SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive. - 2. Quadro storico-politico.
- 3. Classificazione delle minoranze. - 4. Aree linguistiche nella Repubblica Popolare Cinese: idiomi e minoranze etniche della Cina Meridionale.
1. Considerazioni introduttive.
Il concetto d'identità, il cui uso si è diffuso negli ultimi tempi e che sempre più viene impiegato in quei contesti nei quali si propongano chiavi inedite di lettura degli avvenimenti (attraverso una pluralità di linguaggi e di punti di vista) o in cui ci si rivolga ad un largo pubblico per dibattere da esperienze ed orizzonti molteplici (per dar conto delle nuove realtà di un mondo che non è più bipolare, ma in cui hanno iniziato a risuonare anche voci "altre"), bisogna guardarsi dall'impiegarlo troppo spesso al singolare, in quanto le civiltà complesse conoscono e coltivano identità plurali, dotate di una rete interna di legami e di reciprocità.
Confrontato alle resistenze legittime nei riguardi dell'assimilazione o della dominazione culturale, il pensiero moderno ha fatto valere il
diritto alla differenza. Riflettendo sulla possibilità di una collaborazione effettiva delle culture e di un'alternativa alle sintesi culturali, Claude
Lévi-Strauss constatava che "la civilizzazione mondiale non potrebbe essere che una coalizione a livello mondiale delle culture che conservano la loro originalità".
La nostra epoca ci ha permesso di acquisire, talvolta a prezzi estremamente elevati, esperienze come le migrazioni, le dissidenze di tutti i tipi, la marginalità e le marginalizzazioni, le diaspore nel tempo e nello spazio, nonché il principio dell'autodeterminazione dei
popoli1.
Il popolo di uno Stato non è solo quello che ne costituisce la maggioranza, ma l'insieme di tutti coloro che vi convivono e, probabilmente, proprio incoraggiando l'autonomia, il rispetto delle minoranze, l'autodeterminazione interna si potrebbero evitare "eversioni" e secessioni.
Ci sono dell'autodeterminazione significati più sostanziali e decisivi, che possono contribuire a risolvere il problema delle identità "altre", le quali per lo più non vogliono rivendicare la formazione di un loro Stato, che goda di uno status di diritto internazionale, quanto la via di una certa autonomia, vale a dire un rispetto delle loro identità che vada oltre i comuni diritti civili e politici.
D'altro canto, ogni rivendicazione d'identità collettiva risulta ardua perché non risponde mai alla realtà sociale, fatta di differenze più che di equivalenze. Definire la "identità" collettiva significa fermare, fissare, rendere sempre uguale a se stesso ciò che identico a sé non può rimanere, significa creare "esclusioni" e frontiere verso l'altro o "inclusioni" e negazione delle differenze, mentre queste dovrebbero essere fatte funzionare al massimo come unità.
Nell'erosione progressiva della capacità dello Stato di garantire sicurezza e benessere, sono riemerse oggi molte identità etniche e religiose, e la questione delle etnie minoritarie continua ad identificarsi come un grave problema ancora aperto in molti paesi asiatici: in India, in Giappone, in Tailandia, in Indonesia e non ultimo nella Repubblica Popolare Cinese, dove la presenza di numerosi gruppi etnici, molto diversi tra loro e rispetto alla maggioranza, e la conflittualità dei loro rapporti con la popolazione
Han2 costituiscono una realtà scottante e profondamente radicata. E se in tempi recenti l'attenzione della comunità e della stampa internazionali è stata particolarmente attratta dagli eventi legati alla questione tibetana o ai violenti movimenti secessionisti del Xinjiang, è tuttavia bene tener presente che tali episodi rappresentano solo la punta
dell'iceberg rispetto alla complessa ed articolata realtà cinese ed alle problematiche culturali che essa sottende. L'integrazione, in quanto processo attraverso il quale gruppi eterogenei interagiscono e si completano all'interno di un sistema sociale, è stata considerata dallo studioso Colin Mackerras più che come l'obiettivo dichiarato della politica attuata dal Partito Comunista Cinese, quale conseguenza indiretta dell'impatto della modernizzazione sulla società cinese. Senza dubbio, può esistere una chiara relazione tra modernizzazione ed integrazione
politico-economica, tuttavia questo fattore da solo non può essere ritenuto un affidabile indicatore delle relazioni esistenti tra Stato e minoranze etniche cinesi, né può essere considerato quale
conditio sine qua non per un'integrazione che si sviluppi con un certo grado di continuità. Le nuove politiche economiche hanno, infatti, portato ad un rapido incremento della mobilità nelle regioni abitate dalle minoranze: frequentemente essa si è manifestata in termini di migrazioni forzate di
Han in aree per lo più popolate da etnie diverse, non solo promuovendo un forte processo di sinizzazione, ma anche provocando tensioni tra genti
Han e non-Han, determinando il degrado di zone marginali a causa dell'eccessivo sfruttamento delle risorse e producendo una generale marginalizzazione delle popolazioni locali. Peraltro, nel caso dei Tibetani o delle etnie musulmane, se da un lato lo sviluppo economico sembra possa aver contribuito ad una riduzione delle tensioni e dei conflitti ed aver stimolato negli individui l'acquisito interesse per un'idea di stabilità sia politica sia
economica3, dall'altro difficilmente la modernizzazione dimostrerà di poter essere una panacea a lungo termine. Per conferire concretezza a simili riflessioni, basterà rivisitare l'esperienza della minoranza
Va (in cinese Wa). Gli agricoltori Va, che abitano le montagne Awa, possono essere ritenuti meno moderni ed integrati degli
Hui, i quali sono stati coinvolti per molto tempo in attività commerciali ed amministrative. Tuttavia, è indubbio che questi ultimi rappresentino una potenziale minaccia per l'unità della Cina molto più di quanto possano costituirla i Va e ciò non solo a causa della considerevole entità della comunità
Hui, ma anche della sua organizzazione sociale, dell'estesa distribuzione sul territorio di queste genti e del loro forte legame culturale con il mondo mediorientale. Inoltre, sebbene la modernizzazione possa contribuire all'assimilazione di gruppi minoritari demograficamente esigui e sebbene la tendenza che si sia sviluppata sia stata quella alla consunzione delle differenze superficiali ed a far convergere diversi gruppi etnici mediante la stretta interazione reciproca, lo sviluppo successivo potrebbe, al contrario, far prevedere una trasformazione di tale orientamento in un consapevole tentativo di rafforzamento delle tradizioni o persino nella creazione di nuove tradizioni, funzionali al rinvigorimento dell'identità etnica e dell'eredità culturale sopravvissuta. In merito, non esiste forse miglior esempio di quello offerto dagli stessi Han, così costantemente impegnati, nei momenti di rapida modernizzazione, nella ricostruzione della loro tradizionale identità, o meglio delle loro "identità". La comunità internazionale ha già assistito ad episodi che hanno rivelato l'acquisizione di una consapevolezza dell'identità etnica: si è trattato di avvenimenti che variano dall'autoaccettazione di sé, come nel caso dei Mancesi, alla mobilitazione attorno a diversi simboli dell'identità etnica specifica, di matrice culturale o religiosa. Tra questi, possiamo ricordare l'adozione di pittogrammi della religione
Dongba, quali simboli dell'identità Naxi, il consolidamento del buddismo
Hinayana tra i Dai del Sipsongbanna (Xishuangbanna - Yunnan), quale simbolo sia dell'identità sia della modernità (in Tailandia), la rinascita del Cristianesimo tra i
Miao ed i Lisu e l'atteso ritorno di eroi culturali, identificabili, nella maggior parte dei casi, con i primi importanti missionari, l'investimento delle nuove ricchezze comuni nella costruzione di moschee, presso le comunità musulmane e particolarmente tra gli
Hui. Basta accendere la televisione nel Xinjiang ed ascoltare i programmi in lingua uigura per comprendere che, a parte il notiziario, pochi sono gli elementi che possono far ricordare di essere in Cina e che manifestazioni come quelle poc'anzi descritte non restano circoscritte all'espressione religiosa.
