi dei rapporti sui problemi concreti (in particolare
sul progetto di scudo spaziale) dipenderà dagli orientamenti definitivi di Washington, quando si sarà
dissipata l'attuale atmosfera di incertezza e di divergenze tra i vari gruppi repubblicani. L'ostilità
programmatica dell'Amministrazione Bush verso la Repubblica popolare cinese è chiaramente espressa dal
concetto per cui gli Stati Uniti devono considerare la Cina un "avversario strategico", mentre durante
l'Amministrazione Clinton la Cina era un potenziale "partner strategico", nonostante le incalzanti
critiche mosse a Pechino dai democratici in nome dei diritti umani. La Repubblica popolare cinese è
vista esplicitamente nella Washington della presidenza repubblicana come l'unico avversario che
insidia il potere dominante degli Stati Uniti nel mondo, ora che è stata finalmente distrutta l'Unione
Sovietica. Questa linea contrappone gli Stati Uniti non solo alla Cina, ma anche all'Europa che non
sembra affatto incline a vedere nella Cina un nemico, considerando ovviamente preziosa la complementarità
economica con la Repubblica popolare.
In questo senso l'antico richiamo, insistentemente svolto dai governanti di Pechino, alla necessità di
un "mondo multipolare", con l'implicito riconoscimento alla presenza della Cina come grande potenza in
un mondo di altre grandi potenze, potrebbe anche essere - ora che le preclusioni ideologiche sono
cadute - una linea di successo più di quanto lo sia la pratica scelta da Bush di trattare come entità
irrilevante l'Europa, certamente non gratificata né dalla scelta di abbandonare gli accordi di Kyoto
sull'ambiente e la messa al bando delle armi batteriologiche, né dai progetti per lo scudo spaziale.
Invece i governanti cinesi sembrano desiderosi di avere con l'Europa un rapporto privilegiato. Nella
scelta di considerare la Cina un "avversario strategico" da perseguire ad oltranza sembra di intravedere
la volontà conclamata di Bush di affermare come naturale e irrevocabile il primato degli Stati Uniti,
escludendo da una condivisione di potere tutti gli altri, anche coloro che - come gli europei - sono
stati per cinquant'anni gli alleati sicuri degli Stati Uniti per ragioni ideologiche e sociali.
Quella
di Bush differisce dalla politica americana dell'ultimo cinquantennio, volta sempre a cercare alleati:
infatti non sono poche le voci critiche che si levano non solo da parte dei democratici, ma da molti
repubblicani, che ricordano che si possono avere dei nemici, ma non tanti nemici a un tempo.
L'antica ferita degli asiatici Nei confronti della Cina (ma in questo caso il discorso vale anche per gli altri paesi dell'Asia
orientale) è inoltre sempre indispensabile tener conto del fatto che il contatto dei popoli di
quest'area del mondo con gli occidentali è avvenuto nel modo più traumatico, che non è mai stato
perdonato da alcuno, al massimo sottaciuto a denti stretti. L'Asia orientale - ma soprattutto la
Cina - era alla metà del XVIII secolo l'area più prospera e stabile del mondo1, poi fu depredata dal
commercio occidentale dell'oppio2 e soprattutto dalle pesanti indennità imposte dalle potenze al termine
di guerre delle quali la Cina era stata soltanto vittima3.
Si può quindi comprendere che i cinesi, i
governanti cinesi, ma anche i semplici cittadini, che abbiano studiato la storia moderna del loro paese,
nella Repubblica popolare, ma anche a Taiwan o a Singapore si considerino vittime di "azioni ingiuste",
dell'immorale spaccio di droga e di rapina per la vicenda delle indennità: e ciò indipendentemente dai
giudizi sul sistema capitalistico. Ciò non vale solo per i cinesi, ma anche per i giapponesi4 e la
politica di Bush potrebbe portare a ripetere l'esperienza tragica degli anni '20 quando un Giappone
considerato "avversario strategico" dalle altre potenze finì per scegliere di costruirsi un impero
tutto proprio in Asia orientale5.
