Ling Mengchu, Monache e
Cortigiane, a cura di Federico Masini, Libreria editrice Cafoscarina, Venezia, 1999, pp. 93, £. 12.000.
Questo è l'undecimo volume della Collana "Cina ed altri Orienti", diretta da Maurizio Scarpari.
Un plauso al direttore della collana, che ha saputo darci dei volumetti in una veste tipografica deliziosa e dai titoli tutti assai interessanti.
Un plauso al curatore di questo volume, che ha tradotto (per la prima volta in lingua occidentale) le due novelle di Ling Mengchu e ha scritto la dotta introduzione. Federico Masini, abbandonando per questa volta il campo della linguistica (in cui si è fatto conoscere, e molto favorevolmente, anche all'estero, soprattutto in Cina) ci conferma con questo volume la sua padronanza della lingua e della letteratura cinese, nonché la varietà dei suoi interessi.
Non mi resta quindi che augurare sia al direttore che al curatore di continuare su questa strada. La sinologia italiana ne avrà tutto da guadagnare.
Giuliano Bertuccioli
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Li Guangwen, Federico Prete, Chengyu, Gocce di Saggezza. Antichi detti cinesi e le loro
origini, Prefazione di Lionello Lanciotti, Presentazione di Silvio Calzolari, M.I.R. Edizioni, Montespertoli (Fi) 1999, ISBN
88-86873-40-9, Lire 32.000.
Il volume chengyu, gocce di saggezza, a cura di Li Guangwen e Federico Prete raccoglie le storie di alcune centinaia di espressioni idiomatiche presenti nella lingua cinese, divise in base delle opere antiche da cui esse traggono origine. Per ciascuna espressione, o chengyu, viene fornita una breve spiegazione che consente al lettore di comprenderne a pieno il significato e il suo uso. Si tratta quindi di un ricco florilegio di leggende o avvenimenti, più o meno storicamente documentabili, la cui sapienza è rimasta cristallizzata in brevi espressioni, solitamente composte di soli quattro caratteri. Si tratta di un patrimonio antichissimo della cultura cinese (le più longeve espressioni risalgono ad alcuni secoli prima dell'era cristiana), che è stato tramandato fino ai nostri giorni ed è ancora oggi patrimonio comune di molti milioni di parlanti cinesi. L'opera costituisce quindi un ponte fra l'antichità cinese e la realtà della moderna lingua cinese, che ancora attinge a tali massime nel linguaggio comune.
Ad esempio quando si vuole indicare una persona che, sicura del proprio successo, tende a dare sfoggio delle sue abilità, rischiando di mettere a repentaglio quanto già ottenuto, il suo comportamento può essere stigmatizzato con l'espressione
hua she tian zu, "aggiungere le zampe al serpente dipinto", (p.
110-111), tratto dagli Intrighi degli Stati Combattenti Zhanguo ce. Oppure il famoso detto contenuto nell'opera attribuita al filosofo Mencio
yi mao bu ba, "Non strapparsi neanche un pelo", con la quale egli criticò il suo nemico Yang Zhu, affermando che egli non sarebbe stato disposto a togliersi neppure un pelo per salvare il popolo. Tale espressione è divenuta poi sinonimo di profonda avarizia.
Come vediamo da questi esempi si tratta di espressioni presenti in antiche opere divenute poi classiche con il passare dei secoli per essere state studiate ed imparate a memoria da generazioni di letterati, che fondarono il proprio potere, oltre che sul censo, proprio sulla conoscenza delle opere più antiche e soprattutto della lingua in cui tali opere erano state composte nei secoli precedenti.
Infatti il famoso sistema degli esami imperiali, impiegato in Cina in maniera discontinua, fin dalla dinastia Han, prevedeva che il candidato dovesse dare prova di saper scrivere vari generi di componimenti facendo il maggior uso possibile di riferimenti diretti o indiretti al patrimonio letterario dell'antichità. A tal fine egli era costretto ad imparare a memoria il maggior numero possibile di opere letterarie per essere in grado di citarne integralmente interi passi oppure alludervi in maniera più o meno diretta.
Tuttavia è importante notare che non fu merito di quei letterati confuciani se ancor oggi le espressioni raccolte nel volume di Li e Prete sono in uso nella lingua cinese. Anzi potremmo dire che tali espressioni si sono conservate fino ai nostri giorni non certo per merito dei letterati confuciani.
Queste espressioni diverranno frasi idiomatiche o chengyu, non grazie ai letterati che conoscevano le opere da cui esse traevano origine, ma grazie ad altri letterati, solitamente meno fortunati di loro che non avendo avuto successo nella carriera burocratica o avendola abbandonata per disgusto del potere, impiegarono queste espressioni per arricchire opere letterarie scritte in una lingua più semplice, più viva, più vicina alle lingue parlate dalla gente nelle varie regioni.