2. Quadro
storico-politico.
Gli attuali confini della Repubblica Popolare Cinese sono il prodotto di eventi riconducibili sostanzialmente alla seconda metà del secolo XVIII quando, in particolare tra il 1755 ed il 1792, l'esercito imperiale condusse con successo una serie di campagne e di guerre contro le popolazioni residenti nei pressi della quasi totalità delle zone di frontiera. Al termine del periodo di regno di Qianlong (Qing,
1644-1911), nel 1795, il governo imperiale controllava il Turkestan cinese, la Mongolia, il Tibet e l'intera Cina meridionale, dallo Yunnan a Taiwan. Mai prima di allora il paese aveva esteso le proprie conquiste in tale misura. Attualmente, la Repubblica Popolare Cinese conserva ancora la medesima composizione etnica e territoriale dell'impero: essa controlla virtualmente tutti i possedimenti risalenti alla dinastia Qing, che vanno ben al di là dei territori occupati dai cinesi Han, tanto che nelle regioni di frontiera ereditate dall'ultimo periodo imperiale vivono minoranze etniche e linguistiche non ancora assimilate alla "nazione cinese".
In un mondo minuziosamente organizzato in Stati e nazioni, quale è il nostro, queste genti sono classificate come "cinesi", pur non essendolo affatto: vivono in Cina e sono cittadini della Repubblica Popolare Cinese, ma non sono gli eredi della civiltà, della letteratura, della storia o delle tradizioni
Han.
Oggi, il governo riconosce 56 distinti gruppi etnici, religiosi e linguistici, dei quali quello maggioritario è costituito dagli Han, tradizionalmente indicati come "cinesi", e tuttavia i 96 milioni di cittadini
non-Han4, pur abitando un paese la cui popolazione totale conta oltre 1.200.000.000 di persone, sono lontani dal rappresentare una cifra trascurabile.
Alcune minoranze comprendono un numero di appartenenti significativamente numeroso, tra questi i
Zhuang, concentrati soprattutto nel Guangxi, che con i loro 15 milioni costituiscono la comunità più nutrita, seguono i Mancesi (9.8 milioni, concentrati essenzialmente nel Liaoning), gli
Hui (8.6 milioni, Ningxia), i Miao (7.3 milioni, Guizhou), gli Uiguri (7.2 milioni, Xinjiang), gli
Yi (6.5 milioni, Yunnan), i Tujia (5.7 milioni, Hunan) ed i Mongoli (4.8 milioni, Mongolia Interna); altre invece sono presenti in numero ridottissimo, come i
Tajiki (33000, Xinjiang
sud-occidentale), i Jino (18000, distretto di Jinghong, Yunnan meridionale) o gli
Hezhen, che con i loro 4254 rappresentanti costituiscono il gruppo più esiguo del paese. Un simile caleidoscopio di etnie ha in comune ben poco: il vivere lungo le frontiere continentali della Cina, frontiere che, date le caratteristiche geografiche, spesso sono più fluttuanti e meno definite di quanto risulti generalmente dalle cartine politiche, e che diversi gruppi etnici, residenti su entrambi i lati del confine, attraversano di frequente.
Nella classificazione delle etnie, gli autori cinesi impiegano largamente due termini:
minzu e shaoshu minzu. Il primo è usato relativamente alle "nazionalità" presenti all'interno del territorio della Repubblica Popolare Cinese e, con questa accezione, è a volte sostituito da
Zhonghua minzu. Il secondo ha due significati: uno con il quale vengono indicate "minoranze nazionali" ed altri gruppi etnici in un qualsiasi Stato multietnico, l'altro con il quale s'intendono, all'interno della Cina, tutte le genti
non-Han che abbiano conseguito la condizione di minzu5. Dal punto di vista etnografico, l'impiego del termine minzu è ancora oggetto di discussione: gli etnografi cinesi lo usano per tutti i gruppi etnici, in qualsiasi stadio di sviluppo della loro società essi si trovino, con i significati di: gente, genti; nazione, nazionalità; nazione moderna;
popolazione6.
Il fatto che il timore della perdita dell'unità dello Stato continui ad esprimersi attraverso uno stretto controllo delle zone più periferiche del territorio, rappresenta un elemento indicativo del valore delle implicazioni di ordine strategico, nonché di sovranità e di identità, che esso comporta: le motivazioni ultime determinanti un simile atteggiamento politico sono chiaramente legate all'importanza che il governo di Pechino attribuisce al problema delle terre abitate dalle minoranze, soprattutto in virtù della loro posizione strategica e al fatto che, a causa della dispersione delle stesse, occupino circa i 2/3 del territorio complessivo nazionale. L'adozione di una prospettiva del genere non costituisce nulla di realmente nuovo per il "Paese di Mezzo", per il quale il rapporto tra "centro" e "periferia", la presenza di entità etniche diverse all'interno dello stesso Stato ed il loro processo di sinizzazione hanno contraddistinto, seppur con modalità diverse, le varie epoche della storia. Le minoranze, dunque, possono a ragione essere considerate uno dei fattori cruciali dell'esistenza della stessa Cina: vivendo nei loro territori, insediati alle porte del paese, hanno da sempre controllato le periferie che, nella visione della stessa civiltà cinese, non sono mai state considerate un elemento secondario, essendo la storia di questo paese sempre stata segnata profondamente dal rapporto con i propri "limiti". Nel passato, per governare queste genti, destinate a conservare caparbiamente le istituzioni che avrebbero permesso loro di sopravvivere nelle aree più impenetrabili del paese, in spazi poveri, ostili e precari, "le istituzioni cinesi non erano considerate adatte: venivano mantenute in vita le istituzioni locali, sotto il controllo dell'autorità imperiale, che interveniva solo quando avvertiva che i suoi interessi superiori erano messi in
gioco"7. Così, "la tradizione dell'autonomia locale delle popolazioni
non-Han è una delle tante continuità che si riscontrano nel corso della storia e soluzioni moderne, che appaiono all'avanguardia, in realtà trovano dei
precedenti"8 in tradizioni antiche. Secondo quanto prescritto dalla legislatura della Repubblica Popolare Cinese, le etnie minoritarie godono di una certa forma di autonomia: le aree in cui vivono sono state designate come province, prefetture e distretti
autonomi9.
Il 22 Febbraio 1952, il Consiglio Amministrativo ha inoltre adottato la Carta dei Principi di Autonomia delle Aree delle Nazionalità, con la quale sono stati stabiliti gli aspetti fondamentali della politica relativa alle autonomie regionali. Con questo documento, le zone autonome venivano articolate in tre tipologie principali, relativamente alla presenza etnica:
-
area abitata da una minoranza;
-
area caratterizzata dalla ragguardevole presenza di una minoranza e da diverse etnie minori;
-
area abitata da due o più minoranze relativamente numerose.
Il 31 Maggio 1984, il Congresso Nazionale del Popolo ha adottato l'Atto sulle Autonomie Regionali delle Nazionalità, in base ai cui articoli 12 e 18, a partire dallo stesso anno, si è assistito ad un rapido incremento delle unità amministrative autonome in tutta la Cina. Tali organismi locali sono comunque sottoposti al principio del centralismo democratico, sulla base del quale tanto le nomine a singole cariche quanto le decisioni degli organi di un determinato livello possono essere modificate o abrogate, ovvero sono sottoposte a
controllo10. Di conseguenza, potrà verificarsi il caso in cui un distretto autonomo, localizzato in una provincia a statuto ordinario, dovrà sottoporre le sue decisioni ad un organo provinciale non autonomo e viceversa. L'autonomia promossa, inoltre, ha un carattere squisitamente territoriale, con ciò si vuole sottolineare che essa non viene accordata ad un'etnia minoritaria in sé, bensì ad un'area che presenti sia una concentrazione abitativa sia una consistenza numerica di
gruppo11.
