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EDITORIALE

La lunga marcia e l'economia globale

di Cesare Romiti

C'e una frase di Robert Mudell, ultimo premio Nobel per l'economia, che sintetizza in modo molto felice il processo di internazionalizzazione che sta investendo le società di tutti i continenti: "Al momento attuale l'unica economia chiusa è il mondo".
L'espressione dello studioso canadese - con casa anche in Toscana - che ha ricevuto l'ambito riconoscimento per essere stato fra l'altro l'architetto del sistema monetario da cui è scaturito l'euro, la nuova valuta unica europea, è del 1999. Tuttavia ha ricevuto proprio di recente una definitiva conferma con l'ammissione della Repubblica Popolare Cinese alla Wto (World trade organization).

La Cina era stata infatti finora "la grande assente" nell'organizzazione mondiale del commercio e il suo ingresso, accompagnato in particolare nello scorso maggio dall'approvazione del Pntr (Permanent normal trade relations) votata dal congresso degli Stati Uniti nei suoi confronti, risulta fondamentale. Con la ratifica dell'adesione cinese alla Wto, a partire dalla fine del 2000, si aprono in effetti scenari del tutto nuovi nella storia della collaborazione fra i popoli.

Soltanto in apparenza questo avvenimento riveste una valenza economica. In realtà costituisce un tassello determinante nella "lunga marcia" dell'evoluzione politica, sociale e culturale che la nazione più estesa e popolata del mondo ha intrapreso nell'ultimo decennio di questo secolo. Rappresenta lo sbocco quasi naturale di un percorso che si snoda tuttora fra numerosi problemi e contraddizioni, ma che appare ormai delineato.

Non ci sarà unicamente una più intensa circolazione di merci, servizi e capitali. L'obbligo di rispettare all'interno i regolamenti internazionali, per esempio, ha sempre rappresentato nelle esperienze precedenti (e per certi versi analoghe) uno stimolo ad applicare con maggiore obiettività le leggi di mercato. E non solo queste.

D'altra parte negli ultimi 20 anni l'import-export cinese è già passato da 18 a circa 450 miliardi di dollari, moltiplicandosi quindi di ben 25 volte, contro le 7 del Giappone e le 8,5 di quello degli Stati Uniti, marciando a un ritmo di crescita media annua del 15% per le esportazioni e del 13% per le importazioni. E sull'onda lunga delle riforme di Deng Xiaoping e Jiang Zemin, la Cina è riuscita nell'ultimo decennio a raddoppiare il proprio reddito pro-capite con una velocità finora sconosciuta: la Gran Bretagna aveva impiegato 58 anni, gli Stati Uniti 47, il Giappone 33, l'Indonesia 17 e la Corea del Sud 11.

Si tratta tuttavia di uno sviluppo fondato sugli alti sussidi statali all'esportazione, oltre che su elevate tariffe doganali per il controllo dell'importazione. Per questo l'attesa generale è volta ora a verificare la portata di queste ulteriori aperture oltre la muraglia. Non è in gioco il futuro immediato: il 70% delle esportazioni sono destinate al mercato asiatico e quindi la ripresa economica del continente in atto da tre anni (e propiziata fra l'altro proprio dalla rinuncia a svalutare a suo tempo lo yuan renminbi) dovrebbe continuare a favorire nel primo periodo e in termini rassicuranti l'interscambio cinese, che per il 2000 prevede infatti un surplus di 30 miliardi di dollari. Ma va misurata la capacità del paese di coniugare la rinuncia a politiche per tanta parte autarchiche con un'espansione veramente diffusa, distributrice di maggior benessere per tutti gli strati della popolazione. 

Da una parte, per esempio, le statistiche cinesi parlano di una disoccupazione di 100 milioni di unità nelle zone rurali per il 1999, contro una stima di 16-18 milioni delle aree metropolitane. E di qui deriva anche la crescente urbanizzazione delle città cinesi. Dall'altra resta fermo l'impegno del governo di Pechino nel destinare grandi investimenti alle infrastrutture (50 mila miliardi di lire nel solo 1999), agli interventi nel Ningxia, il loro Mezzogiorno (26mila miliardi nel prossimo quinquennio dopo averne spesi oltre 14 in quello passato), e per la ristrutturazione delle industrie statali, che determina una nuova inevitabile fuoriuscita di forze di lavoro. 

Allo stesso modo si prevede per il 2000 una crescita compresa fra il 7,5% e l'8% del pil (prodotto interno lordo) rispetto all'anno precedente e quindi per la seconda volta in aumento dopo una contrazione durata sette anni: 9,5% nel 1991; 14,2% nel 1992; 13,9% nel 1993; 13,0% nel 1994; 10,7% nel 1995; 9,7% nel 1996; 8,8% nel 1997; 5,4% nel 1998; 7,1% nel 1999. Tuttavia il paese continua a restare in deflazione come ormai accade da qualche tempo e mentre i consumi nell'ultimo anno si sono incrementati del 6,5%, l'indice dei prezzi è rimasto negativo (-1,7%) a dimostrazione che i cinesi risparmiano e cercano soprattutto di non spendere.