Nella sua scelta il Giappone compì poi ogni genere di nefandezze ai
danni degli altri asiatici e avviò il processo che portò allo scontro con l'Occidente, concluso poi con
i bombardamenti atomici, che ogni giapponese continua a considerare "atto ingiusto" degli americani e
non naturale conseguenza dell'avventura bellicista. La difesa della sovranità e dell'unità compatta i cinesi La vittoria della rivoluzione in Cina segnò la fine della lunga umiliazione e delle depredazioni e
l'inizio di una dura battaglia di Mao e dei suoi compagni per difendere l'unità e la sovranità della Cina
dall'assedio e dalle minacce straniere, statunitensi o sovietiche che fossero6.
A sua volta Deng Xiaoping
compì la scelta della modernizzazione, dell'apertura al mercato internazionale e anche a soluzioni
sociali di tipo capitalistico, non perché dubitasse del valore della sovranità e dell'identità cinesi,
ma perché voleva difenderle con efficacia da un Urss allora nemica e da un Occidente sempre infido7.
Ora la politica di Bush mette i cinesi di fronte a un problema che non può non suscitare in loro
angoscia e indurli alla prudenza, all'esercizio di quelle arti diplomatiche e politiche ereditate
dalla secolare classe dirigente dell'impero che furono messe in atto da Mao, da Zhou e da Deng. Nelle
recenti vicende, la politica di Pechino è stata ad un tempo ferma nei principi, attiva nella ricerca
di possibili alleati e nell'isolamento dell'avversario e duttile nell'elaborazione di convenienti
soluzioni tattiche.
La politica dell'attuale presidente Bush verso la Cina non si rifà a quella di suo padre (che fu il
primo ambasciatore statunitense in Cina ed ebbe sempre con Pechino un rapporto di riguardo, anche al
momento di Tian'anmen), ma piuttosto a quella di Reagan verso l'Unione Sovietica. Reagan proclamò
l'Urss "impero del male" e si adoperò con successo per distruggerla, imponendole un'insostenibile
corsa agli armamenti (ventilando anche uno scudo spaziale allora non realizzabile), che contribuì a
minarne le basi economiche e politiche. Lo sfacelo dell'Unione Sovietica, del suo status di grande
potenza, l'annientamento della sua sovranità e unità, la riduzione della sua economia a un guscio vuoto
esposto a ogni ricatto e a ogni iniziativa criminale e le condizioni di miseria di vasti settori popolari
sono note ai cinesi e costituiscono un fattore di consenso per i governanti. L'ipotesi che gli Stati
Uniti si propongano di fare alla Cina ciò che è stato fatto all'Unione Sovietica preoccupa i cinesi:
l'eventualità che ci riescano è per loro - giustamente - una prospettiva agghiacciante8. Le radici della strategia statunitense nel Pacifico e in Asia Per comprendere la politica di Bush al di là di quelle che possono essere circostanze occasionali e
passeggere9, è necessario cercare nella storia il filone per comprendere il suo atteggiamento. In primo
luogo vi è l'interesse che per gli Stati Uniti rappresenta il controllo sul Pacifico. Noi europei lo
sottovalutiamo, considerando gli Stati Uniti legati soprattutto all'esperienza del mondo atlantico,
mentre nella coscienza storica degli americani la lunga corsa all'Ovest formò la loro identità di popolo
e di stato, staccato dall'Europa e autonomo da essa.
Quando nel 1846 la California fu conquistata
togliendola al Messico la lunga marcia verso la "frontiera" era finita? Certo che no, dichiarò subito
il Congresso: ed elaborò il concetto per cui era "destino manifesto" degli Stati Uniti non soltanto
possedere il territorio tra i due oceani, ma avere un potere stabile sul Pacifico10. Che il Pacifico debba
essere controllato dagli Stati Uniti e che interessi vitali, "interni" degli Stati Uniti siano qui in
gioco fa parte della cultura politica di ogni americano: un'interiorizzazione che ha trovato la sua
definitiva conferma nella seconda guerra mondiale.