L'attenzione prestata alle minoranze ha soprattutto matrici politico-economiche: i territori che esse occupano non solo rappresentano più della metà dell'intera superficie del paese, ma costituiscono regioni di frontiera di notevole importanza strategica, situate al confine con l'India, il Vietnam, la Birmania e l'ex-Unione Sovietica; il sottosuolo contiene la maggior parte delle risorse minerarie del paese, il suolo di quelle forestali e vi è allevato l'80% del bestiame da cui si ricavano lana e prodotti alimentari a livello nazionale. Se sfruttati adeguatamente, questi territori potrebbero arricchire considerevolmente il benessere materiale dei cittadini della Repubblica Popolare Cinese, degli Han così come dei
non-Han.
In teoria, la legislazione del paese promuove anche l'uguaglianza tra le diverse etnie e considera gli appartenenti alle minoranze come "cittadini del Paese di Mezzo" proprio alla stessa stregua degli appartenenti al gruppo maggioritario. Ciò ha implicato che la parola "cinese" venisse ridefinita sul piano della cittadinanza e che il suo impiego nell'accezione etnica fosse scoraggiato: per questo, dunque, è opportuno riferirsi all'etnia maggioritaria come agli
Han e si parlerà di cultura han, di lingua han (Hanyu)...
Resta dubbio quanto queste nuove definizioni siano riuscite ad entrare nell'uso comune, visto che incongruenze risultano essere emerse anche dalle fonti ufficiali. Ancora una volta, però, gli sforzi compiuti dal governo nel definire "cinesi" tutti i cittadini dimostrano l'importanza che lo stesso attribuisce alle minoranze.
Queste ultime rivestono, peraltro, anche un ruolo fondamentale relativamente all'immagine di sé che lo Stato intende presentare al resto del mondo: etnie minoritarie perfettamente integrate nella vita e nel funzionamento della società non possono che essere la migliore propaganda per un governo di successo e democratico. Ciò nonostante, il malcontento e la ribellione aperta (quale è stata, ad esempio, quella dei Tibetani del 1959) hanno contribuito notevolmente alla diffusione di uno stato di imbarazzo generale di serie proporzioni. Quando, nei primi anni '60, circa 70.000 Uiguri attraversarono il mal controllato confine del Xinjiang per unirsi ai fratelli
nell'ex-Unione Sovietica, attirati da uno standard di vita più elevato, il risultato fu una grande propaganda a favore di questo paese a spese dei cinesi. D'altro canto, a Pechino ci furono grandi festeggiamenti quando, nel 1941, alcuni militari appartenenti alle minoranze presero parte alla cattura di un elicottero sovietico: l'evento fu estremamente pubblicizzato e la stampa nazionale attribuì il successo alla determinazione di quelle genti nel difendere la madrepatria contro l'aggressore. Le minoranze, quindi, hanno un potere politico, sia reale sia potenziale, che deve essere costantemente preso in considerazione, anche nell'attuale Repubblica Popolare Cinese. In questa prospettiva, le autorità hanno iniziato a muoversi con cautela nell'ambito delle applicazioni pratiche della politica relativa alle etnie minoritarie: a queste vengono garantite concessioni speciali e spesso non vengono loro applicati i provvedimenti imposti alla maggioranza. Così, fino a non molto tempo fa, le minoranze non erano soggette alla legge per il controllo delle
nascite12, ed ancora oggi, in posti come il Xinjiang, si è piuttosto restii nei confronti di una rigida applicazione dei relativi provvedimenti giuridici, a causa del timore di un precipitare dei fermenti politici latenti. Le leggi sul divorzio, in particolare nel caso dei musulmani, e quelle suntuarie che regolamentano i funerali non interessano la maggior parte delle minoranze. Queste si avvalgono, inoltre, di alcuni diritti e privilegi che non sono garantiti agli
Han: spesso godono di trattamenti preferenziali, quali quelli relativi all'ammissione a scuole professionali ed all'istruzione
universitari13. Simili provvedimenti in alcuni casi appaiono giustificabili, se non ammirevoli, in quanto le genti
non-han spesso non parlano il cinese mandarino e, vivendo in aree poco sviluppate, possono godere di un'educazione primaria e secondaria che a volte risulta essere ben inferiore rispetto a quella impartita nelle aree
han, più sviluppate e modernizzate, ma altri privilegi difficilmente potrebbero essere spiegati in questi termini.
Ufficialmente, le minoranze sono incoraggiate a conservare le loro lingue e culture: sono state rilasciate diverse dichiarazioni che ribadiscono questo diritto e la Costituzione del 1954 contiene vari articoli in
merito14. Nelle aree da esse abitate, il governo riconosce le lingue locali quali mezzi ufficiali di comunicazione che lo Stato non solo adotta per rapportarsi con la popolazione, ma che vengono apprese anche dagli appartenenti al gruppo maggioritario impiegati in quelle zone (sebbene sia poco chiaro quale livello di conoscenza della lingua venga ritenuto sufficiente o quanto strettamente venga osservato il decreto, dal momento che, secondo alcune testimonianze, esso risulti praticamente ignorato). Nel momento storico che ci accompagna, spesso si è dimenticato che la lingua possiede due funzioni: quella creativa, comunicativa e quella simbolica. Mentre la prima favorisce lo scambio culturale, la comprensione e rende possibile la vita comune delle società complesse, la seconda lega l'idioma al simbolo, all'appartenenza etnica, nazionale e confessionale: l'una è generale, unificatrice, l'altra è particolare, distintiva. È dallo Stato e dalla sua politica linguistica che dipende a quale delle due funzioni verrà attribuita la priorità o quanto esso sarà capace di mantenere il suo equilibrio.
Il nesso tra lingua e realtà è complesso e spesso tutto ciò che avviene nella vita di una società può trovarvi riflesso. La storia della politica culturale ha dimostrato che le nazioni senza uno Stato proprio hanno sempre enfatizzato l'importanza primaria della questione linguistica: la lingua ne diventava la centralità, la divisione linguistica seguiva le esigenze politiche di affermazione più esplicite delle identità nazionali. Spesso un simile processo ha portato a spazzar via intere eredità culturali, ad eliminare gli autori "non adeguati" e le loro opere dagli scaffali delle librerie e dai banchi di scuola: il danno provocato dalla riduzione del mercato culturale, dalla scomparsa dell'esperienza d'incontro tra diversità, dello scambio e del reciproco scoprirsi, è irreparabile.