I chengyu, nella forma che noi conosciamo oggi, nasceranno quindi per lo più in quella novellistica in lingua vernacolare, che tanto successo ebbe durante la dinastia Ming ed in misura diversa durante la successiva dinastia Qing. In altre parole è nei grandi romanzi di epoca Ming e Qing che troviamo una grande quantità di espressioni classiche, solidificatesi in forma idiomatica. Gli autori di vari generi di opere composte in cinese vernacolare, avendo essi stessi alle spalle un solido bagaglio letterario, amavano infarcire le loro composizioni di brevi citazioni di opere più antiche. Tali citazioni si distaccavano dal resto del testo in quanto si caratterizzavano come appartenenti ad un altro registro linguistico, la lingua cinese classica appunto, detta
wenyan, e così facendo tendevano a caratterizzarsi come espressioni a sé stanti, non suscettibili di cambiamenti o variazioni. Nascevano così i
chengyu o frasi fatte, espressioni per lo più formate da quattro caratteri, che costituivano un ponte fra la letteratura classica in
wenyan e le varie letterature in vernacolo.
Tale fatto è dimostrato da molti studi che sono stati effettuati sull'origine delle espressioni raccolte da Li e Prete: se la maggior parte di esse trae la sua origine da opere classiche è solo grazie alla loro presenza in opere in vernacolo che tali espressioni sono divenute poi di uso comune. Le opere in vernacolo consentirono a molte espressioni nate in contesti estremamente elevati di poter essere adattate a situazioni più concrete, aprendo così la strada ad un loro più vasto impiego nella lingua parlata.
È opportuno ricordare che è stato ad esempio calcolato che la percentuale di espressioni a quattro caratteri, i
chengyu appunto, nei grandi romanzi è di circa una ogni cento caratteri, cioè ogni cento caratteri era impiegata mediamente una citazione di quattro caratteri tratta da un classico.
Qualche parola infine sul ruolo avuto da tali espressioni nel periodo di formazione della lingua cinese moderna, a cavallo fra Otto e Novecento. Anche in quest'epoca i
chengyu continuano ad essere impiegati in opere scritte in varie forme di cinese colloquiale con il preciso scopo di arricchirne lo stile, dargli un tono più altisonante, mettere in risalto il legame con la tradizione. Le troviamo quindi ampiamente impiegate da quegli scrittori come Lu Xun che maggiormente si impegnarono per far nascere una nuova lingua cinese, più vicina alle esigenze dettate dalla modernità. Tuttavia è stato dimostrato che la gran parte delle frasi a quattro caratteri risalenti a fonti più antiche, impiegate da Lu Xun, erano state già adattate ad un contesto più familiare in quelle opere della letteratura vernacolare cui si accennava poc'anzi. (Tali furono i risultati della tesi di laurea, dal titolo "Le frasi idiomatiche nella novellistica di Lu Xun", discussa dalla dott.ssa Monica Scarabottini nel 1998 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Roma "la Sapienza").
In questa fase della lingua, oltre alle espressioni idiomatiche di origine classica o popolare, troviamo anche espressioni idiomatiche di derivazione straniera, impiegate perfino da alcuni autori maggiormente restii ad accettare le nuove tendenze in atto nella lingua. Ad esempio Yan Fu, uno dei più strenui difensori della lingua cinese classica, in contrasto con coloro che invocavano l'impiego di una lingua più colloquiale, impiegò, fra le altre, una frase idiomatica di derivazione francese, adottata anche in italiano:
xiang jie wu yan suo che sta per "non parlare di corda in casa dell'impiccato". Non era questo un caso isolato: anche in epoche più antiche erano state creati
chengyu su influsso di dottrine straniere, come ad esempio xian shen shuo
fa, "offrire consigli sulla base della propria esperienza", espressione di origine buddista, entrata in uso all'epoca della penetrazione in Cina di tale dottrina di origine straniera.
Per concludere, citando il chengyu "mei zhong bu zu", che sta a significare una imperfezione all'interno di qualcosa di bello, di presentare qualche osservazione critica sul volume di Li e Prete. L'opera avrebbe tratto certamente giovamento da una precisa indicazione della fonte letteraria, ove presente, di ciascuna frase idiomatica, nonché di qualche indicazione bibliografica circa le opere che gli estensori hanno certamente adoperato nella stesura del volume. Infine un indice delle frasi secondo la loro pronuncia avrebbe consentito anche al lettore non digiuno di cinese di poter più agilmente consultare il volume alla ricerca del significato e dell'origine di una data espressione, incontrata in un testo.
Federico Masini
MONDO CINESE N. 103,
GENNAIO 2000