Si può dire che il motivo vero dello scontro con il Giappone non consistette nel carattere
fascisteggiante del suo regime interno e neppure nella ferocia dei suoi atti contro cinesi e coreani,
bensì nel fatto che i giapponesi sfidarono il controllo statunitense sul Pacifico. Nel Pacifico gli
americani combatterono e vinsero da soli: con la loro strategia aero-navale, con la potenza delle navi
e degli aerei usciti dagli arsenali della California, con tanto sangue e grandi sofferenze dei loro
uomini. Quindi gli Stati Uniti ritennero giusto occupare da soli il Giappone, un paese dell'Asia
orientale che entrava a far parte di quell'insieme che gli americani definiscono "Western Pacific Rim",
"bordo occidentale del Pacifico", strumento essenziale per assicurare il controllo americano dell'intero
oceano. Sarebbe concepibile definire Portogallo, Bretagna e Cornovaglia "Eastern Atlantic Rim"? Certo
che no: l'Atlantico è comune a europei e americani. Il Pacifico è "riservato" agli Stati Uniti, o almeno
è percepito per tale nella cultura politica statunitense.
La vittoria e poi la resistenza all'assedio dei comunisti cinesi imposero, dopo la sconfitta subita in
Vietnam, la rinuncia americana a controllare l'area continentale dell'Asia orientale. Ma intanto le
vicende della guerra fredda, la guerra di Corea, il rapporto con Taiwan, l'alleanza con il Giappone del
1951, avevano consentito agli Stati Uniti di completare e consolidare il sistema del "Western Pacific
Rim"11 che non è mai stato posto in discussione. Il nucleo centrale di questo sistema è a tutt'oggi il
Giappone.
I governanti giapponesi sono stati i più sicuri - o succubi? - alleati degli Stati Uniti, ma
in cambio, con una lotta continua e intelligente, hanno ottenuto molto: un'autonomia dal sistema
economico e finanziario mondiale controllato in sostanza dagli Stati Uniti quale nessun altro paese ha
conosciuto e privilegi in materia doganale e di export-import che hanno anche danneggiato in modo
sostanziale gli interessi statunitensi e hanno provocato, soprattutto negli anni '80, un sostanziale
risentimento degli americani12.
Oggi il controllo statunitense sulle componenti del "Western Pacific Rim" è in pericolo, o comunque in
forse. La vittoria di Kim Dae Jung in Corea meridionale nel 1997 e soprattutto la sua politica di
apertura a migliori rapporti con il Nord stanno gradualmente obliterando uno dei muri della guerra
fredda, nonostante il tentativo statunitense di presentare la Corea settentrionale come uno "stato
mascalzone" dal quale è possibile attendersi qualsiasi minaccia, compreso un attacco nucleare al
territorio degli Stati Uniti. Qualora i rapporti tra le due Coree portassero a un'ulteriore distensione
ed eventuali controlli, ad essa connessi, permettessero di constatare che la Corea settentrionale non è
un arsenale missilistico-nucleare, la motivazione razionale delle basi statunitensi in Corea meridionale
si indebolirebbe. Una Corea non necessariamente riunificata, ma non più divisa in due stati l'un contro
l'altro armati potrebbe tornare a sentirsi parte più dell'Asia orientale - della cui variegata civiltà è
stato splendido esempio - che del "Western Pacific Rim". La fine della guerra fredda in Corea
modificherebbe anche la situazione giapponese, nel senso che - ora che l'Urss non esiste più da dieci
anni e la Russia resta in crisi - sarebbe difficile continuare a presentare il Giappone come un paese
fortemente minacciato, dipendente per la sua sopravvivenza dalla copertura strategica statunitense,
nella fattispecie da uno scudo spaziale che finora solo i governanti giapponesi approvano. Ma il sistema
politico giapponese è in crisi e potrebbe lasciar spazio a un'ondata di nazionalismo, tanto anticinese
quanto antiamericano.