Nelle scuole elementari, le lingue minoritarie sono impiegate come strumenti educativi per i primi tre anni e sono materie d'insegnamento nelle scuole medie inferiori, inoltre quotidiani, riviste, libri e settimanali pubblicati nelle zone abitate dalle etnie minoritarie, sono scritti nelle lingue locali ed a Pechino la Casa Editrice delle Nazionalità
(Minzu Chubanshe) pubblica regolarmente testi nelle cinque lingue più parlate dalle stesse: tibetano, mongolo, uiguro,
zhuang e coreano. Similmente, stazioni radiofoniche locali trasmettono programmi sia nelle lingue minoritarie sia in mandarino, come pure l'Ente Centrale di Radiodiffusione della capitale. Un simile pluralismo è indicativo di come, durante gli ultimi decenni, la tendenza ad assimilare le minoranze mediante l'oppressione e l'esercizio della forza sia andata sensibilmente diminuendo. Ciò non significa, tuttavia, che il processo di assimilazione abbia subito una battuta d'arresto, ma piuttosto che esso si stia portando avanti attraverso metodi più sottili, quali la regolamentazione dell'accesso all'educazione o i meccanismi di ascesa all'interno delle gerarchie sociali. L'entrata delle minoranze nel sistema d'istruzione cinese, avvenuta alla fine degli anni '70, ha necessariamente comportato una diffusione su più ampia scala dei valori e delle norme han, la cui dominanza ha registrato un riscontro rilevante, particolarmente tra quegli strati più colti delle etnie minoritarie, come si è potuto osservare presso l'Istituto delle Minoranze di Kunming, uno dei dieci istituti nazionali istituiti sin dal 1949 al fine di educare il personale indispensabile per la propaganda della politica nazionale del Partito. Attualmente, questi istituti si stanno occupando della formazione di una nuova
élite appartenente alle etnie minoritarie che, contrariamente a quella che era stata
l'élite tradizionale, ha imparato ad apprendere la lingua del sistema dominante. Infatti, sin dal 1977,l'Istituto di Kunming ha ottenuto lo
status di università speciale per le minoranze etniche, a cui tutti i giovani possono essere ammessi, purché abbiano ricevuto un'educazione all'interno del sistema cinese. Gli insegnanti, non solo trasmettono i valori
han, ma anche un pericoloso senso d'inferiorità delle culture locali: fin da piccoli, i bambini imparano che in quanto
Va, Yi o Lahu vivono in uno stato di arretratezza e che l'unico modo per migliorare il loro futuro è quello di adottare i nuovi valori propostigli. Questa sottile opera di trasformazione della mentalità dall'interno viene rafforzata attraverso la visione "scientifica" propagandata dallo schema di sviluppo evolutivo della storia cinese che, divisa in cinque momenti (che si articolano partendo dal comunismo primitivo per arrivare al socialismo moderno), pone le minoranze ad uno stadio inferiore, nella scala di sviluppo, rispetto a quello degli
Han. Le speranze della nuova élite di poter godere dei benefici della società moderna, vengono tenute sotto controllo fino al completamento degli studi, momento in cui lo Stato potrà offrire loro una sistemazione come insegnanti, poliziotti o ufficiali amministrativi, nelle remote aree abitate dalle minoranze. Pochi sono coloro che riescono effettivamente a restare all'interno del tessuto urbano, dove la tensione tra lealtà al Partito e frustrazioni personali nasconde un enorme potenziale di conflittualità, originato dal fatto che, nonostante l'educazione universitaria, rispetto agli
Han abbiano poche possibilità di avanzamento sociale o di riconoscimento dei loro meriti.
L'impiego della lingua riflette, quindi, senza dubbio anche alcune linee politiche. Si è già avuto modo di sottolineare come il termine "cinese" sia oggi tendenzialmente impiegato in modo da sottendere una certa uguaglianza tra i diversi gruppi etnici, così, rispondendo alla medesima logica, la lingua ufficiale del paese non è più chiamata "lingua nazionale"
(Guoyu), come lo era nei giorni della prima Repubblica (ed ancora lo è a Taiwan), ma piuttosto "lingua comune"
(Putonghua); le parole conferenti accezioni peggiorative contenute nei nomi cinesi di alcune etnie sono state cambiate con termini conferenti connotazioni più positive o almeno
neutre15; il termine fan (barbari), precedentemente usato dai cinesi con il significato di "aborigeno" per indicare i gruppi etnici della Cina meridionale, ed usato dallo stesso Mao in un discorso del 1938, in cui sosteneva l'uguaglianza dei diritti tra le varie etnie componenti la popolazione del paese, è stato sistematicamente eliminato dalla lingua, tanto da non trovarsi più, almeno con quel significato, nemmeno nei grandi dizionari, ed in tutti i riferimenti al discorso di Mao il vocabolo offensivo è stato sostituito da
Yao, Yi e Yu16; termini potenzialmente pericolosi, quale ad esempio "assimilazione"
(tonghua), se riferiti alle minoranze sono stati sostituiti da eufemismi, come "amalgamazione"
(ronghe), e la definizione dell'espressione tonghua zhengce è data come "politica di assimilazione nazionale" (intesa come sostenuta dai reazionari), sottintendendo che tali politiche non esistano negli stati socialisti. Anche i peggiorativi grafici, comunemente impiegati dai cinesi per indicare nomi di genti dagli stessi considerate inferiori, sono stati banditi dal sistema di
scrittura17.
La Repubblica Popolare Cinese è molto fiera dell'indipendenza e del trattamento imparziale che concede alle sue minoranze e, con alcune vergognose eccezioni, quali le persecuzioni che ebbero luogo durante il Grande Balzo in Avanti o durante i dieci "anni perduti" della Rivoluzione Culturale, è vero che il governo comunista sia stato ragionevolmente consapevole della sensibilità delle gemi
non-han. Tuttavia, sussistono dei limiti concreti all'autonomia concessa sulla carta: la modernizzazione, ovviamente, ha richiesto il sacrificio di alcuni colori locali, né si sono potute lasciare in vita talune forme di stratificazione sociale, come quella presente nella complessa società degli
Yi. Molte delle pratiche religiose dei tibetani sono state vittime dello stesso tipo di esigenza. Peraltro, l'ortodossia dello Stato ha imposto l'interferenza anche in una serie di altre situazioni: è vero che le minoranze godono della libertà di ascoltare programmi e di leggere libri nelle loro lingue, ma, nel contenuto, antichi racconti e vecchie tematiche sono stati sostituiti dalle traduzioni di ciò che gli
Han leggono, ascoltano e dicono. Seppur animati dalle migliori intenzioni, i cinesi hanno notevolmente contribuito ad alterare le lingue e le culture di queste genti. Persino i miglioramenti apportati nella qualità della vita, nei trasporti, nelle vie di comunicazione, altro non sono stati che mezzi attraverso cui rafforzare il legame con Pechino e, inevitabilmente, affievolire le fibre della vita locale. Ci potrà anche essere una tolleranza ufficiale verso coloro per i quali il mandarino non è la lingua madre, ma l'unico modo per affinare le proprie capacità è quello di avere la padronanza del cinese, del cinese
han, per questo i rapporti che descrivono i gruppi minoritari come "entusiasti di apprendere questa lingua" di certo non sono esagerati. Ciò non significa, naturalmente, che un giorno tutti i cittadini della Repubblica Popolare Cinese si registreranno come
Han: i tibetani difficilmente potranno essere assorbiti dalla Cina, nonostante le carte disegnate dai cartografi, ed i mongoli potranno sempre verificare la loro identità separata mediante il confronto con la vicina Repubblica Popolare Mongola. I gruppi con forti identità etniche, probabilmente, continueranno ad averle, il problema che resta aperto è, piuttosto, quanto dovranno sacrificare di se stesse le minoranze per poter prendere parte al sistema cinese.
In molta della letteratura dedicata alle etnie ed alle identità minoritarie in Cina, si è riscontrata una grande confusione relativamente all'impiego dei termini "etnicità" e "nazionalità", causata dalla mancanza, nella lingua cinese, di una parola, che non sia minzu, che possa esprimere l'idea di "etnicità", la quale è completamente diversa da "nazionalità", ma ad essa vincolata, nel senso che è legata alla percezione dell'identità di sé che, a sua volta, è spesso influenzata dalla politica del governo. Con questa precisazione si intende chiarire come gli antropologi, nel passato, abbiano tentato di avvicinarsi ad una soluzione dei problemi che implicassero la loro riflessione attraverso un uso appropriato dei termini: nel caso degli
Hui, ad esempio, per chiarire la loro identità si trattava di premettere il termine che risultasse più appropriato per descrivere la loro condizione. Recentemente, tuttavia, le scienze sociali occidentali hanno preso le distanze dal fatto che un'indagine critica possa produrre risposte oggettive inerenti il comportamento umano, adottando l'approccio per il quale non esista alcuna "vera" spiegazione causale: tutte le spiegazioni causali non sono che interpunzioni arbitrarie della mente dell'osservatore e dovrebbero essere considerate in base alla loro utilità, più che alla loro
"veridicità"18.