Quella che può sembrare solamente una ventata - seppur travolgente - di innovazioni mercantili coinvolge in realtà tutti i programmi di aggiornamento e ammodernamento dell'economia cinese e delle sue strutture e condiziona i piani con cui le autorità di Pechino pensano di portare nel nuovo secolo la Cina, offrendo un sistema di vita più aperto e un migliore tenore a tutti i cittadini. Basta pensare all'entrata in vigore della nuova legge che elimina il monopolio statale in materia di assunzioni e licenziamenti; al varo del "software red flax linux" per l'informatizzazione di tutta le rete amministrativa ministeriale e statale; al forte ridimensionamento dell'impresa di stato; alla creazione di un vero mercato immobiliare con la caduta della proibizione di vendere gli appartamenti rilevati dallo stato (questa pluriennale operazione di passaggio di proprietà delle abitazioni ai privati è ormai terminata e quindi se ne attende ora la liberalizzazione completa); alla profonda riforma del sistema finanziario e creditizio e del circuito bancario, per ora soltanto abbozzata e ancora troppo subordinata alla responsabilità pubblica e alla macchina burocratica.

La cosiddetta politica delle porte aperte comporta inoltre il rinnovamento del Fdi (Foreign direct investment) e non è facile prevedere le conseguenze di un afflusso annuo degli investimenti stranieri pari a 100 miliardi di dollari - questo è il target per il 2005 - quando il livello si è finora attestato su quote assai più contenute (37 miliardi nel 1999, 43 nel 1998, 41 nel 1997, 40 nel 1996), anche se crescenti, rispetto ai 23 miliardi del 1993 e 10 del 1992. Così come restano da verificare le conseguenze dei flussi produttivi e occupazionali dai settori industriali più deboli e a conduzione statale - siderurgia, cemento, materiali da costruzione, veicoli, macchinari - a quelli con migliori prospettive: tessili, abbigliamento, edilizia, alimentari e soprattutto servizi, nel loro complesso.

Anche se non sembrano del tutto intelligibili, si tratta di eventi ed effetti dalla rilevanza evidente.

In questo contesto l'Istituto Italo-Cinese, dopo aver rinnovato i propri vertici, si appresta ora a riprendere il suo lungo cammino. A 30 anni dall'inizio delle relazioni ufficiali fra Italia e Cina e nel trentesimo anniversario - ormai imminente - della fondazione, si riaprono quegli orizzonti che il primo promotore e presidente dell'istituzione, Vittorino Colombo, aveva saputo prefigurare con grande sensibilità politica e culturale. E l'augurio generale è che anche in futuro il cammino si riveli lungo: non tanto per la distanza che intercorre con gli obiettivi, quanto piuttosto per il tragitto che si intende compiere e per i risultati, proficui e duraturi, che si possono cogliere.

Il discorso istituzionale riflette e sviluppa inevitabilmente quelle tendenze d'approfondimento e quei contributi di analisi che hanno consentito in tutti questi anni a "Mondo cinese" di mantenere in vita il flusso di comunicazione fra Cina e Italia. Con i suoi 104 numeri di storia editoriale, questa rivista quadrimestrale non è stata una semplice proiezione dell'Istituto, bensì il principale punto di riferimento di tutti gli ideali e gli interessi coinvolti in un rapporto così complesso e vitale come quello che può legare due mondi e due popoli così distanti eppure al tempo stesso fra i più ricchi in assoluto di tradizioni e di più antica civiltà.

L'impegno è quindi quello di essere sempre di più il motore centrale di un rapporto così stimolante e le linee d'intervento che vi si uniformano sono soprattutto quattro.

La prima è di carattere culturale.

Paradossalmente nel mondo occidentale si sono manifestati assai più attenzione e desiderio di nuovi approcci verso la Cina nel corso degli anni di maggiore "chiusura" delle relazioni internazionali con questo paese, che nell'ultimo decennio, durante il quale si sono invece registrati i segnali più concreti di apertura verso l'esterno. È stata superiore la forza d'attrazione ideologica - ai tempi della cosiddetta cortina di bambù - di quella culturale e sociale dell'ultimo periodo, durante lo sviluppo della globalizzazione e in piena era tecnologica.