A questo punto l'esigenza che Taiwan non si unisca alla Repubblica popolare cinese resta più che mai
fondamentale per la strategia degli Stati Uniti13. Orbene, negli ultimi anni la possibilità di migliori
rapporti tra Taiwan e la Repubblica popolare cinese è divenuta sempre più concreta, non tanto perché
Pechino - al di là della riaffermazione teorica del proprio diritto a intervenire militarmente
sull'isola - ha prospettato ipotesi immaginose di riunificazione che vedono l'unica Cina come un'entità
di radici storiche antiche, comune terra di entrambi i regimi. In effetti i rapporti tra il Guomindang
e la terraferma sono divenuti negli ultimi anni frequenti, ma anche il partito di Chen Shui-bian, eletto
presidente un anno fa con l'evidente favore degli Stati Uniti e l'ostilità di Pechino, ha dovuto di
fatto ridimensionare le sue tendenze indipendentiste che porterebbero a uno scontro, forse anche
militare, con la Cina, sia per carente sostegno parlamentare, sia per pressioni degli ambienti economici
che lo sostengono. Infatti la realtà nuova consiste nella larga integrazione tra l'economia taiwanese e
quella delle regioni cinesi sudorientali, soprattutto per il trasferimento da Taiwan al continente delle
lavorazioni ad alto contenuto di lavoro, poco costoso in Cina. Un quinto degli investimenti taiwanesi si
dirige, direttamente o con triangolazioni complesse, verso la Cina popolare ( si tratta di 40 miliardi di
dollari statunitensi negli ultimi dieci anni e di 10 miliardi negli ultimi due anni) e un terzo del
commercio estero dell'isola (30 miliardi di dollari solo nel 2000) avviene sulla stessa rotta. E poi ci
sono i turisti, le fondazioni per le università, le visite alle tombe degli antenati e tutto quanto
collega alla Cina un'isola la cui società ne differisce profondamente, ma la cultura e l'identità molto
meno.
L'eventualità di un'intesa, anche non istituzionale, anche non formale e il conseguente depotenziamento
della "mina Taiwan" spaventano gli Stati Uniti che potrebbero perdere un altro punto d'appoggio al largo
dell'Asia e un pretesto per denunciare la Cina popolare come un paese aggressivo. È possibile che la
recente fornitura di armi all'isola mirasse proprio da un lato a consolidare il legame con Taipei,
dall'altro a inasprire i rapporti con Pechino e non è certo che sia stata salutata come una benedizione
da tutti i taiwanesi per la necessità di pagare tra 70 e 90 miliardi di dollari per sottomarini e aerei.
Quanto allo scudo spaziale, su di esso a Taiwan si resta nel vago, in quanto segnerebbe la fine di ogni
prospettiva di collaborazione e distensione con la Cina popolare.
Come è noto infatti lo scudo spaziale per l'Asia orientale, voluto fortemente da Bush, coprirebbe
Giappone, Corea meridionale e Taiwan, interferendo in modo sostanziale con lo spazio territoriale
cinese. Inoltre toglierebbe al (ridotto) arsenale missilistico e nucleare cinese ogni capacità di
"deterrenza" nei confronti di un attacco statunitense alla Cina, sempre ipotizzato a Pechino, soprattutto
dopo l'esperienza della guerra mossa alla Jugoslavia al di fuori del controllo dell'Onu e delle
tradizionali norme di diritto internazionale.
Fu il principio della deterrenza, della cosiddetta "mutua
distruzione assicurata", a impedire che i colossali arsenali nucleari statunitense e sovietico portassero
il mondo alla catastrofe. Forse Bush non si propone di attaccare la Cina: ma si comporta come se
prevedesse che un giorno si potrà farlo. In realtà è forse soprattutto preoccupato dalla salvaguardia del
controllo statunitense sul Pacifico, che la Cina non insidia oggi e difficilmente lo farà in futuro, per
il tradizionale disinteresse per il mare tipico della sua cultura. Per mantenere quel controllo egli
conta su strumenti militari, generatori di tensioni, mentre potrebbe essere importante per gli Stati
Uniti avere rapporti normali e non conflittuali con i paesi che sono, per storia secolare, parte
dell'Asia orientale e non del "Western Pacific Rim". MONDO
CINESE N. 107, APRILE 2001
Note
1 La Cina aveva sempre avuto una bilancia commerciale a proprio favore nei
confronti dell'Europa, dove le merci cinesi erano un lusso ed era necessario ricorrere pagarle in argento,
l'enorme quantità d'argento accumulata nelle casse dello stato cinese nel 1700. Anche dal punto di vista
culturale la Cina era stata guardata con interesse per le sue istituzioni statali centrali e per il
reclutamento di una burocrazia laica e meritocratica in un'Europa alla ricerca delle forme di uno stato
moderno.