3. Classificazione delle minoranze.
I cinesi non hanno una forte tradizione etnografica: durante il periodo imperiale, le autorità reputavano necessario conoscere solo quanto potesse essere utile per tenere sotto controllo le genti
non-han, tanto che l'atteggiamento della corte in merito si potrebbe generosamente definire come "benevola negligenza". Fu solo quando venne rovesciato l'ultimo governo imperiale che i nuovi leader iniziarono ad interessarsi maggiormente all'identità delle genti sottoposte al loro controllo. Essi attribuirono al paese l'appellativo di "Repubblica delle Cinque Nazionalità" e disegnarono la bandiera nazionale con cinque bande: una per gli Han, le altre quattro per i mongoli, per i mancesi, per i tibetani ed i tatari. Tuttavia, a quel tempo, straordinariamente poco era ancora conosciuto sulle minoranze, come mostra la succitata suddivisione in soli quattro gruppi minoritari: ampie none del paese erano etnograficamente inesplorate e sconosciute ed il governo nazionalista non fu mai nelle condizioni di fare molto in proposito.
Ricerche etnografiche più significative iniziarono ad essere condotte in Cina solo a partire dal 1950, quando i comunisti consolidarono il loro controllo sul territorio: tra i consiglieri sovietici comparivano molti etnografi ben preparati, sotto la cui guida il nuovo governo promosse anche una ricerca avente per oggetto le lingue minoritarie. Tre erano gli aspetti costitutivi di tale progetto:
a. Lo sviluppo di sistemi di scrittura per quelle lingue che non avevano mai avuto una forma scritta e l'introduzione di sistemi di romanizzazione per quelle lingue che fino ad allora erano state scritte con altri tipi di sistemi di scrittura.
b. Ricerche scientifiche sulle lingue parlate.
c. Addestramento di quadri linguisti.
Al termine dei primi dieci anni di ricerca, erano state prese in esame ben 42 lingue ed elaborati circa dodici sistemi di scrittura. Nel 1956, l'obiettivo del programma iniziale fu ampliato, includendo indagini di tipo sociologico a lungo termine riguardanti le varie minoranze in otto diverse aree: Sichuan, Yunnan, il
Nord-Est, la zona del Guizhou e dello Hunan, la "regione tibetana", la Mongolia Interna ed il
Nord-Ovest, ognuna delle quali avrebbe avuto un distinto team di ricercatori. Circa 200 persone furono coinvolte nel progetto, specialisti in diversi settori, quali antropologi, storici, letterati, musicisti, artisti e, sebbene le finalità dello studio fossero svariate, quella principale rimaneva la semplice elencazione e classificazione dei diversi gruppi minoritari. Al momento d'avvio del progetto nessuno aveva le idee chiare neanche su quante potessero essere le minoranze in Cina: nel 1950, alcune autorità avevano sostenuto che se ne sarebbero potute contare un centinaio, ma altre stime variavano molto rispetto a questa valutazione, e quando, in occasione delle elezioni del 1954, fu chiesto agli elettori di riportare la loro nazionalità di appartenenza, saltarono fuori centinaia di
nomi19. La situazione rimase confusa fino alla fine degli anni '50, momento in cui iniziarono a stabilizzarsi cifre e denominazioni, presumibilmente grazie ai dati ufficiali emersi dagli studi effettuati. Da allora l'elenco delle popolazioni minoritarie si è andato lentamente allungando, attraverso l'introduzione di nuovi nomi: 45 gruppi etnici erano stati registrati nel 1956, 46 nel 1957, 51 nel 1959 e 53 nel
196320. Nel 1981 le etnie registrate nell'elenco ufficiale salirono a 55, avendo da poco ottenuto lo stato di minoranze etniche sia il piccolo gruppo di nomadi vietnamiti che viveva in Cina (conosciuti come i
Jin), sia i Jino della provincia dello Yunnan.
Il progetto del governo degli anni '50 dunque produsse dei risultati, grazie ai quali attualmente si conosce molto di più di queste genti di quanto si sapesse nel passato, ma c'è ancora molto da studiare: quei programmi di ricerca furono solo un importante passo iniziale, che nei due decenni successivi, purtroppo, non avrebbe trovato molto seguito. L'entusiasmo per l'etnografia, che i Sovietici avevano tentato di diffondere, in un primo momento sembrò aver messo radici profonde, ma gli eccessi xenofobi della politica della Repubblica Popolare Cinese degli anni '60 avrebbero portato ad una battuta d'arresto nelle indagini più serie. Fino a non molto tempo fa, un elenco formale di denominazioni, cifre e toponimi appariva sufficiente per soddisfare la curiosità che i cinesi provavano rispetto alle genti con cui dividevano il territorio del loro paese ed un'enumerazione ufficiale delle minoranze etniche resta tuttora alla base di un certo tipo di studi sistematici, nonché di molta della nostra conoscenza relativa alla composizione etnica della Cina. L'elenco in sé, ovviamente, non è assolutamente un lavoro compiuto: i censimenti e le ricerche che portarono alla sua compilazione furono condotti secondo cognizioni geografiche che erano rimaste sconosciute fino a quel particolare momento e costituisce un mero tentativo di ordinare e distillare una grande quantità di informazioni, quindi per sapere anche solo come debba essere effettivamente interpretato si rende necessario rispondere ancora ad una serie di ragguardevoli quesiti. Attualmente, le principali concause che agiscono sulla farragine che caratterizza l'identificazione etnica, possono essere ascritte a tre motivazioni fondamentali: le minoranze che abitano alcune aree del Tibet
sud-orientale non possono essere individuate se non attraverso il lavoro sul campo; nel caso di alcuni gruppi etnici, sebbene i loro nomi siano stati registrati durante i primi anni '50, come i
Kucong21, la loro identità non è stata ancora determinata; alcuni gruppi etnici già riconosciuti dovrebbero essere riesaminati in relazione alle identità acquisite di recente, come nel caso dei
"Pingwu tibetani", che vivono al confine tra Sichuan e Gansu22. Tra i gruppi ancora privi di identificazione ricordiamo: i
Dreng (circa 20.000) nel distretto di Zayü del Tibet sud-orientale23, gli
Sherpa nei distretti di Diggyê e di Tingri del Tibet meridionale24, i
Khmu (Kammu, Chaman o Kemu nei testi cinesi, circa1.600) nei distretti di Mengla e di Jinghong della prefettura autonoma di
Sipsongbanna25, ed altri minori quali i Ben, i
Kongge, i Sanda, i Chaodao, gli Ake, i Kalao (o
Kazhi), i Bajia, i Buxia, i Buguo, i Jieduo, i
Jiarong26... Inoltre, le denominazioni di diverse minoranze che comparivano nel censimento del 1953 hanno subito successive modificazioni ed oggi le stesse sono note con nomi diversi: i
Minjia sono diventati i Bai, gli Shuijia sono diventati gli
Shui, i Solun hanno assunto il nome di Evenki, i Nong e gli
Sha sono stati integrati nei Zhuang, nel 1985 i Benglong hanno mutato la loro denominazione in
Deang, più vicina al nome originario27.
Probabilmente, in primo luogo, bisognerebbe sapere secondo quali criteri una minoranza etnica venga definita tale nella Repubblica Popolare Cinese, come un nome entri a far parte di quella classificazione ufficiale e perché altre denominazioni di gruppi minoritari, che di quando in quando appaiono sulle pubblicazioni locali, non compaiano poi nell'elenco emesso formalmente dal governo. Le più congrue informazioni in merito possono tuttora essere tratte da una serie di articoli scritti nel 1956 da Fei Xiaotong e da Lin Yuehua, due dei leader dei vecchi progetti riguardanti la storia sociale. Tali scritti non rappresentano l'esplicita dichiarazione di come avrebbero dovuto essere effettivamente prese dallo Stato le decisioni successive, ma costituiscono comunque la migliore indicazione di cui disponiamo rispetto a ciò secondo cui le autorità individuino, ed abbiano individuato, una "nazionalità". Nelle loro disquisizioni circa quali potessero essere i criteri di definizione di "minoranza", Fei e Lin tentarono di seguire i parametri generali adottati da Stalin: lingua e territorio comuni, vincoli economici e fattori psicologici, ma non seppero offrire ulteriori linee guida su come tali valori di riferimento dovessero essere concretamente applicati. Ciò rispetto a cui seppero essere invece molto chiari, fu il fatto secondo il quale l'esistenza di un'etnia minoritaria non venisse automaticamente stabilita semplicemente perché un particolare gruppo si fosse considerato tale: decisioni del genere venivano prese dalle autorità competenti e solo dopo attenta considerazione. In definitiva, i documenti di questi studiosi mettono essenzialmente in evidenza quanto potessero essere difficili, ed in ultima analisi arbitrarie, molte delle decisioni assunte in proposito.