Al posto di un'asimmetria se ne è creata un'altra e si ripropone quindi l'obiettivo di riequilibrare le esigenze con le opportunità. Molte iniziative interessanti e suggestive - in particolare nel settore accademico - avevano preso corpo anche in Italia dopo la prima ondata di interesse verso la Cina; ma il loro slancio appare essersi gradatamente smorzato. Si tratta allora di ristabilire contatti attivi e riaprire gli scambi e i collegamenti con il paese che da solo rappresenta metà continente asiatico.

La seconda area d'interesse è di natura scientifica e ha il suo fulcro nel settore medico-scientifico, dove questo istituto è stato il primo promotore di una collaborazione concreta e di una reciproca frequentazione. Appare necessario ravvivare lo sviluppo della conoscenza che accomuna sia la nostra società di medicina sia la medicina tradizionale cinese, il cui patrimonio di scienza e di ricerca è fra i più ricchi di tradizioni e affonda le sue radici fino al 2500 avanti Cristo. Purtroppo è un tesoro che troppo spesso oggi viene pericolosamente abbinato a un complesso di pratiche indeterminate e di discipline pseudo-tecniche e, come la medicina indiana, anche quella cinese rischia di essere confusa fra le metodologie di dubbia origine, fra quelle che fanno leva essenzialmente su approssimazione e su un senso degli affari male inteso.

Un terzo livello di impegni scorre sul piano artistico.

Appare quasi inutile soffermarsi sulla funzione di tutte le arti nei processi di pace e di collaborazione fra i popoli e ricordare la valenza di alcune manifestazioni del passato attraverso cui, per esempio, la musica e il teatro o il cinema italiani e cinesi sono riusciti a diffondere - l'uno nella parte di mondo dell'altro - i segni di una diversa ricerca e applicazione, sempre tesa però a dare la massima espressione agli ideali, ai sentimenti, alla vita e alla storia dell'uomo. Risulta quindi assolutamente utile e prezioso riprendere le fila di questi colloquio, restituire continuità e intensità a una cooperazione che può soltanto arricchire.

La quarta direttrice investe il campo economico.

In questo ambito si registrano probabilmente le innovazioni e le prospettive più consistenti. Ne fanno fede - come ricordato prima - i piani di liberalizzazione avviati dalle autorità governative di Pechino, le esperienze d'annessione di Hong Kong e Macao e soprattutto il recente ingresso della Repubblica Popolare Cinese nell'Organizzazione mondiale del commercio, che rappresentano una spinta pressoché irreversibile all'apertura della Cina verso una maggiore internazionalizzazione del suo commercio e di tutte le attività.

Soltanto nell'ultimo biennio gli investimenti italiani nel paese, dopo un periodo di netta contrazione, hanno ripreso come tutti quelli stranieri a salire e si tratta quindi di creare le condizioni per rendere stabile questo incremento e più profonda la loro incidenza nella crescita complessiva della nazione cinese. Non solo economica, ma anche civile e sociale. In questa sfera opera uno strumento importante, e quasi contestuale per origine all'Istituto, come la Camera di commercio italo-cinese e si impone pertanto una strategia di stretta colleganza e d'iniziative comuni, per condividere gli obiettivi generali.

La sfida principale appare in sostanza quella di dimostrare che il concetto della globalizzazione non si lega tanto agli schemi di una nuova economia transnazionale o ai principi sociologici del cosiddetto pensiero unico, ma all'esigenza di avvicinare le esperienze e far conoscere le situazioni di quanti ci circondano, per mettere in comune le soluzioni e non i problemi. L'obiettivo non è di omologare i destini politici, quanto semmai di elevare la partecipazione alla crescita e allo sviluppo di tutti. E la storia ha dimostrato che comunque gli sbarramenti, i protezionismi e gli embarghi frenano la creazione delle risorse, mentre il processo che porta ad aperture democratiche è quasi sempre quello dell'internazionalizzazione.

La Cína è nota storicamente per la sua autovalutazione, per essere un grande paese prevalentemente autoreferenziale. Appare sufficiente ricordare come solenne documento al cinecentrismo il messaggio dell'imperatore Qianlong a Giorgio III d'Inghilterra, prima dell'irruzione occidentale a fine '700, reso celebre dallo storico Arnold J. Toynbee in Civilization on trial: "Per guanto riguarda la richiesta d'inviare uno dei vostri sudditi con credenziali presso la mia corte celeste, con il potere di controllare il commercio, non può assolutamente prendersi nella minima considerazione... Tenendo lo scettro dell'ampio mondo, non attribuisco alcun valore a oggetti strani o ingegnosi e non saprei che farmi dei vostri prodotti... ".

Ma alla vigilia del XXI secolo l'apertura delle sue porte si allarga ancora di più e sarebbe sbagliato considerarla come il punto di passaggio dei prodotti oggetti di commercio. La sfida, come detto, è un'altra e riguarda assai più i valori che i beni di consumo.

MONDO CINESE N. 104, maggio 2000

 

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