2 Tra la fine del '700 e l'inizio dell'800, in pochi decenni, il contrabbando dell'oppio condotto
dai mercanti inglesi e il suo collegamento con la rete di malavita organizzata in vaste regioni della Cina
rovesciarono la bilancia commerciale cinese a favore degli occidentali e contribuirono a destabilizzare le
istituzioni dello stato.
3 La Cina represse il contrabbando dell'oppio con mezzi che gli Stati Uniti considerano
perfettamente legittimi per contrastare il commercio di droga: ma nella situazione del tempo scatenarono
una serie di guerre nelle quali gli occidentali erano indubitabilmente gli aggressori, ma alla Cina fu
imposto di pagare pesanti indennità. E quando il tesoro del grande impero fu svuotato dalle indennità,
altre ne furono imposte nel 1901 catturando la Cina in un sistema di debito internazionale del quale oggi
siamo in grado di constatare la gravosità considerando la sorte dei paesi poveri indebitati.
4 La classe dirigente giapponese nel 1868 scelse un programma di modernizzazione rapida e
forzosa, non perché affascinata dai "valori" dell'Occidente, che infatti non fece mai propri, o dal
significato umano intrinseco della cultura occidentale, ma perché, terrorizzata della sorte toccata alla
Cina, decise di pagare qualsiasi prezzo per evitare la subordinazione all'Occidente. Da questo accolse la
tecnologia, le pratiche finanziarie e in parte le istituzioni (ma non la democrazia) ritenendole più
efficienti per perseguire rapidamente il fine della difesa del Giappone: "paese ricco, esercito forte".
5 È infatti opportuno ricordare che negli anni '20 del XX secolo il Giappone conobbe una fase di
parlamentarismo conservatore ma illuminato durante il quale chiese che venisse riconosciuta la sua parità
da parte delle altre potenze, ma fu respinto dall'Occidente, in particolare dagli Stati Uniti.
6 A Mao in Cina oggi vengono rimproverati molti errori e anche crimini, ma egli resta il
patriota che difese con ogni mezzo la sovranità e l'unità della Cina. Quella lunga e tenace lotta condotta
da lui e dai suoi compagni (in assoluta unità, non esistente su altre scelte decisive), continua ad essere
accettata e riconosciuta da tutti i cinesi: è un fattore di unificazione psicologica e culturale. I
governanti cinesi, in particolare Zhou Enlai, spesero ogni loro energia e tesori di "arte dello stato" nel
difendere la sovranità e l'unità della Cina, dapprima contro l'assedio imposto dagli Stati Uniti dal 1950
al 1970, poi contro l'ostilità congiunta degli Stati Uniti e dell'Urss. L'"europeo" Kissinger al servizio
del repubblicano Nixon comprese che gli Stati Uniti, battuti in Vietnam, dovevano accettare la Cina sovrana
nata dalla rivoluzione. Con lui fu avviato da Mao e da Zhou Enlai il processo di reciproca accettazione tra
la Repubblica popolare e gli Stati Uniti.
7 In ciò fu allievo del Giappone Meiji, anche se analizzò soprattutto i casi della Corea
meridionale e di Taiwan, non certo l'esempio degli Stati Uniti, troppo diversi dalla Cina.
8 Del resto non è irrilevante che la maggior parte degli asiatici ritenga che per gli occidentali
sia inaccettabile che essi siano giunti (o piuttosto ritornati) a una condizione di prosperità. Questo
atteggiamento è stato evidente nelle "risposte" alla crisi del 1997: per molti statisti asiatici, anche
di parte conservatrice, essa fu provocata da manovre finanziarie occidentali. La Cina - che del resto seppe
con sagacia tenersi al riparo dagli effetti più devastanti della crisi, al pari di Taiwan e del Giappone -
non fece proprie queste sommarie dichiarazioni che ponevano volutamente in secondo piano le responsabilità
delle classi dirigenti della Corea meridionale, della Thailandia, della Malesia e soprattutto nell'Indonesia
per aver contratto debiti a breve non coperti da attività produttive. Comunque esse sono indicative di stati
d'animo diffusi. La politica di Bush non va quindi soltanto contro il senso di identità dei cinesi, ma anche
contro convinzioni condivise da dirigenti che in passato Washington aveva sperato di usare contro la Cina
nell'Asia sudorientale.