Nel determinare se un gruppo costituisca una distinta nazionalità o meno, i fattori linguistici offrono il miglior canone di riferimento e, tuttavia, neanche questi possono essere assunti come indicatori infallibili di come debba essere realizzata la suddivisione: come è possibile decidere quando le differenze dialettali diventino così considerevoli da costituire lingue
diverse? In merito a tale questione, Lin e Fei portarono come esempio quello dei
Miao. Queste genti sono presenti un po' in tutta la Cina meridionale e le differenze dialettali tra i diversi gruppi interni sono tali da rendere difficile, se non improbabile, la comunicazione. Dunque, i
Miao avrebbero potuto essere identificati come genti parlanti lingue diverse e quindi come costituenti altrettante diverse etnie minoritarie. Ma essendo stato accertato che essi un tempo abbiano parlato una medesima lingua comune, è evidente che le differenze interne siano state dovute al fatto che i vari insediamenti umani siano stati separati per lungo tempo. Di conseguenza, tutte le genti Miao sono state classificate come costituenti un'unica nazionalità. Eppure, una simile relazione storica non si identifica come norma di ripartizione sufficiente per altri gruppi minoritari, tra i quali, ad esempio, quello dei molti parlanti le lingue
tibeto-birmane, che non possono essere classificati come un'unica minoranza.
Altro problema da considerare è il relativo grado di assimilazione da parte di altre etnie, in particolar modo da parte degli
Han. Durante la storia cinese, essi hanno gradualmente assimilato le popolazioni con cui si sono venuti a trovare a contatto e tale processo è ancora in corso: si è trattato di un assorbimento quasi impercettibile e che si è realizzato attraverso varie generazioni. Molte etnie che vivono nei pressi o all'interno delle aree abitate dagli
Han sono probabilmente solo minimamente coscienti di essere diverse dai loro vicini: pur avendo una loro lingua, molto spesso possiedono anche una certa fluidità nel parlare anche il tipo di dialetto han diffuso nella zona in questione. Inoltre: come è possibile supporre che abbiano consapevolezza del fatto che la loro lingua non sia un dialetto
han? I Tujia, genti
tibeto-birmane che vivono tra gli Han nello Hunan nord-occidentale, non furono "scoperti" se non nel 1956, nonostante il fatto che contassero più di mezzo milione di rappresentanti. La spiegazione ufficiale del loro lungo anonimato è stata attribuita al fatto che essi avessero nascosto la loro vera identità a causa del timore della repressione nazionalista, ma, certamente, una spiegazione altrettanto plausibile è quella sostenuta da Ramsey, secondo il quale un simile stato di cose potesse essere ricondotto al fatto che non si fossero mai pensati, e né dai vicini
Han fossero mai stati pensati, come non-han28.
In conclusione, molte decisioni in merito alla classificazione delle minoranze etniche cinesi sono state prese in modo arbitrario dalle autorità ed alcune sono anche apparse piuttosto politicamente motivate. Recentemente, con l'avvento degli anni '80, si è registrato un rinnovato
interesse29 nei confronti delle lingue parlate dalle varie etnie, in particolare il nucleo delle ricerche si è costituito attorno al Dipartimento di Lingue Minoritarie dell'Istituto Centrale delle Minoranze Nazionali di Pechino. Per più di dieci anni (dal 1966 al 1978), non è stato possibile pubblicare nessuno dei lavori già realizzati all'interno di tale dipartimento, ma adesso, in un differente clima politico, le sue attività hanno ricevuto un nuovo impulso, in conseguenza del quale hanno iniziato a comparire dati ed informazioni relativi ai progetti degli anni '50, fino ad ora tenuti all'oscuro, accanto alle considerazioni emerse da ricerche meno datate. La maggior parte degli articoli e delle dissertazioni di linguistica sono pubblicati sul periodico
Minzu Yuwen ("Lingua e Letteratura delle Nazionalità"), ma esistono anche altre riviste specializzate e l'Istituto si occupa della pubblicazione di monografie linguistiche: parecchi di questi lavori sono di buona qualità, meno innovativi o analitici che descrittivi, contengono in genere accurate trascrizioni fonetiche di vocabolari piccoli ma significativi, un'analisi del sistema fonetico ed una descrizione sommaria delle grammatiche in questione.
Uno degli sviluppi più promettenti dell'Istituto sembra potersi prevedere proprio in virtù del distacco dalla rigida suddivisione riconosciuta all'interno dell'Elenco Ufficiale delle Minoranze. Così, ad esempio, di recente sono comparsi resoconti relativi alla lingua dei
Be dell'isola di Hainan: l'esistenza delle genti Be, pur essendo nota sin dalla fine del XIX secolo, quando i missionari stranieri iniziarono a parlarne, era stata oggetto di scarsa considerazione nella Cina continentale e ciò, almeno in parte, in dipendenza del fatto che non fossero presenti nella lista formalmente compilata dalle autorità. La comparsa sul Minzu Yuwen di un articolo circa il loro idioma potrebbe significare un nuovo passo avanti nell'approccio verso queste popolazioni e nelle tecniche di ricerca adottate: se davvero così fosse, le risposte ad alcuni vecchi quesiti non dovrebbero essere lontane.
4. Aree linguistiche nella Repubblica Popolare Cinese: idiomi e minoranze etniche della Cina Meridionale
Le genti che abitano la Cina meridionale e quelle che occupano i territori settentrionali sono molto diverse tra loro. Per gli Han sono tutte "minoranze nazionali", proprio come nel passato erano state "popolazioni barbare", ma ciò significa in realtà soltanto che si tratta di cinesi
non-Han e che se non fosse stato per la mediazione della civiltà cinese, poco o nulla avrebbero in comune: le loro lingue, i loro modi di vita, cosi come i rispettivi ruoli che hanno avuto nella storia del paese costituiscono un mondo a parte.
Le genti del Nord vivono nelle pianure della Manciuria, nelle praterie e nei deserti della Mongolia e del Xinjiang: sono i discendenti di quei nomadi a cavallo (tra cui gli Unni, i Turchi, i Mongoli...) che dall'Asia centrale di tanto in tanto facevano incursione nel territorio cinese, a volte persino conquistandolo, mettendo in serio pericolo il delicato equilibrio in cui si trovava l'impero, e contro i quali gli
Han ebbero la necessità di difendersi costruendo la Grande Muraglia. Sebbene alcuni di loro, come gli Uiguri, molto tempo fa iniziarono a dedicarsi ad attività sedentarie, la maggior parte di queste genti, tradizionalmente
cacciatori-allevatori o a volte commercianti, solo sotto l'influenza cinese iniziarono ad adottare sistemi di vita propri delle civiltà sedentarie.
Le popolazioni del Sud, al contrario, rappresentavano gli "aborigeni", i quali si erano stanziati in quei territori molto prima che gli
Han stessi vi avessero fatto irruzione: se nelle zone settentrionali del "Paese Centrale" i cinesi non furono mai in grado di estendere i confini molto al di là delle loro terre d'origine per un periodo considerevolmente lungo, il Sud fu un'area che questi tangibilmente colonizzarono, nonostante il fatto che i nativi di tali zone non fossero poi sempre dei docili nemici. Questi ultimi furono però raramente capaci di organizzare una seria resistenza militare e, di conseguenza, o vennero assimilati, con i loro territori, all'interno del sistema han o vennero spinti nelle zone più remote dell'impero. Un'attuale cartina etnografica del Sud della Cina potrebbe aiutare a comprendere cosa possa essere accaduto: gli
Han per lo più vivono ancora nelle valli fluviali e nei fertili territori coltivati, ciò che resta dei
non-Han abita le montagne più elevate, organizzati in agglomerati isolati, la cui densità aumenta con lo spostarsi verso Sud e verso Ovest, ovvero lontano dalle direttrici, provenienti da Nord, che indicano le incursioni
han. Sebbene odiernamente il livello tecnologico di queste popolazioni sia ben al di sotto dello
standard, recenti scavi archeologici hanno messo in evidenza come nel passato siano state dominate da un'evoluta civiltà Dai, la quale avrebbe controllato la maggior parte di ciò che è oggi la Cina meridionale. Potrebbe forse risultare da ulteriori ricerche che furono proprio loro, molto tempo fa, ad aver insegnato ai cinesi l'arte della ceramica, quella dei bronzi e persino la coltura del riso, considerato che, diversamente dalle genti stanziatesi lungo le frontiere settentrionali del territorio cinese, molte delle popolazioni meridionali avevano già una certa familiarità con le tecniche di agricoltura intensiva parecchio tempo prima che fossero venute a contatto con gli
Han.
Gli idiomi delle minoranze etniche cinesi si inseriscono all'interno di due vaste aree linguistiche: le lingue del Nord appartengono per la quasi totalità alle lingue altaiche, la loro struttura è molto simile al coreano ed al giapponese, due lingue dell'estrema area orientale secondo alcuni classificabili come altaiche esse stesse; quelle del Sud rappresentano un'estensione dell'area linguistica del
sud-est asiatico, con le sue ricche variazioni tonali e la tendenza al monosillabismo. Gli idiomi legati alla famiglia altaica, invece, non sono tonali, sono polisillabici e tipologicamente molto diversi dal cinese, adottando la struttura
Soggetto-Oggetto-Verbo30.
L'estremamente complessa e diversa famiglia delle lingue tibeto-birmane, parlate nella Cina occidentale e
sud-occidentale, comprende centinaia di lingue, di molte delle quali fanno uso soltanto alcuni piccoli gruppi tribali. Sebbene il tibetano ed il birmano, le due lingue da cui prende la denominazione il gruppo, possano vantare lunghe tradizioni scritte, tuttavia la grande maggioranza delle lingue appartenenti a questa famiglia o non sono mai state scritte o sono state ridotte ad una forma scritta solo in tempi moderni. La struttura di cui si avvalgono è ancora SOV ma il cinese, il
tai, il
miao-yao ed il mon-khmer possiedono tutte la struttura
Soggetto-Verbo-Oggetto31. In termini geografici si potrebbe quasi generalizzare affermando che le lingue parlate nel Nord, nell'Ovest e nel
Sud-Ovest della Cina seguano per lo più l'ordine SOV, mentre quelle diffuse a Sud ed a SudEst siano virtualmente lingue SVO ed adottino la struttura sostantivo + aggettivo, che nelle lingue altaiche ed in cinese è sostituita da quella
aggettivo + sostantivo32.
Bisogna però tener presente come non tutti gli idiomi identificabili all'interno di un'area linguistica, di fatto siano necessariamente membri della medesima famiglia o siano geneticamente legati, naturalmente molti lo sono, e ciò è particolarmente vero per l'area linguistica che si estende nel Nord del paese, ma per alcune non è così: ad esempio, le diverse lingue parlate nella Cina meridionale non fanno riferimento ad un unico, comune "antenato" (o nel caso in cui così fosse, le relazioni si verrebbero a collocare in un passato talmente remoto da risultare difficilmente
accertabili)33. Con quanto appena affermato intenderei dire che le lingue appartenenti ad una stessa area linguistica possono anche godere di relazioni reciproche che non siano quelle strettamente genetiche, infatti, genti che vivono a stretto contatto non solo tendono a prendere in mutuo prestito parole e concetti, ma sono anche inclini ad imitare pronuncia e strutture grammaticali, con il risultato che, appunto, lingue facenti parte di una stessa regione geografica, giungano ad assomigliarsi pur non essendo geneticamente correlate. È questo il principio che sottende l'idea di area linguistica, è questa la modalità in virtù della quale le lingue parlate nella Cina meridionale costituiscono un'area linguistica (hanno suoni e strutture simili, che siano geneticamente legate o
meno)34.
Una terza area linguistica, alla quale si è precedentemente soltanto accennato, è rappresentata dal Tibet e dalle regioni della Cina occidentale adiacenti: in questo caso, l'idioma dominante è senza dubbio connesso al birmano, molti studiosi sostengono che esso sia in qualche modo anche legato al cinese, ma, come si è avuto già modo di affermare, la tipologia del tibetano e la sua struttura caratteristica indicano che esso si debba essere sviluppato, negli ultimi millenni, in uno spazio relativamente isolato, come è confermato anche dall'unicità della cultura tibetana, rimasta lontana dal resto del mondo fino a quando, in epoche molto recenti, la Cina non vi ha costruito strade ed aeroporti al fine di garantirsi un miglior controllo del territorio.
L'isola di Taiwan rappresenta poi qualcosa di ancora diverso rispetto a quanto fin qui esposto: le lingue
Gaoshan native sono di origine austronesiana e sono descritte come le più differenziate dalla totalità delle lingue appartenenti alla medesima famiglia.
Oltre ai dialetti cinesi, ad un gran numero di lingue tibeto-birmane,
tai, miao-yao e mon-khmer, nei territori del sud-est asiatico e nella Cina meridionale è stata anche registrata la presenza di diversi idiomi isolati, che non sono stati ancora definitivamente messi in relazione con alcuna delle ben note e citate famiglie. Tutte queste lingue e famiglie linguistiche, ad eccezione del
mon-khmer, sono strutturalmente simili al cinese e, tra l'altro, non presentano flessione: le relazioni sintattiche sono espresse dall'ordine delle parole o da particelle separate. Poiché sono così simili al cinese, esse sono spesso raggruppate nell'enorme famiglia
sino-tibetana, ma una tale classificazione è da ritenersi fuorviante dal momento che esse non costituiscono un'unica famiglia linguistica e che il fatto che siano tipologicamente simili non significa che necessariamente abbiano un'origine comune, come si è già avuto modo di verificare: le somiglianze strutturali sono, più credibilmente, il risultato di secoli di stretto contatto.
Poiché, l'ambiente da prendere in considerazione in relazione al titolo del paragrafo appare estremamente frammentario e la maggior parte dei gruppi etnici dell'area in questione vive in villaggi disseminati tra quelli di altre etnie, la distribuzione geografica di queste lingue risulta essere intricata e difficile da tracciare con precisione:
Yi, Dai, Miao, Bai e Han si trovano spesso insieme, collocandosi questi ultimi all'apice di un'elaborata gerarchia. Raramente un gruppo si trova ad occupare un territorio definito che appartenga solo a questo: nelle estreme regioni di montagna la varietà culturale si articola nei prosperi coltivatori di riso birmani, siamesi o vietnamiti, nei commercianti cinesi delle pianure fertili, nei coltivatori nomadi che disboscano e bruciano di volta in volta il territorio. Su ogni montagna, al di sopra del livello delle risaie, ci possono essere diversi villaggi, abitati da altrettante diverse genti, ognuna parlante una lingua completamente priva di rapporti con l'altra. Inoltre, alcuni gruppi migrano periodicamente, complicando ulteriormente la situazione.
Per quanto concerne la storia più antica di queste popolazioni, dipendiamo considerevolmente dalle ricostruzioni interattive realizzate attraverso l'archeologia e le relazioni linguistiche: i documenti scritti sono scarsi sia perché molte etnie hanno adottato solo di recente un sistema di scrittura, sia perché altre ancora non lo possiedono e, tuttavia, anche le minoranze che vantano civiltà antiche hanno avuto grosse difficoltà nella conservazione dei documenti a causa del clima caldo ed umido. Infatti, materiali deperibili, quali carta, legno, foglie e bambù, generalmente non durano più di qualche anno ed i contenuti, di conseguenza, devono essere continuamente ritrascritti: solo le iscrizioni incise su pietra possono godere di una certa permanenza, ma anch'esse spesso soccombono sotto l'azione combinata della pioggia e della vegetazione invadente.