9 La scarsa esperienza internazionale dell'attuale presidente degli Stati Uniti, le pressioni
che egli può ricevere da forze che hanno sostenuto la sua campagna elettorale e della destra repubblicana
e soprattutto della situazione di confusione che tuttora sembra regnare sulle scelte internazionali dei
diversi e divergenti gruppi dei suoi collaboratori.
10 Quel controllo fu ottenuto entro la fine dell'800 con l'assoggettamento delle Hawai, l'acquisto
dell'Alaska dalla Russia nel 1867 e, dopo la guerra con la Spagna nel 1898 e al termine di combattute
discussioni, con la decisione di porre sotto dominio statunitense le Filippine. Con il potere su questo
territorio al margine dell'Asia il Pacifico cominciava ad apparire come un "lago americano".
11 La Corea meridionale, legata agli Stati Uniti dal patto del 1954, ospita oggi le più importanti
basi statunitensi in Asia, circa 60 mila americani. Allo scoppio della guerra di Corea nel 1950 l'ordine
impartito alla VII flotta statunitense del Pacifico di pattugliare lo stretto e il successivo patto di
alleanza del 1954 inclusero la Cina nazionalista, cioè Taiwan, nel sistema strategico statunitense,
nonostante la prudente decisione di non stanziare soldati americani sull'isola impegnata nella non risolta
guerra civile con il continente. Anche le Filippine continuano a far parte del sistema strategico
statunitense, nonostante la liquidazione delle basi di Subic Bay e Clark Field avvenuta per consenso negli
anni '80
12 A fronte di questi vantaggi economici i governanti giapponesi hanno permesso l'inclusione
totale del loro paese nel sistema strategico degli Stati Uniti nel Pacifico: i loro porti per la flotta
americana (senza indagare se a bordo vi fossero armi nucleari, pur messe al bando dal territorio giapponese)
e soprattutto le basi di Okinawa, l'arcipelago al largo della Cina ritornato soltanto gradualmente al
Giappone. Nelle basi di Okinawa vi sono 30 mila americani, estremamente invisi alla popolazione che preme
su Tokyo per il loro allontanamento.
13 L'isola fu il centro della guerra fredda in Asia orientale in quanto gli Stati Uniti la
riconobbero come rappresentante dello stato cinese fino al 1978 e fino al 1971 ne imposero la rappresentanza
all'Onu. Nel 1978 riconobbero la Repubblica popolare secondo la formula di Pechino per cui "esiste una e una
sola Cina e Taiwan fa parte di essa". Già nel 1979 tuttavia veniva approvato dal Congresso, con forti
modifiche imposte dai repubblicani, il Taiwan Relations Act, che regolava i rapporti, di fatto diplomatici,
tra quella che continua a chiamarsi "Repubblica di Cina" e gli Stati Uniti. Questi si impegnavano a rifornire
l'isola di armi e dichiaravano di considerare un attacco a Taiwan (ovviamente da parte della Cina popolare)
una "minaccia per la pace e la sicurezza nel Pacifico occidentale e una seria preoccupazione per gli Stati
Uniti". Il Taiwan Relations Act è stato ovviamente - insieme all'insistenza americana nel denunciare la
violazione dei diritti umani nella Cina popolare - il costante terreno di scontro tra Washington e Pechino,
soprattutto per la fornitura di armi e gli inviti negli Stati Uniti a governanti di Taiwan. La denuncia
dell'intenzione della Cina popolare di voler procedere all'annessione militare di Taiwan è stata a più
riprese occasione per la stampa e i governanti statunitensi di presentare la Repubblica popolare come
fattore di pericolo per la pace in Asia e al margine del Pacifico. Per un'ampia analisi sul problema di
Taiwan si veda: L. Tamburrino, Taiwan, tra missili e computer, Milano, Angeli, 2001.
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