Durante gli ultimi 2000 anni, quest'area ha vissuto sotto l'influenza dell'India e della Cina: la cultura e la religione indiana iniziarono a ricoprire, nelle zone occidentali del territorio in questione, un'importanza non più trascurabile dal momento in cui il sovrano indiano Asoka inviò, nel III secolo a.C., una missione buddhista in quella che è l'attuale Birmania. I mercanti ed i navigatori indigeni seguirono poco dopo, espandendo enormemente le attività commerciali nel
sud-est asiatico attorno all'inizio dell'era cristiana. Nel giro di alcuni secoli, la civiltà indiana avrebbe contaminato le culture e gli idiomi parlati nella maggior parte delle terreferme dell'area, compreso il Vietnam del sud. La civiltà cinese, invece, non sarebbe penetrata in zone così meridionali e si sarebbe manifestata attraverso modalità e caratteristiche molto diverse: solo la metà settentrionale del Vietnam sarebbe entrata a far parte della sfera d'influenza
cinese.35
Ciò che corrisponde attualmente alla Cina meridionale era una volta etnograficamente indistinto dall'Asia
sud-orientale e quando quest'area iniziò ad essere trasformata in territorio cinese si presentarono ripercussioni in tutto il subcontinente: con il premere degli Han verso sud dai territori settentrionali, si originò una serie di migrazioni successive di altre popolazioni dirette verso aree situate ancora più a sud. Per più di due millenni le migrazioni etniche si sono orientate soprattutto verso le terre meridionali ed i movimenti migratori di alcune tribù abitanti le zone collinose dello Yunnan, orientati verso il Laos e la Birmania, continuano ancora oggi, seppur a partire dagli anni '60 in scala ridotta. La religione, la struttura governativa, l'arte, la scrittura e la letteratura sono prevalentemente d'influenza indiana, ma i tratti culturali basilari e le connessioni linguistiche di molte delle popolazioni che vivono nell'Asia
sud-orientale ebbero inizio nella Cina meridionale.
Tuttavia, diverse migliaia di anni fa, prima che la civiltà indiana e quella cinese iniziassero la loro espansione, il flusso di idee e cultura, con molta probabilità, dovette essersi mosso in direzione opposta. Recenti ritrovamenti archeologici, per quanto tuttora incompleti ed isolati da altre testimonianze, hanno indicato che durante l'era preistorica il
sud-est asiatico è stato un rilevante centro di sviluppo e rinnovamento
culturali36: la lavorazione del bronzo in Tailandia è stata fatta risalire al 3000 a.C. circa, ovvero a mille anni prima che la si riscontrasse in Cina e a 500 anni prima che la si ritrovasse in India. Nel medesimo sito archeologico è stato portato alla luce un utensile di rame che risulta essere lo strumento concavo più datato del mondo ed il più antico strumento metallico che sia mai stato ritrovato in Asia. L'impronta di un involucro di chicco di riso è stata fatta risalire, mediante i rilevamenti di C14, al 3500 a.C., di nuovo, 1000 anni prima di quanto sia a noi stata nota la presenza della coltivazione del cereale in India o in
Cina37. Al momento, questa ed altre scoperte non sono state ancora messe in relazione con la storia antica di questi due paesi, ciò nonostante molti esperti sono dell'avviso che, una volta raggiunta una maggior completezza dell'evidenza archeologica, anche tali collegamenti troveranno una loro base fondante e che molti elementi oggi pensati come originariamente cinesi, un giorno si dimostreranno essere stati i primi esempi di una diffusione culturale proveniente dal
sud-est asiatico.
MONDO
CINESE N. 101, MAGGIO 1999
BIBLIOGRAFIA
AAVV,
China's Minorities Nationalities, Foreign Languages Press, Pechino 1989.
AAVV, The Indigenous World 1987-1988, Copenhagen 1998, pp.185.
Paul K. Benedict, Sino-Tibetan. A Conspectus, Cambridge University Press, Cambridge 1972.
Chen Rinong, "Yunnan: a Family of Many Nationalities", China Today, vol. XLIII, n. 12, dic. 1994,
pp.10-14.
M. Cigliano, "La legge sull'autonomia delle minoranze e la sua attuazione, Mondo
Cinese, n. 63, sett. 1988,
pp.13-30.
P. Corradini, "Problemi delle minoranze nazionali in Cina", Mondo Cinese, n. 18, aprile 1977,
pp.3-14.
Da Wei, "Yunnan: Changes and Hopes", Beijing Review, vol. 40, n. 22, giugno 1997, pp.
15-18.
D. Fossati, P Lutteri, S. Vicari, Il giardino dei gelsi, Studi IsMeo, Milano 1977.
B. Furman, T Ahola, "Return of the Question 'Why': Advantages of Exploring Preexisting Explanations",
Family Process, n. 27, dic. 1988, pp.
395-397.
R. Israeli, "A New Wave of Muslims Revivalism in Mainland China", Issues and
Studies, n.3, marzo 1977, pp.
21-41.
P Kunstander, Southeast Asian Tribes, Minorities and Nations, vol. 1, Princeton University Press, Princeton 1967, pag. 211.
Li Daoyong, "The Kammu People in China and their Social Customs", Asian Folklore
Studies, vol. 43, n. 1, 1984,
pp.15-28.
Li Youyi, Ethnology in China, Griffith University Press, Nathan 1980.
V Li _cák, "The Origins of Ethnology in China: a Survey", Archív
Orientální, vol. 61, Praga 1993, pp.
41-57.
V Li_cák, "Ethnic Situation in China with a Special Respect to South China", Archív
Orientální, vol. 60, Praga 1992,
pp.251-267.
C. Mackerras, China's Minorities: Integration and Modernization in the Twentieth
Century, Oxford University Press, Hong Kong 1994.
G. Melis, "Le autonomie regionali nella Cina contemporanea", Mondo Cinese, n. 60, dic. 1987,
pp.3-28.
R. Murphy, "National Minorities in China", IWGA Newsletter, n. 1, Copenhagen 1993, pp.
25-28.
J. Norman, Chinese, Cambridge University Press, Cambridge 1988.
S. R. Ramsey, The Languages of China, Princeton University Press, Princeton 1987.
Z. Weiwen, Z. Qingnan, In Search of China's Nationalities, New World Press, Pechino 1993.
T. Wodiunig, "The Yunnan Indigenous Peoples between Integration and Assimilation", IWGA
Newsletter, n.3, Copenhagen 1994,
pp.24-27.
***
AAVV,
Zhongguo minzu zhengze gailan [Lineamenti generali di politica relativa alle minoranze etniche cinesi], Casa Editrice delle Minoranze, Pechino 1995.
Fei Xiaotong, "Guanyu woguo minzu de shibie wenti" [Sulla questione dell'identificazione etnica in Cina], in AAVV,
Minzu yu shehui [Nazione e Società], Casa Editrice del Popolo, Pechino 1981, pp.5, 26.
Li Daoyong, "Mengla de Kemuren" [I Khmu di Mengla], Minzuxue lunwenxuan 1951-1983 [Selezione di documenti sull'etnografia
1951-1983], vol. 2, Casa Editrice dell'Accademia delle Minoranze di Zhongyang, Pechino 1986,
pp.65-70.
Lin Yuehua, Minzuxue Yanjiu [Studi di Etnografia], Casa Editrice delle Scienze Sociali della Cina, Pechino 1985.
Zhang Tianlu, Zhongguo shaoshu minzu de renkou [Popolazione delle minoranze etniche cinesi], Casa Editrice del Popolo del Liaoning, Shenyang 1987, pag. 2.